Report a cura di Davide Romagnoli
Non risulta ormai niente di strano vedere festival che mischiano panorami di musica completamente diversi tra loro. L’ascoltatore onnivoro è divenuto il maggior cliente di queste manifestazioni e senza problemi possiamo dire che la musica, in questo senso, ne guadagna eccome, autoalimentandosi tra le sue varie forme d’essere. Risultare in calendario con nomi assolutamente tra i migliori di varie scene musicali diverse, per non dire talvolta antitetiche tra loro, non può quindi che rendere eccezionale la line-up di un festival come il Primavera Sound di Barcellona, situato nella cornice del porto e del Parc del Forum, direttamente su mare e spiaggia della città catalana. Emblemi dell’indie pop sono i venerati Arcade Fire e Bon Iver; performance mirabili di musica sperimentale sono quelle dei Death Grips o del mito elettronico Aphex Twin; psichedelie rock fumose e roboanti sono quelle dei King Gizzard & The Lizard Wizard, dei Black Angels, della reunion dei This Heat; ecco poi il cuore pulsante anni Novanta delle tonalità di Greg Dulli e dei suoi Afghan Whigs; tra i migliori gruppi post-punk in circolazione troviamo gli ex-VietCong, ora chiamati Preoccupations, così come tra i più grandi gruppi punk rock troviamo i mitici Against Me!. Indimenticabili, inoltre, le presenze di Van Morrison, così come il secret show dei Mogwai per la presentazione del nuovo album e di Thurston Moore, l’elettronica ipnotica e suadente di Flyng Lotus e Tycho, il pop canadese dei mitici Broken Social Scene, l’hip hop di Skepta e dei Run The Jewels…e innumerevoli altri. Incredibile il panorama di musica valida presente nei palchi di questo festival e immancabile anche la presenza di band propriamente metal, di cui abbiamo deciso di occuparci maggiormente nel corso di questo live report. L’esperienza del festival è stata da promuovere in toto e consigliamo la partecipazione nel corso delle prossime manifestazioni, soprattutto se saranno esenti da alcuni problemi situazionali come il basso volume della zona dei due main stage, gli altissimi prezzi del cibo in loco e delle problematiche legate al ritorno a casa negli orari tardi della notte. La crescita del festival è sicuramente sintomo di uno status di qualità e partecipazione che rendono il Primavera Sound uno dei migliori festival di musica in Europa; e ci auguriamo mantenga questo status, anche in favore del nostro genere di predilezione.
SLAYER
Difficile inquadrare in una situazione da main stage, tra Solange e Bon Iver, un act come la band di Araya. Anche se per qualcuno è difficile ammetterlo, gli Slayer hanno ormai dalla loro una trascendenza di pubblico che ha superato ormai quasi tutte le barriere di genere. Non sicuramente per un ammorbidimento o una virata musicale, quanto più per il modo che oggi si ha di intendere la musica, o forse il marketing, e, senza contare H&M, almeno nei festival che sembrano raccogliere la più ampia fetta di pubblico musicofilo di oggi. Gli Slayer rimangono indubbiamente uno dei gruppi fondamentali di un panorama musicale e la loro presenza si inquadra ormai al di fuori dei semplici confini del thrash metal. La performance di cui trattiamo è infatti degna del loro nome, finalmente, dopo alcuni concerti sciatti e poco convincenti nel corso degli ultimi anni. I suoni rendono giustizia, nonostante l’area del main stage fosse viziata da alcuni problemi di volumi bassi, alla band di un Araya particolarmente in palla, seppur con una voce che rimane sempre lontana dai vecchi fasti. La setlist è ormai quella canonica che si risente da qualche anno a questa parte, ma poco importa. Il pubblico è agguerrito, rispecchiando la potenza della band, che non si risparmia per l’occasione ma, anzi, dà sfoggio appunto di una delle migliori performance degli ultimi due/tre anni. E se “Dead Skin Mask” appare ormai monocorde per le tonalità di Araya, è anche vero che è sempre un piacere poter riassaporare la tripletta finale “Raining Blood” / “South Of Heaven” / “Angel Of Death” all’interno di un panorama musicale come quello del Primavera.
CONVERGE
Sono circa le tre di notte del giovedi e siamo di fianco al mare quando Kurt Ballou e soci iniziano a tirare le loro canoniche bordate post-hardcore. Complice un orario e una stanchezza, o forse anche altre proposte in concomitanza di orario, non facilmente gestibili, non è molto il pubblico presente alla performance dei Converge. Vero è altresì che la band, in Europa, non è poi presente per quest’estate al di fuori di questa data, ed ogni situazione è opportuna per cogliere l’occasione di assaporare una formazione live di questo calibro. La scaletta verte soprattutto su “Axe To Fall” e “All We Love We Leave Behind”, album che compongono la maggior parte delle canzoni della serata, mentre lo spazio finale è lasciato alla doppietta di “Jane Doe” e “Concubine”: bordate non indifferenti che lasciano il segno. Forse non il momento migliore per assaporare i ragazzi di Salem, Massachussets, anche all’interno di una giornata così densa di eventi e di emozioni, ma pur sempre in grado di mostrarne il valore effettivo, soprattutto in sede live.
