Nel panorama del cosiddetto gothic metal, non sono poi così tanti gli album che sono stati realmente capaci di lasciare un’impronta indelebile. Trent’anni fa, nel 1993, i Paradise Lost rilasciavano “Icon”, un’opera che avrebbe contribuito a rifinire il concetto gothic/doom metal e di certa musica oscura in generale, al contempo segnando una transizione significativa all’interno del sound della band e indirizzando definitivamente la carriera di quest’ultima, la quale avrebbe poi influenzato generazioni a venire.
Come ormai noto, per celebrare questo importante anniversario, la formazione originaria di Halifax ha di recente riregistrato il disco, con l’obiettivo di svincolarsi da un contratto discografico svantaggioso che non prevedeva che il gruppo possedesse i diritti su quelle canzoni. Di pari passo con l’annuncio e la pubblicazione di “Icon 30”, i Paradise Lost hanno quindi confermato una serie di date celebrative, nelle quali l’album verrà eseguito per intero.
La prima di queste serate ha luogo venerdì primo dicembre presso lo Shepherd’s Bush Empire di Londra, teatro che annuncia il sold-out diverse settimane prima della data. Del resto, non capita tutti i giorni di sentire una simile pietra miliare completamente riproposta dal vivo.
Se poi ci aggiungiamo che i cosiddetti ‘special guest’ dello show sono nientemeno che i My Dying Bride, l’impressione è che in ballo ci sia pure qualcosa in più di un omaggio emozionante a tre decenni di storia.
Il teatro, avvolto nella calda atmosfera delle luci soffuse, ospita sin dall’apertura delle porte un pubblico devoto giunto da ogni angolo del mondo. Si respira aria di evento e il boato che accoglie l’arrivo dei supporter d’eccezione lo conferma…
I MY DYING BRIDE non sono certo qui solo per scaldare la folla. La loro è un’esibizione di sessanta minuti che, anche a livello di resa sonora e di supporto luci, è sostanzialmente degna di un headliner. Il gruppo non suona dal vivo molto spesso, ma sappiamo bene che raramente ‘sbaglia’ la serata.
A maggior ragione in questo caso, il sestetto appare più che mai desideroso di rendere la vita difficile ai suoi vecchi amici, impostando uno show sullo stesso terreno scelto dagli autori di “Icon”. Andrew Craighan e compagni partono addirittura con “The Thrash Of The Naked Limbs”, dall’omonimo EP del 1993, facendo salire il cuore in gola a tutti i cultori della formazione.
Come accennato, conosciamo bene i My Dying Bride e sappiamo quanto il gruppo sappia preparare bene questo tipo di concerti: pur non avendo alle spalle alcuna data di riscaldamento, i Nostri appaiono solidi e affiatati, impeccabili nell’esecuzione di una scaletta che presenta tantissime perle.
Gli anni passano, ma il growling di Aaron Stainthorpe è ancora feroce come ai tempi d’oro: come per Ross Dolan degli Immolation, il tempo per lui sembra essersi fermato. Rispetto a una volta, si nota solamente un po’ più di audacia nell’interagire e nello scherzare con il pubblico, il quale sembra piacevolmente sorpreso da questo atteggiamento più sciolto e ciarliero da parte del frontman. Quando si tratta di suonare, questa sera la band però martella come in poche altre occasioni: pezzi come “Like Gods of the Sun” e “She is the Dark” spingono molto sul groove dei loro riff portanti e tra le prime file l’headbanging diventa obbligatorio. A metà set, il capolavoro “The Cry of Mankind” concede un pizzico di respiro, ma il set si fa segnalare anche e soprattutto per la foga dei suoi momenti più accesi. Non a caso, nel finale la band rispolvera persino la rabbiosa “The Forever People”, da “As the Flower Withers”: uno schiaffo sonoro che in pochi si aspettano e che lascia la platea definitivamente elettrizzata.
Dopo una prova tanto compatta, per gli headliner si fa dura, ma i PARADISE LOST sono pur sempre dei veterani con un curriculum fatto di esibizioni su palchi enormi e aspettative sempre più elevate. Sulle note di “Deus Misereatur”, posta come intro, i cinque fanno il loro ingresso sul palco del teatro, pronti a eseguire l’album che per loro ha cambiato tutto. Come accennato, questa sera e per tutte le prossime date di questa campagna, “Icon” verrà eseguito integralmente, brano dopo brano, con l’intento di immergere il pubblico in una rievocazione intensa delle atmosfere e delle liriche struggenti che hanno reso fondamentale questo capitolo discografico.
