WOTAN
Acclamati da una quantità considerevole dei presenti, salgono sul palco i Wotan,storico gruppo Lombardo dedito all’epic metal più puro. I milanesi salgono comesempre agghindati di tutto punto con maglie e pelli d’orso che rendono, se cene fosse ancora bisogno, chiaro il contesto musicale della band: purtroppo sisa che l’abito non fa il monaco e i Wotan questa volta appaiono spenti e quasisvogliati nel proporre le canzoni composte nei loro venti e passa anni di attività.Il frontman Vanni cerca di mantenere alto l’interesse della folla presentandosicon un elmetto ed un’ascia (sembra più che altro un giocattolo…) e riesumandoun calice a forma di teschio durante l’esecuzione di “Drink in the Skull”. Purtroppole trovate sceniche, accompagnate da un’esecuzione poco convincente, non fruttanoi risultati sperati. Non si riesce a capire il perché della scelta di pescarela maggior parte delle canzoni da “Epos”, episodio a nostro avviso poco riuscitoe decisamente inferiore all’ottimo debut “Carmina Barbarica”. La classica “LordOf The Wind” viene accolta da un’autentica ovazione dal pubblico e risolleva inminima parte la deludente performance. Vanni, Mario e Salvatore concludono laloro veloce apparizione al PIL III sfoderando e incrociando tre spade che leganola loro unione ormai ventennale: è davvero un peccato che il quartetto non riescaad esprimere al meglio dal vivo le proprie potenzialità che su disco risultanoapprezzate più all’estero che in territorio nostrano.
LONEWOLF
Dopo un veloce cambio di palco si alza il telo ed ecco apparire sul palco i francesi Lonewolf: bastano pochi secondi per fare capire di che pasta sono fatti. I cinque sono carichi e vogliosi di tributare al (poco) pubblico presente una prestazione energica e sincera: il chitarrista Damien non sta un minuto fermo e si divide tra il proprio strumento e le backing vocals incitando più volte i presenti a partecipare all’orgia metallica della band. Sebbene poco conosciuti in patria, non tardano ad accogliere i consensi dei presenti che tributano il giusto calore alla performance del gruppo: brani come “Buried Alive” e “S.P.Q.R.” colpiscono nel segno e, pur non inventando nulla di nuovo né eccellendo particolarmente in quanto a qualità, escono vincitori nella loro breve apparizione in terra bolognese.
HOLY MARTYR
I sardi Holy Martyr non necessitano di presentazioni: acclamata da pubblico e critica, la band è stata invitata nel corso della sua carriera alle più importanti manifestazioni true ed epic in Germania e Grecia (che si sa sono intenditori del genere…). Anche se con qualche inconveniente alla spia e con un suono che non rende giustizia alle loro potenzialità, i cinque ci mettono poco a convincere tutti i presenti, forti anche di un’ottima presenza scenica che coinvolge senza mezze misure tutti i presenti. “Spartan Phalanx”, “Lakedaimon” e “The Call To Arms”, presi dall’ultimo “Hellenic Warrior Spirit”, vengono eseguite senza insicurezze e Alex Mereu il quale, oltre che un ottimo cantante, si dimostra anche un ottimo frontman capace di coinvolgere il pubblico nei momenti più concitati e di tributare ai propri compagni di squadra il giusto spazio durante le parti strumentali. Ottima la prova di tutti i membri del gruppo, a cominciare dal duo Spiga/Melis, decisamente a proprio agio sul palco e a scambiarsi continuamente la veste di solista, risultando il degno complemento alla coppia ritmica Pirroni/Ferru. La battaglia non è ancora giunta a conclusione e trovano spazio anche “Vis Et Honor”, “From The North Comes The War” e “Ave Atque Vale”, tratte dal debut e che confermano nuovamente il valore del quintetto in netta ascesa all’interno della scena epic internazionale.
