Report di Luca Pessina e Giacomo Slongo
Introduzione di Giacomo Slongo
A sette anni dall’ultima edizione, il Prague Death Mass torna in grande stile con l’intento non dichiarato (ma palese) di ritagliarsi un ruolo di rilievo nell’ormai vastissimo circuito di festival estremi del Vecchio Continente, guardando soprattutto a ciò che di più elitario, occulto e ricercato il filone black/death è solito produrre nelle forge del vero underground.
Come detto, rispetto a quella che fu la terza edizione nel 2016, quest’anno gli organizzatori non hanno voluto badare a spese, con una line-up a dir poco imponente (ventuno gruppi spalmati su due giorni) e una scelta della venue – il prestigioso MeetFactory, sala concerti/centro di arte contemporanea nella periferia di Praga – che in qualche modo è bastata a certificare le mire di un brand dal potenziale altissimo, il cui concept e il cui impegno nella messa a punto di un evento alternativo (anche per quelli che possono essere gli standard di certa musica) ci hanno permesso di chiudere un occhio su qualche sbavatura organizzativo-logistica imputabile alla poca esperienza.
D’altronde, quando si tratta di gestire per la prima volta un migliaio di presenze, ci sta che qualche dettaglio si perda per strada, da qui la mancanza di vere e proprie aree in cui sedersi e rifiatare, la presenza di poche distro per il proverbiale ‘shopping da festival’ e un servizio di stand gastronomici funzionale ma poco vario (a cui i vostri inviati hanno comunque sopperito facendo tappa in un ottimo ristorante serbo nelle vicinanze); imperfezioni – lo ribadiamo – correggibili tranquillamente con il tempo e la pratica, che hanno pesato molto meno dei pregi riscontrati durante la due giorni di fine ottobre, dal rispetto scrupoloso degli orari all’acustica eccellente, passando per la possibilità di visitare – acquistando per meno di 25 € un biglietto inclusivo di trasporto in bus e ingresso – l’iconico Ossario di Sedlec, a circa un’ora dalla capitale ceca (la copertina di “Nightwork” dei Diabolical Masquerade vi dice niente?).
Un evento sold-out a cui ci siamo recati carichi di aspettative e curiosità, e che ‘a bocce ferme’, ora che è passata qualche settimana, possiamo dire sia valso assolutamente la pena dell’investimento. Ma vediamo meglio com’è andata…
VENERDÌ 27 OTTOBRE
Il nostro Prague Death Mass inizia percorrendo la pista carovaniera dei DAKHMA, uno dei tanti progetti che negli ultimi anni hanno coinvolto il cantante/polistrumentista elvetico Menetekel. Se non più tardi di luglio, su queste stesse pagine, abbiamo apprezzato la sensibilità avantgarde/black metal del Nostro con l’esordio dei Wyrgher – l’ottimo “Panspermic Warlords – qui ci spostiamo su coordinate più nefaste e tenebrose grazie ad una commistione di death e black metal che deve tantissimo all’operato di realtà come Grave Miasma, Necros Christos e Teitanblood, e che in sede live, a differenza di quanto udito su un “Blessings of Amurdad”, album pubblicato da Eisenwald nel 2021, sceglie di limitare le parentesi etniche da “Le mille e una notte” in favore di un approccio squisitamente elettrico e viscerale.
L’impatto è insomma quello tipico di una performance del genere, in un flusso di soluzioni ora furiose, ora catacombali valorizzato da una buona dose di ingegno e ‘orecchiabilità’ nell’incastro delle varie parti, con il quartetto che dal palco – pur senza molta dimestichezza con questa dimensione – dimostra di saper svolgere il suo compito in modo solido e preciso, compensando un po’ di freddezza con una resa strumentale e vocale degna di questo nome. Un buon concerto, in definitiva, che ci fa subito calare nel mood malvagio dell’evento. (Giacomo Slongo)
Moniker clamoroso per una band invero non così eccezionale. Questi, in sostanza, sono i BAXAXAXA, band la cui partecipazione sempre più attiva ai festival immaginiamo sia dovuta alla presenza in line-up di ‘Traumatic’ Patrick Kremer, proprietario dell’immarcescibile Iron Bonehead Productions. Qui il Nostro smette i panni di discografico per indossare quelli (maledetti) di frontman black metal, facendo poi affidamento su un manipolo di musicisti di comprovata esperienza all’interno dell’underground teutonico, ma il risultato finale dell’operazione – ahinoi – fatica a brillare e a sembrare qualcosa di più rilevante di un mero divertissement.