Soprattutto nel contesto live, non spesso ci sentiamo di affermare che la pur inconfondibile voce di Nick Holmes riesca sempre a mantenere potenza e profondità, ma questa sera sia lui che i suoi compagni di band ci risultano subito davvero in forma. Evidentemente, l’avere trascorso diversi mesi sulle ri-registrazioni di questi pezzi ha reso il quintetto particolarmente affiatato e preparato su questa parte del repertorio. Holmes, in particolare, appare molto a suo agio con il timbro sporco, vagamente hetfieldiano, di molte di queste strofe: al di là di qualche normale limite dovuto all’età, lungo tutta la performance, il cantante sembra a suo agio e per nulla affaticato, trasmettendo anche un’idea di genuino divertimento.
Certi brani – “Weeping Words”, “Poison” – vengono suonati dal vivo per la prima volta in assoluto, eppure non si nota chissà quale differenza di scorrevolezza e impatto rispetto a classici come “Embers Fire” o la sempre magnifica “True Belief”. Il merito, in questo caso, è certamente anche di un ottimo elemento come Guido Zima Montanarini, che è senza dubbio il batterista più vigoroso che i Paradise Lost abbiano mai avuto.
Soprattutto nella primissima parte dello show, l’esperienza viene resa ancora più memorabile da un gioco di luci che accentua il mood suggestivo dell’album, ma per episodi ‘di nicchia’ come “Dying Freedom” o “Shallow Seasons” basta la mera esecuzione a far viaggiare con la mente: che spettacolo ascoltare finalmente il groove di queste canzoni dal vivo!
Il pubblico, numerosissimo anche sulle balconate e davvero coinvolto dalla performance, risponde con applausi scroscianti e grida di approvazione – persino con qualche estemporaneo mosh pit in un paio di circostanze – confermando come la magia e il fascino di “Icon” siano ancora vivi e forti dopo tre decenni.
La serata, davanti a una prova tanto riuscita, potrebbe anche chiudersi qui, per quanto ci riguarda. Tuttavia, al momento dei cosiddetti bis, il gruppo ci regala un’altra apprezzatissima chicca, sfoderando, dopo una dozzina d’anni dall’ultima volta, un’esecuzione di “Sweetness”, bellissima traccia del mini “Seals the Sense” (1994). In questo crescendo quasi trionfale, Nick Holmes si ritaglia una parentesi per prendere in giro la platea chiedendo se qualcuno è pronto per ascoltare un pezzo dal demo “Frozen Illusion” (magari!), ma si ritorna a tono più seriosi con la possente “Pity the Sadness” e con le più catchy “No Hope in Sight” – ormai uno dei classici assoluti della band, nonostante risalga solo a qualche anno fa – e “Ghosts”, singolo di punta dell’ultimo “Obsidian”.
Dopo questa pillola di metal dalle palesi sfumature dark wave, giunge veramente il tempo dei saluti e della foto di rito con il pubblico alle spalle. C’è davvero poco da appuntare al quintetto questa sera: la celebrazione del trentesimo anniversario di “Icon”, nella sua tappa londinese, a tratti è stata qualcosa in più di un concerto; l’ora e mezza di show ci è apparsa come un’immersione vivida e a volte anche profondamente emotiva nella storia di una band che ha scritto molte pagine importanti di questo genere musicale.
Con i My Dying Bride al loro fianco, i Paradise Lost hanno offerto una serata memorabile, ricordando a tutti perché il loro impatto su un certo panorama è così duraturo. Mentre la notte si chiude con gli echi di tantissimi classici, è chiaro che il legame tra i fan e questa musica sia destinato a perdurare per molti anni a venire.
Setlist:
Deus Misereatur
Embers Fire
Remembrance
Forging Sympathy
Joys of the Emptiness
Dying Freedom
Widow
Colossal Rains
Weeping Words
Poison
True Belief
Shallow Seasons
Christendom
Sweetness
Pity the Sadness
No Hope in Sight
Ghosts