ETRUSGRAVE
Dopo una lunga assenza dalle scene, Fulberto Serena torna ad essere protagonista con la sua nuova band Etrusgrave che ci riconsegna il chitarrista toscano nel pieno delle proprie forze. Seppur limitati a presentare i brani del loro unico album, i quattro tributano all’audience una performance passionale e carica di nostalgia dei tempi passati. La band che accompagna Fulberto si dimostra adeguatamente preparata tecnicamente per riproporre fedelmente i brani del debut senza tralasciare o sminuire l’intensità presente su disco. Sebbene protagonista di una buona prova, Tiziano “Hammerhead” Sbaragli denota un po’ troppa tensione e forse emozione che influenzano negativamente la sua resa sul palco che, se da un lato rimane buona dal punto di vista interpretativo, pecca un po’ dal punto di vista dell’intrattenimento e del coinvolgimento del pubblico. “Deafening Pulsation” e “Wax Mask” sono trasportate fedelmente in sede live e fanno sì che il quartetto riceva la giusta dose di applausi per la performance sobria e sincera. In conclusione viene proposta la propria versione di “Lady Scolopendra”, brano composto da Fulberto nell’epoca Dark Quarterer, con Luigi Paoletti pronto a separarsi dal proprio basso per imbracciare il flauto traverso nella fase introduttiva del pezzo regalando una performance da brividi. La classe non è acqua e gli Etrusgrave meritano ogni singolo applauso che la folla, giustamente, ha tributato loro.
MARTIRIA
C’era una grande attesa dietro la performance dei Martiria, e l’apparizione in pubblico di Rick Anderson ad oltre vent’anni dal proprio abbandono delle scene, avvenuto in concomitanza con l’ultimo periodo di vita degli indimenticati Warlord. La delusione è cocente quando dopo qualche minuto tutti gli elementi della band prendono loro posto sul palco e vi rimangono fino alla conclusione della loro performance: seppur convincenti dal punto dal punto di vista strumentale, i romani peccano dal punto di vista del feeling e del rapporto con il pubblico, totalmente inesistente. Rick Anderson (per tutti i fan dei Warlord: King Damien III) appare un po’ come un pesce fuor d’acqua e sicuramente il lungo tempo passato lontano dalle scene non è stato un elemento a favore dello storico cantante: al di là della buona interpretazione vocale la performance di Rick cade presto nel dimenticatoio tanto che numerose persone accorse nei pressi del palco decidono ad un certo punto dell’esibizione di abbandonare i Martiria per dedicarsi ad altre attività. Un’occasione persa per i Martiria e per il loro storico singer, che dopo la fiacca performance si è aggirato tranquillamente tra la folla per incontrare apertamente i propri fan.
VANEXA
Di ben altra pasta la performance dei Vanexa che, nel giro di pochi minuti dalla scomparsa del telone utilizzato per le proiezioni, riescono a radunare tutta la folla presente alla kermesse nei dintorni del palco. Sono passati quindici anni da “Againt the Sun”, ultimo album composto dalla band che vedeva un Roberto Tiranti poco più che sedicenne, ma la carica della band risulta inalterata tanto da chiedersi come facciano a sembrare tanto coesi. Al basso e alla batteria ecco apparire Sergio Pagnacco e Silvano Bottari, storici membri della band e tra i padri fondatori della cosiddetta “New Wave Of Italian Heavy Metal”. La grinta della band e l’ottima preparazione tecnica dei singoli elementi giovano alla performance che incita tutti i presenti a muovere la testa e a pogare con gusto sulle note della storica “Metal City Rockers”, contenuta nel primo e mai dimenticato debut della band. Il gruppo, galvanizzato dalla risposta del pubblico, sfodera tutto il proprio carisma nei quarantacinque minuti del set intrattenendo tutti i presenti con canzoni del calibro di “Rainbow in The Night”. La preparazione tecnica e l’esperienza acquisita sui palchi di mezzo mondo non sono acqua, e Roberto Tiranti si rivela un frontman di tutto rispetto, capace di intrattenere e coinvolgere il pubblico presente. Gli applausi della folla tributano alla formazione il giusto merito per un’esibizione sentita e ottimamente riuscita. Promossi a pieni voti.