A livello stilistico, ci troviamo dalle parti dei Bathory dell’esordio, dei Samael di “Worship Him” e della premiata ditta Hellhammer/Celtic Frost, e se è vero che guardare ai primordi e alla semplicità non rappresenta di per sé un punto a sfavore (anzi!), spiace constatare che un bacino potenzialmente così ricco di idee efficaci venga sprecato dal quintetto in un suono che vive più di fascino naive che di riff degni di nota, in grado di farsi segnalare – in quarantacinque minuti di performance – solo all’altezza di un paio di midtemponi particolarmente ignoranti. A fine concerto la domanda ci sorge spontanea: anche nel black metal esistono i raccomandati? (Giacomo Slongo)
Altro giro, altra ‘chicca’ che l’organizzazione ha deciso di far volare su Praga. Dopo la parentesi gothic rock dei XIII. Století, chiamati a sostituire i nostrani Aborym, è la volta dei MISOTHEIST, tra le punte di diamante del cosiddetto ‘nidrosian black metal’ (ecosistema di gruppi venutosi a creare nei dintorni di Trondheim, Norvegia) e autori di un paio di album chiacchieratissimi tra i cultori di certo metallo nero denso e liturgico, il cui hype viene suggellato da uno show che ci manda in catalessi all’Inferno. In senso buono.
Per la stragrande maggioranza del tempo, infatti, ci si scontra con un muro di ritmiche e riff ipnotici, ossessivi, il cui intento principale non sembra essere quello di aggredire la platea, quanto piuttosto di generare uno stato di trance soltanto a tratti spezzato da parentesi più ritmate e melodiche, con la figura imponente e spiritata del frontman B. Kråbøl a concentrare su di sé gli sguardi della sala. Musica la cui dimensione ideale non è forse quella dal vivo, ma che questi discepoli di Svartidauði e Deathspell Omega si dimostrano comunque bravi a portare sul palco, non sbagliando pressoché nulla dal punto di vista esecutivo. (Giacomo Slongo)
Dalla Nuova Zelanda con furore, dopo un viaggio estenuante di quarantaquattro ore (come dichiarato sui social), i DIOCLETIAN piombano sul Prague Death Mass per annichilirci, carbonizzarci e spazzarci via come polvere.
Parliamo a tutti gli effetti di veterani della scena war metal degli anni Duemila, il cui approccio a dir poco sprezzante e ‘no compromise’, unito ad un songwriting efferatissimo ma meticoloso, ha permesso loro di arrivare giusto un filo sotto maestri come Blasphemy e Conqueror nelle classifiche di gradimento degli appassionati, e quella di stasera è l’occasione che aspettavamo da tempo per saggiarne le capacità distruttive. Aspettative ripagate? Assolutamente sì, anche perché quando i Nostri partono con la loro setlist, in breve, non ce n’è più per nessuno all’interno del locale: un assalto continuo, martellante e parossistico è quello che il quartetto propina agli astanti senza che a questi ultimi venga data la possibilità di rifiatare tra un brano e l’altro, in un flusso inesauribile di riff come colpi di mitragliatrice, ritmiche come sassate e screaming vocals lancinanti che guarda soprattutto all’esordio “Doom Cult” e all’ultimo “Amongst the Flames of a Burning God” (allucinante la resa di episodi come “Invincibility Through Strife” e “Repel the Attack”).
