A cura di Claudio Luciani
Ancora una volta ci rechiamo all’Init Club di Roma per un concerto di una band storica della scena death metal: i Pestilence, che vengono supportati da acts di tutto rispetto come gli Antropofagus e i Corpsefucking Art. La serata è stata di quelle piacevoli, grazie anche a vecchie conoscenze del forum del nostro sito, ed è stata onorata a dovere dai gruppi presenti, che hanno saputo scaldare l’atmosfera coinvolgendo i presenti, sicuramente in numero maggiore rispetto ad altre volte.
NAMELESS CRIME
La serata inizia con i Nameless Crime, band di Napoli che propone una sorta di hard rock dalle tinte moderne: complice l’acustica non perfetta e un genere non particolarmente “in tono” con la serata non si registra particolare entusiasmo da parte del pubblico e i già pochi avventori (anche dovuti ad una presta apertura dei cancelli) preferiscono stare fuori a bere qualcosa o fare due chiacchiere.
1NE DAY
Il gruppo che segue, gli 1ne Day (da Trieste), sembra muovere un po’ più di interesse e per i primi pezzi proposti questo ci è parso giustificato: fautori di un new metal movimentato riescono a far oscillare inizialmente più di una testa. Il problema è che i pezzi successivi mostrano segni di cedimento: le composizioni assumono fosche tinte affini agli ultimi Korn, il che significa melodie “facili” su cui cantare ritornelli aperti e sgolati.
CORPSEFUCKING ART
Grazie a loro la serata inizia a scaldarsi: è indubbio che la band romana riscuota discreto credito presso il pubblico locale, tuttavia ciò è comprensibile grazie alla bontà del songwriting, oltre alla capacità di coinvolgere i presenti. Durante lo show i Corpsefucking Art mettono in mostra il loro riffing “matematico”, basato cioè su riff che tornano ogni volta variati nella struttura, quasi fossero permutazioni semplici di insiemi numerici chiusi: questo rigore ha grande fascino su chi scrive, accresciuto dal sicuro impatto e dalla buona varietà delle ritmiche. Parti lente seguono parti veloci senza mai oltrepassare il limite dell’organicità, configurando canzoni particolarmente adatte alle esibizioni dal vivo, come “Zombiefuck” e “No Woman No Grind”, e arricchite dalla sicura tecnica strumentistica di ogni componente. Altro aspetto pregevole dell’esibizione è la presenza scenica di tutti gli elementi, sempre pronti a dialogare col pubblico e mai statici: potrete capire come lo show sia stato grandemente soddisfacente e perché la gente abbia iniziato a spostarsi dentro al locale.
ANTROPOFAGUS
Quando sale sul palco la storica death metal band genovese il pubblico è già bello caldo: non resta che proseguire in quella direzione. Gli Antropofagus, pur con uno stile ed un approccio più distaccato dei Corpsefucking Art, riescono nell’intento: eseguono buona parte dei pezzi di “No Waste Of Flesh” e – gradita sorpresa per chi scrive – alcune canzoni anche dal disco venturo che, ricordiamo, verrà pubblicato il prossimo dicembre. La loro “postura” live è completamente differente dalla band precedente, si tratta della classica impostazione del death più brutale: fermi come cariatidi, col solo cantante che si concede qualche moto “scalmanato”, gli Antropofagus si preoccupano unicamente di dare luogo ad un asettico massacro, il cui intento primario è la mortificazione della carne. La cosa più curiosa è il tono pacato, quasi timido e sommesso, con cui il cantante si rivolge al pubblico per annunciare ogni pezzo: non ci è dato capire se è un fatto voluto o meno, ma di certo si lega molto bene all’immaginario splatter tipico del gruppo. Menzione speciale va, infine, al chitarrista “Meatgrinder” la cui grande tecnica ha sinceramente impressionato il sottoscritto.
PESTILENCE
Dovete capire: se state leggendo queste parole, se vi capiterà di leggere recensioni scritte dalla stessa persona, la colpa è loro, dei Pestilence: la fissazione, antica, per il death metal di chi scrive passa, proprio di lì. Togliamoci subito il dente e parliamo dei due difetti del concerto: primo punto, pochi pezzi – undici – di cui solo cinque dagli album storici (gli altri erano cinque da “Doctrine” e uno da “Resurrection Macabre”); secondo punto, suoni non eccezionali che però riteniamo un problema non propriamente di mixer quanto di acustica, perché la geometria dell’Init Club lo configura come un locale alto ma “corto”, il che non è proprio il massimo per un gruppo che solitamente predilige frequenze basse. Quando gli Antropofagus scendono dal palco la carica del pubblico sale ulteriormente: i presenti erano tutti consci di essere lì principalmente per un gruppo che ha segnato il movimento death metal nel profondo; oltretutto, poiché riformato da pochi anni, non è stato nemmeno così frequente da vedere. Un ingrassato, rasato Mameli sale sul palco, seguito dagli altri componenti, e attacca con due pezzi da “Doctrine” basendo un po’ tutti, ma a breve diviene chiaro che le nuove canzoni, almeno dal vivo, reggono e divertono. La voce di Mameli è quella di “Spheres” e questo contribuisce ad un sempre maggiore coinvolgimento del pubblico, che va in letterale visibilio al primo classico: “Suspended Animation”; da quel momento in avanti l’esibizione prende letteralmente il volo e la gente, sottoscritto compreso, si scioglie, fino ad esplodere poco dopo con “Soul Search”. Continuano i pezzi da “Doctrine” ma gli avventori non ci fanno più caso e impazziscono per un’esibizione sempre più infuocata, che tocca i suoi apici con “The Secrecies Of Horror” e “Mind Reflections”: chi scrive può garantirvi che ha perso la voce su queste due canzoni, oltre a scoprirsi nuovamente innamorato di un gruppo tanto significativo per il suo personale percorso di ascoltatore. Il tempo è volato e in un’oretta i Pestilence hanno suonato dieci canzoni: è arrivato il momento del teatrino, dunque, che performano perfettamente e, quando le suppliche del pubblico raggiungono la soglia del compiacimento, Mameli annuncia l’unico “encore” della serata, cioè “Resurrection Macabre”, eseguita un pelo più lenta per esaltarne il groove e la pesantezza. Il concerto a questo punto si chiude, lasciando in tutti sensazioni di soddisfazione e, in particolare, nel sottoscritto la netta consapevolezza di non aver mai smesso di essere un fanatico degli olandesi, al punto da incontrarne il chitarrista per confessargli quanto la sua musica avesse significato per lui.