JAGUAR
I Jaguar rappresentano un tassello importante (anche se non fondamentale) della NWOBHM e l’apparizione al Play It Loud III rappresenta un vero e proprio evento per la band anglosassone alla prima calata in Italia. Garry Peppard è il solo membro sopravvissuto alla lineup del debut “Power Games” e viene accompagnato da Jamie Manton e Nathan Cox, rispettivamente voce e batteria, subentrati nella storia dei Jaguar durante la pubblicazione dell’album “Wake Me” avvenuta quasi dieci anni fa. Manton sale sul palco con una lattina di birra e visibilmente euforico, e già dalle prime note sprigionate dagli amplificatori si dimostra deciso a catturare l’attenzione del pubblico con i suoi divertenti sketch che lo renderanno il vero protagonista della serata. Anche il resto della band ci dà dentro e l’attitudine un po’ punk della band giova sicuramente all’energia sprigionata sul palco che catalizza l’attenzione di tutti i presenti che si divertono a saltare e spintonarsi a seguito dei continui incoraggiamenti elargiti dal sempre più ubriaco singer. L’asta del microfono, terminante con una molla nella parte inferiore, viene quasi immediatamente abbandonata dal frontman dopo una rovinosa caduta che stampa sorrisi sui volti dei defender, e il ritrovamento delle chiavi di una Fiat Panda non rappresenta nient’altro che l’ennesima occasione per il simpatico singer di attirare l’attenzione su di sé. Dopo i meritati applausi consegnati dai presenti, cala il sipario sulla senz’altro gradita performance del combo inglese.
BUD TRIBE
Accolta da un autentico boato sale sul palco la band di Daniele “Bud” Ancillotti, storico cantante e frontman della mai abbastanza osannata Strana Officina. La curiosità era tanta, anche in vista della recente pubblicazione del nuovo album della band “Roll to the Bone”, a dieci anni di distanza dal precedente “On the Warpath”. Fortunatamente la lunga attesa viene premiata dall’energia dirompente del quartetto che letteralmente vomita su tutti i presenti la propria carica e carisma. Ad accompagnare il titanico singer, il fratello Sandro al basso e il duo Caroli/Milani, conosciuto anche per i trascorsi nei Sabotage. La carica dei quattro non è seconda a nessuno e il movimento delle teste dei presenti conferma l’effettiva validità del gruppo in sede live. La riproposizione della storica “Non sei normale” della Strana Officina crea una sorta di unione mistica tra il frontman e il pubblico che, coinvolto oltremisura da “Bud”, partecipa con convinzione cantando a squarciagola il classico brano della formazione toscana. I brani del nuovo album non faticano ad essere apprezzati dal pubblico e la band, pur infilando qualche stecca, riesce a farsi perdonare subito grazie alla propria simpatia e carisma. Una garanzia.
EXCITER
La terza edizione del Play It Loud, oltre alla solita cerchia di defender e amanti delle sonorità ottantiane, ha avuto il merito da attirare un certo numero di thrasher occorsi all’evento per spaccarsi le ossa a ritmo della musica dei canadesi. Nuovo album (tutt’altro che eccezionale) e nuovo singer: bastano pochi secondi per capire che gli Exciter non scherzano e sono arrivati per distruggere qualsiasi cosa. I sostenitori del gruppo si lanciano ad incitare i propri beniamini, chi pogando, chi invece scegliendo le vie aeree, a dire il vero poco fortunate dato che la security, forse presa alla sprovvista, manca l’appuntamento al di là delle transenne pregiudicando l’atterraggio di qualche crowd surfer. Purtroppo (deludendo ogni qualsivoglia speranza) la band inserisce nella setlist molti episodi della recente (e meno fortunata) carriera, anche se i numerosi supporter sembrano non curarsene più di tanto, forse anche grazie all’energia e voglia di divertirsi che la premiata ditta Ricci&Co. riesce a produrre senza neanche troppo affanno. Non bisogna attendere poi molto per far sì che i classici del gruppo vengano serviti su un piatto d’argento, ed ecco che “Pounding Metal”, “Heavy Metal Maniacs” e “Destructor” fanno la loro comparsa, con la visibile approvazione di tutti i presenti. Positiva la prova di Kenny “Metal Mouth” Winter, che almeno nella prima parte del concerto ha veramente urlato come un ossesso passando con disinvoltura dal classico cantato agli acuti tanto cari ai precedenti cantanti della formazione. Nulla di nuovo sotto il sole per Ricci e Rob Cohen che, sebbene un po’ inchiodati nelle loro posizioni, fanno il loro dovere sbatacchiando a dovere la testa e manifestando approvazione per il calore dimostrato dal pubblico. Rik Charron si dimostra il solito rullo compressore, e pur non essendo un mostro di precisione fa quello che gli riesce meglio: pestare come un forsennato. C’è ancora tempo per qualche canzone e arrivano le tanto sperate “Long Live The Loud” e “Violence and Force”, cantate a squarciagola da tutti i presenti, visivamente provati anche a causa del tardo orario. Gli Exciter salutano e ringraziano la folla visibilmente soddisfatta dell’ottima performance dello storico gruppo canadese.