Black/death/thrash ultra-barbaro che però, a differenza di quello proposto da mille altri gruppi agghindati con borchie, cartuccere e occhiali da sole, ha dalla sua un songwriting dallo sviluppo di certo non lasciato al caso, e che spogliato di un po’ di violenza e distorsioni – a tratti – suona quasi come una versione berserk dei Sodom di “Persecution Mania”. Spiace non sentire all’appello una ‘hit’ come “Beast Atop the Trapezoid”, la quale avrebbe ci avrebbe permesso di apprezzare qualche parentesi caterpillar in stile Bolt Thrower, ma a parte questo non si possono muovere critiche alla ferocia, all’impegno e al sudore profusi dai Diocletian in questa sede. Guerra totale. (Giacomo Slongo)
Poteva mancare la Francia ad un festival con così tanto black metal in cartellone? Ovviamente no, e infatti ecco il supergruppo degli HELL MILITIA prendere possesso dello stage quando il nostro orologio segna ormai le 22:30 passate. Chiamato a promuovere il buon “Hollow Void”, uscito lo scorso anno su Season of Mist dopo un silenzio discografico lunghissimo, il quintetto transalpino si conferma qui un vero portabandiera di nichilismo, esperienza e bruttezza (non che ci si aspetti altro in certi ambienti…), scegliendo subito di alzare l’asticella della ‘spettacolarità’ con la proiezione di visual disturbanti in accompagnamento alla performance, trovata semplice ma efficace per lasciare il segno sulla platea, specie con una carrellata di immagini tanto morbose e depravate a supporto.
Questioni estetiche a parte, possiamo dire che questi musicisti già visti all’opera con Temple of Baal, The Order of Apollyon e Vorkreist (tra gli altri) si siano resi protagonisti di uno show formalmente inattaccabile, sebbene – un po’ come su disco – la qualità complessiva della loro proposta abbia viaggiato su binari gradevoli ma mai veramente eccelsi. Di fatto, episodi come “Lifeless Light”, “Black Arts of Crime” o “Jacob’s Ladder” non possono contare su un songwriting autorevole quanto quello di alcuni connazionali (Antaeus? Arkhon Infaustus?), ciononostante – vuoi perché è evidente che il gruppo ‘ci creda’, vuoi per la dimestichezza maturata in due decenni di carriera – Dave Terror e compagni finiscono per tenere il palco quasi si sentissero i Mayhem di turno, dando prova di grande compattezza e legittimando lo slot con la giusta dose di ‘cazzimma’ (specie quella del nuovo frontman Spir Ignis). Anche a questo giro, missione compiuta. (Giacomo Slongo)
Rimaniamo su registri ‘neri’ con i DJEVEL, tra le formazioni che nell’ultimo decennio hanno contribuito maggiormente a rinverdire la tradizione ‘true norwegian black metal’ di inizio/metà anni Novanta.
Musicisti che non hanno nessuna intenzione di contraddire i diktat rigidissimi del filone, e che alla flebile luce di qualche candela disposta sul palco si lanciano in una sepolcrale dissertazione a base di Burzum, Darkthrone della cosiddetta ‘Unholy Trinity” e Taake il cui incedere ipnotico, ripetitivo e zanzaroso – quasi un mantra recitato dal profondo di una foresta scandinava – ci fa davvero sprofondare in un’atmosfera notturna e maligna.
A conti fatti, per apprezzare pienamente una performance del genere, fatta di brani lunghissimi che sembrano incastrarsi l’uno all’altro in un flusso di coscienza, è necessario anzitutto lasciarsi andare ed essere molto ‘dentro’ un certo tipo di suoni e immaginario, ma anche mettendo in conto un po’ di senso di sfinimento (incentivato dall’ora tarda) lungi da noi negare il fascino dell’operazione portata sul palco dai norvegesi, che con brani come “Afgrundsferd” e “Kronet Av En Væpnet Haand” – per molti dei presenti in sala – hanno saputo imporsi come il vero highlight di questa prima giornata di festival. (Giacomo Slongo)
Ci è già capitato di vedere i MORTUARY DRAPE chiudere eventi importanti – pensiamo all’ultima giornata di un Maryland Deathfest di una decina di anni fa, ad esempio – e, a costo di apparire campanilisti, sappiamo bene come il gruppo piemontese sia perfettamente in grado di adempiere a tale ruolo. Arrivando dopo una sfilza di band che, almeno in certi casi, hanno badato più all’apparenza che alla sostanza, Wilderness Perversion e compagni per quanto ci riguarda assumono anche la funzione di veri salvatori della serata, visto che finalmente ci troviamo davanti a una realtà che, oltre alla presenza scenica, ha anche e soprattutto i riff e le canzoni.
