ANATHEMA
Gli Anathema si presentano sul palco dell’Alcatraz puntuali come una tassa alle otto, cogliendo di sorpresa parte del pubblico. I fratelli Cavanagh appaiono sin da subito in ottima forma nonostante la resa sonora non sia delle migliori. La performance della band britannica, come al solito, punta tutto sul fattore emotivo, con una sentita prestazione dei singoli che suppliscono a qualche sbavatura tecnica. Il quintetto anglosassone incentra il breve minutaggio a disposizione (una quarantina di minut) sulle canzoni del nuovo corso e addirittura non mancano passaggi semi-inediti, tra cui spicca l’ottima “Angels Walk Among Us”, scaricabile sul sito ufficiale della band, ma mai edita in una release ufficiale. Sempre ad effetto l’esecuzione di “Pressure”, mentre il culmine viene raggiunto con un finale ad alta intensità grazie a “One Last Goodbye” e “Flying”. In sostanza gli Anathema si confermano un’ottima band, capace di coinvolgere nel vortice emotivo anche nuovi ascoltatori, proiettata ormai nel futuro e che concede, per il dispiacere di molti, pressoché nulle scorribande ai fasti del passato.
PORCUPINE TREE
Probabilmente neppure Steven Wilson si aspettava un’accoglienza così calorosa del pubblico milanese, infatti l’Alcatraz, stupidamente ridotto a metà con il palco posizionato sul lato corto del locale, appare sul punto di esplodere con tanto di tutto esaurito! Il pubblico italiano è sempre stato particolarmente affettuoso nei confronti della band anglosassone, tuttavia negli ultimi anni il balzo di popolarità è sembrato di quelli che contano. Non a caso Steven e soci si presentano sul palco con la titletrack dell’ultimo album tra l’entusiasmo generale, con tanto di videoclip proiettato sul megaschermo che campeggia dietro la band. Il suono appare sin dalle prime note pulito e potente al tempo stesso, risaltando la stupefacente sezione ritmica, specialmente nelle bellissime riproposizioni di “Anesthetize”, “Open Car” e “Blackest Eyes”. Interessanti le interpretazioni tratte dal recentissimo mini-CD sorto dalle ceneri dell’ultimo disco; a tal proposito, i Porcupine Tree ci deliziano con la strumentale “Nil Recurring” e la dinamica “What Happens Now?”. Momenti ad alto contenuto emotivo vengono regalati da “Sentimental” e “Waiting Phase I”, grazie alla voce sognante di un Wilson impeccabile e le tastiere immense dello strepitoso Richard Barbieri. Con un pizzico di stupore misto ad entusiasmo, accogliamo le digressioni storiche dei Porcupine che aggiungono ulteriore interesse ad uno spettacolo già di alto livello. In particolare appassionano le versioni di “Dark Matter”, tratta dall’ottimo “Signify”, e “Half Light”, perla custodita gelosamente dal singolo di “Lazarus”. Prima di una meritata pausa, il quintetto inglese ci ammalia con la malinconica e sfuggente “Way Out Of here”, seguita dalla più decisa “Sleep Together”. Dopo i canonici cinque minuti di urla e fischi, i nostri ritornano sul palco per la seconda volta, attaccando con la rilassata “Even Less”, unico sussulto da “Stupid Dream”, mentre per il finale Wilson ci riserva le sempre coinvolgenti “Trains” e “Halo”, meritevoli di chiudere in bellezza uno spettacolo di alto livello. Al di là delle disquisizioni che si possono fare sulla scaletta (effettivamente almeno un pezzo da “Lightbulb Sun” avrebbe potuto essere eseguito), i Porcupine Tree si dimostrano una delle migliori band in ambito hard rock progressivo oggi in circolazione: raggruppano all’interno dei propri brani una serie incredibile di sensazioni e cambi d’umore non da tutti. La prestazione tecnica è stata come sempre impeccabile, mentre dal punto di vista scenico la band sta migliorando di anno in anno con filmati sempre più belli e dinamici che fungono da cornice alle canzoni; non ci resta che attendere il loro ritorno per poter gustare, instancabili, le prelibatezze di Steven Wilson.