JAG PANZER
I Jag Panzer sono una band decisamente sfortunata. Molta della gente accorsa al festival forse stanca o semplicemente per anticipare un lungo viaggio di rientro decide di andarsene prima dell’esibizione del gruppo americano che, una volta alzato il sipario, vede davanti a sé un pubblico notevolmente inferiore a quello che poco tempo prima ha tributato tutto il suo calore agli Exciter. Ma i Jag Panzer non si tirano di certo indietro e forti della loro professionalità daranno a chi ha deciso di rimanere il giusto compenso per un’intera giornata di attesa. Non avendo nessun nuovo album da pubblicizzare (non si conosce ancora la data di rilascio del nuovo “The Scourge of Light”), il quintetto decide di attingere a piene mani dalla propria discografia eseguendo un vero e proprio best of dei brani più significativi e conosciuti cercando di non scontentare nessuno. Maglietta di “The Punisher”, catene e guanti borchiati: Tyrant si presenta al pubblico con il suo classico abbigliamento da combattimento e nel giro di qualche minuto mette subito in chiaro a chi verrà attribuito il premio di miglior cantante della giornata. Ad oltre trent’anni dal suo esordio sulle scene con i Satan’s Host Harry Conklin possiede ancora un’ugola che per estensione e potenza non è veramente seconda a nessuno, e si rimane impressionati dalla sua capacità di dominare il palco sia vocalmente che dal punto di vista della presenza scenica. Mark Briody, John Tetley sono sempre al loro posto e, pur non potendo essere definiti animali da palco, svolgono decisamente bene il loro compito. Un vero e proprio metronomo umano è Rikard Stjernquist alla batteria, a nostro avviso tra i più sottovalutati del genere. Buona anche la prestazione del nuovo chitarrista che riesce nel difficile compito di sostituire Chris Broderick alla chitarra solista: ottima la sua performance nel riproporre i funambolici assoli dei suoi predecessori, anche se in più di un’occasione ha perso un po’ il tempo beccandosi qualche occhiataccia da parte di Rikard. Uno dietro l’altro si susseguono le canzoni che hanno reso celebre il gruppo: “Take To The Sky”, “Iron Eagle”, “Viper”, “Lustful and Free”, “Black”, “The Mission”, “Future Shock”, “King at a Price” tutte inframezzate da introduzioni di qualche decina di secondi, francamente evitabili e che hanno sicuramente tagliato le gambe a un paio di brani che sicuramente potevano essere aggiunti in scaletta. Passa poco tempo ed ecco irrompere “Warfare”, mitico episodio estratto dallo storico e indimenticabile capolavoro “Ample Destruction”. Il tempo inizia ad essere tiranno ma fortunatamente riescono a trovare posto nella scaletta le stupende “Chain of Command” e “Shadow Thief”, a lungo richiesta da tutti i presenti. I Jag Panzer salutano e ringraziano tutti i presenti distribuendo plettri e strette di mano a tutti i ragazzi che hanno resistito fino all’ultimo in prima fila e si congedano tra gli applausi della folla che, nonostante la stanchezza, sembra aver gradito la performance dei cinque.