Senza togliere troppo ai gruppi del cartellone di oggi, i Mortuary Drape sono di tutt’altra categoria, almeno in ottica live: l’impatto e la disinvoltura sul palco ostentata dal quintetto sono sotto gli occhi di tutti, tanto che lo show sembra coinvolgere ognuno dei presenti in sala. L’esecuzione dei pezzi mantiene un ritmo serrato e l’ora a disposizione vola letteralmente via, tra una “Mortuary Drape” questa sera posta circa a metà scaletta e tanti altri classici come “Tregenda”, “Necromaniac” o “Primordial”. Prima dell’arrivo del gruppo ci sentivamo in balia di sonno e stanchezza, ma al termine del concerto abbiamo nuovamente provato una piacevole sensazione di vitalità. (Luca Pessina)
SABATO 28 OTTOBRE
La prima band che seguiamo nella giornata di sabato sono gli HEAVING EARTH, una delle poche formazioni prettamente death metal invitate a questa edizione del Prague Death Mass. Il quintetto ceco è circondato da un’agguerrita schiera di realtà black metal e, forse nel tentativo di allinearsi al mood generale dell’evento, si presenta guidato da un frontman agghindato da ‘prete posseduto dal demonio’. Onestamente, l’esperimento appare subito inutile e maldestro, anche perché una larga parte del pubblico nemmeno sta prestando attenzione a ciò che avviene sul palco.
Sono purtroppo in pochi a seguire e apprezzare le evoluzioni strumentali della band, artefice con il recente “Darkness of God” di un ottimo esempio di death metal sperimentale e dissonante, che li ha messi in diretta competizione con maestri come gli Ulcerate. Sorvolando sul look del cantante, la prova dei cechi è decisamente positiva sul versante esecutivo, con i brani dell’ultimo album perfettamente eseguiti da un gruppo che a livello tecnico sa senza dubbio il fatto suo. A questo punto, speriamo di potere vedere gli Heaving Earth in un contesto per loro più accogliente. (Luca Pessina)
Si resta su lidi death metal, ma con maggiore linearità e forza bruta, con i RITUALIZATION, ormai dei veterani della scena transalpina. I francesi non sono dei mostri di personalità, ma sono la classica band che dal vivo rende parecchio, a maggior ragione se il contesto generale tende più all’atmosfera. Rispetto a molti altri colleghi qui presenti, i Ritualization sono degli animali e, proprio come i Diocletian ieri, sanno come farsi notare e flagellare il pubblico senza pietà, con buona pace di tuniche e orpelli vari, che qui non hanno proprio senso di esistere.
Il corpulento Warchangel è un grande frontman, in tutti i sensi, e sotto la sua guida il gruppo non concede tregua, con i vari musicisti che sembrano fomentarsi a vicenda, sulle note di una proposta serrata ma sufficientemente lucida per restare in testa. Gli Angelcorpse o i Centurian sarebbero stati fieri di una performance di questo calibro. (Luca Pessina)
La parola d’ordine, in questa parentesi pomeridiana del sabato, sembra essere ‘ignoranza’. Così, dopo la carica a testa bassa dei Ritualization, è la volta dell’aggressione rutilante e senza compromessi dei THORYBOS, formazione tedesca a cui basta la presenza al basso di un certo Ryan Förster (Blasphemy, Death Worship, ex Conqueror) per avere in pugno la frangia di pubblico war metal del festival. Oltre al musicista originario della British Columbia, però, non va affatto sottovalutata la figura del frontman V. Tyrant of Necrocracy and Clandestine Blood Cult Inauguration, a dir poco gigantesco nella stazza e invasato nel modo di approcciare il ruolo, il cui carisma deviato – diciamolo subito – finisce per diventare il vero motivo d’interesse dello show.
D’altronde, dal punto di vista della qualità del repertorio, il quintetto non può dirsi esattamente un nome di prima fascia, e il suo black/death parossistico votato al culto di Ross Bay, alla lunga, manca di quel lavoro di rifinitura invece riscontrabile nell’operato di gruppi come Heresiarch e Profane Order, perdendosi in un’aggressione tanto efferata quanto uguale a se stessa. Non a caso, l’apice lo si raggiungerà sulle note di una (bella) cover di “Ritual” dei Blasphemy, con occhiali da sole e maschere antigas a fare la loro comparsa sul palco per un po’ di sana autoironia sul becero immaginario del filone. (Giacomo Slongo)
Una pausa ci viene più o meno involontariamente concessa da VOID OV VOICES, il progetto ritualistic/ambient di Attila dei Mayhem. Tunica, cappuccio, lumini, ‘soundscape’ iniettati di noise, effetti e ululati vari chiamano una mitragliata di telefoni e storie Instagram, ma l’interesse svanisce dopo pochi minuti. Di supercazzole simili ne abbiamo viste a vagonate a festival come il Roadburn. A questo punto preferiamo uscire a prendere una boccata d’aria e a contemplare le rotaie della ferrovia qui accanto. (Luca Pessina)
Dopo qualche minuto di riposo, torniamo all’interno dell’edificio per assistere a un altro show ‘made in Italy’. Dopo avere esponenzialmente incrementato l’attività live negli ultimi tempi, gli HIEROPHANT arrivano a Praga molto ben rodati e desiderosi di lasciare il segno in un evento dove è probabile che ancora molti non li conoscano a fondo.
Non è ormai più notizia che il gruppo italiano abbia spostato le sue mire artistiche verso un black-death metal decisamente inquieto e serrato, lasciandosi alle spalle ogni traccia di hardcore o degli altri generi esplorati a inizio carriera. Gli Hierophant che hanno inciso gli ultimi “Spawned Abortions” e “Death Siege” sono a tutti gli effetti una nuova band ed è chiara la loro intenzione di insistere su questo percorso, a maggior ragione facendosi vedere a eventi come il Prague Death Mass. L’allenamento degli ultimi mesi si fa subito sentire, tanto che, a livello di impatto e presenza scenica, siamo su un altro pianeta rispetto a molte delle band che hanno preceduto i ragazzi italiani. Il nuovo batterista Federico Leone è devastante, ma si può dire che sia l’intera line-up a girare alla perfezione, ormai affiatata da un gran numero di concerti, oltre che supportata da una resa sonora particolarmente definita e tagliente.
Al repertorio recente servirebbe forse qualche pezzo più roccioso e controllato, così da fornire ulteriori sfaccettature e cambi di passo anche in sede live, ma quella di oggi resta comunque una delle prove migliori fra quelle a cui abbiamo assistito nel corso di questa edizione del festival. (Luca Pessina)
Avvicinandosi sempre più alla fine del Prague Death Mass, ci si imbatte in una delle vere chicche dell’evento. Autori di uno degli album dell’anno, quel “Liber Lvcifer II: Mahapralaya” pubblicato a gennaio dalla World Terror Committee, i THY DARKENED SHADE confermano con una semplicità che ha quasi dell’incredibile (non trattandosi di una band che suona spesso dal vivo, anzi!) la loro natura fatta di classe innata e tecnica superiore, imbastendo uno show a dir poco intenso e irreprensibile.
Dietro le pelli, a differenza di quanto avviene su disco, non troviamo Hannes Grossman (Alkaloid, ex-Hate Eternal, ex-Obscura), ma il batterista – così come il chitarrista e il bassista chiamati a completare la line-up – formano con il duo Semjaza e The A una squadra solidissima, la quale dimostra subito di essersi preparata a dovere prima di venire qui.
Fin dall’opener “Nox Profunda”, la resa è pressoché identica a quella di un CD, e se è vero che gli strumentisti non si concedono molti movimenti sul palco, rimanendo concentrati sulle trame vorticose e progressive alla base del repertorio, ci pensa il frontman a sopperire alla cosa, ricordando non poco Erik Danielsson dei Watain per la fisicità della performance. Un ardore che cresce con il passare dei minuti e che si traduce anche in un lancio di ossa (umane?) verso il pubblico, con almeno uno spettatore ferito e costretto ad allontanarsi dalla sala, mentre dall’impianto del locale le varie “Veneration for the Fireborn King”, “Typhonian Temple” e “Δαήμων o φώσφορος” sublimano una volta per tutte la visione artistica di questi eredi di Dødheimsgard, Deathspell Omega e Dissection. Straordinari. (Giacomo Slongo)
Dopo la convincente prova dei Thy Darkened Shade, si torna in ambienti più familiari con i BØLZER, ormai dei veterani di questo tipo di palchi. Nell’ultimo decennio abbiamo avuto modo di ammirare il duo svizzero più e più volte, quindi restiamo tutto fuorché sorpresi dal valore della sua performance. Certo, ultimamente ci sembra che Okoi si senta più a suo agio con il pulito che con lo screaming, ma si tratta di un dettaglio da poco: la resa complessiva, anche sul fronte vocale, resta più che soddisfacente.
Almeno una volta ogni anno ci imbattiamo nei Bølzer e sta quindi diventando difficile trovare parole nuove da spendere su una loro performance; se da un lato ci si sta chiedendo che fine abbia fatto il successore di “Hero”, dall’altro è sempre un piacere ascoltare le versioni live di pezzi come “Roman Acupuncture”, “The Archer” o “Entranced by the Wolfshook”, ormai diventati classici del panorama black-death metal contemporaneo. (Luca Pessina)
Dall’approccio euforico e dinamico del duo elvetico, passiamo a quello torbido e ipnotico dei MARE, realtà nella quale ritroviamo vari affermati personaggi dell’attuale circuito black metal, da HBM Azazil (aka Kvitrim) – visto ieri con i Djevel – allo stacanovista Luctus (Behexen, Beyond Man, Darvaza, Fides Inversa, Ritual Death, ecc).
La proposta del quartetto norvegese è un black metal per lo più cadenzato, dai giri di chitarra lunghi e magnetici, su cui si staglia il cantato istrionico, spesso tendente al teatrale, di HBM. La sala viene avvolta dal buio, solo poche candele illuminano il palco, e lo show assume quindi i connotati di una tetra funzione, con i quattro scandinavi, statici nelle loro posizioni, come oscuri officianti. Davanti a un’esibizione di questo tipo, risulta fuori luogo concentrarsi su concetti come verve o presenza scenica: i Mare pescano dal loro repertorio – il full “Ebony Tower”, ma anche l’EP “Spheres Like Death” – e suonano senza sbavature, lasciando che la platea cali poco a poco in una sorta di stato catatonico. C’è chi chiude gli occhi e chi sembra lasciarsi cullare dalle fumose trame della band. Di certo l’esperienza ha il suo perché, a maggior ragione se consumata in una location dall’acustica notevole come quella in questione. (Luca Pessina)
Anche se forse non del tutto voluto, il contrasto fra il concerto dei Mare e l’arrivo dei DEAD CONGREGATION è di quelli liberatori. I greci sono una death metal band totale, forse IL gruppo death metal degli ultimi vent’anni, ed è normale che al loro cospetto praticamente ogni altra formazione estrema impallidisca, a maggior ragione se di un carattere più atmosferico.
Il quartetto ellenico non cambia il proprio set da anni, anche perché non sembra avere ancora completato l’attesissimo successore del micidiale “Promulgation of the Fall”, tuttavia vederlo all’opera su un palco resta un’esperienza a dir poco gratificante.
Il senso di potenza che i Dead Congregation sanno esprimere è quasi palpabile ogni volta che i Nostri si lanciano nell’esecuzione di brani come “Morbid Paroxysm” o “Quintessence Maligned”. Siamo al cospetto di death metal nella sua forma più pura e viscerale, la cui interpretazione va ben oltre la mera riproposizione di stilemi tradizionali.
La band ha fatto proprio il suono dei maestri e, curando riff, dinamiche e atmosfera, ha nel corso degli anni allestito un repertorio che in molte circostanze può vantare la stessa autorevolezza di molti classici. Suonando come se non ci fosse un domani – espressione scontata, ma che rende perfettamente l’idea del loro modo di stare sul palco – i greci tolgono il fiato per intensità e coesione, tanto che, a costo di apparire noioso, per chi scrive il miglior concerto della quarta edizione del Prague Death Mass non può che essere questo. Il classico finale col botto. (Luca Pessina)