SKINNY PUPPY
Se per i Converge l’ora era piuttosto tarda, con gli Skinny Puppy siamo decisamente nella giornata successiva inoltrata. Sono circa le quattro di mattina quando la storica band di Vancouver calca l’Adidas Stage, che dà sul porto del Parc Del Forum. Nivek Ogre è pieno di siringhe conficcate e le tonalità performative rimangono ancorate ai Throbbing Gristle e ai beneamati Cabaret Voltaire, emblemi industriali che ancora tappezzano magliette e zaini di molti dei presenti al Primavera. Lo sparuto popolo di fedeli al verbo dell’industrial teatrale si ritrovano dunque ad assaporare una delle chicche di questa giornata di festival. Ogre, Cevin Key e Mark Walk compongono la triade Skinny Puppy di oggi e per molti questo è stato uno dei momenti più intensi e storici dell’intera giornata musicale, se non del Primavera Sound tutto, almeno per quanto riguarda l’importanza di una band che ha investito i panorami dell’elettronica e dell’arte performativa unite alla difficoltà effettiva di vederla di nuovo in Europa. Poco importa per la poca voce di Nivek Ogre e il fatto che molte delle musiche proposte siano suonate sicuramente datate. Gli Skinny Puppy hanno certamente un valore e un’importanza che superano i confini dell’esibizione in sé e quella quarantina di minuti prima dell’alba sono stati di sicuro qualcosa di rilievo.
MOGWAI
Annunciati la mattina stessa, i Mogwai appaiono come uno dei più interessanti secret show di questa edizione del Primavera Sound di Barcellona. Sul Bacardi Stage, nell’area denominata Primavera Bits, luogo di raduno godereccio ed elettronico per le avventure più notturne, la band scozzese decide di presentare in anteprima il nuovo album “Every Country’s Sun”. Forse non la maniera migliore per criticare la nuova fatica dei Mogwai, ma l’esibizione live di questa giornata non risulta veramente niente di trascendentale, soprattutto se inquadrata nell’ottica della qualità del festival e ancor più della storia della band di Glasgow. L’album in questione risulta il canonico mash up della carriera, ma non brilla per evidenti sbalzi emotivi o introspettivi, visionari o fluttuanti, sbalzi che avevano contraddistinto anche la produzione ultima della band (come le colonne sonore di ultima produzione, “Les Revenants” in primis). Anche l’elettronica non risulta progredire rispetto a quanto avvenuto in “Rave Tapes”, ma si innesta a livelli di gusto generalista, che non spettano sicuramente ad una formazione così rivoluzionaria come i Mogwai. Oltretutto, l’inserimento della voce di Stuard Braithwaith rischia, laddove presente, di incasellare i Mogwai in quelle band indie di cui è ormai saturo il panorama odierno (e non solo quello del festival). Certamente i momenti migliori à la Mogwai ci sono eccome, ma data la validità della band ci si aspettava sicuramente qualcosa di più dall’esibizione in sè, che rimane sicuramente gradita e speciale ma non epocale come avrebbe potuto essere, se la setlist non fosse stata di un album di questo calibro. Ci auguriamo che il disco in sé risulti molto superiore a queste coordinate espressive.
GOJIRA
Il problema dei Gojira è sicuramente nel loro aspetto. Difficile infatti non fidarsi dei visi troppo bonari e benevoli di Joe Duplantier e soci, di sicuro contrasto con la loro musica oscura e impervia, seppur negli ultimi tempi divenuta sempre più accessibile. Così come è difficile – e qui il pro principale – non entusiasmarsi alla carica espressiva dei riff della band di Bayonne. I francesi sanno cosa vuol dire suonare dal vivo dell’heavy metal tirato e funambolico, ai limiti di quel death da cui prendono le mosse, memore di una tradizione ormai datata e abusata ma ancora capace di mostrare denti, doppia cassa e distorsioni, laddove proviene da musicisti onesti ed autentici. Da “Only Pain” a “Vacuity” l’entusiasmo della folla non viene meno e risponde alle sferzate dei Gojira con sempre maggiore veemenza, facendo inquadrare la performance di Duplantier e famiglia (non solo per il fratello batterista Mario, ma anche per la coesione della line-up, la stessa dalla nascita del gruppo) tra le più efficaci e riuscite dell’intero festival, almeno alla luce di ciò che può decisamente chiamarsi ancora progressive metal.
SWANS
Probabilmente la band a cui è stato riservato più minutaggio – due ore di set -, gli Swans risultano ormai una sorta di resident act al Primavera Sound. Gira e soci sono ormai avvezzi al palco del Parc del Forum, così come ormai molti degli avventori del festival. Ogni occasione è però buona per vedere dal vivo una delle band più eccezionali nella musica rock di oggi, nella loro mistura di sacro e profano post-punk evocativo e di ipnosi sludge tanto suadente quanto sfinente. La setlist (se così si può chiamare ciò che viene portato sul palco dagli Swans) prende dei temi o delle sezioni di “The Glowing Man”, ma ricorda ancora momenti di “To Be Kind” e di “The Seer”, inseriti nel contesto della formazione ultima che accompagna Gira di recente. Lo sciamano e i suoi musici conducono lo spettatore per due ore di saliscendi ossessivi, ipnotici e ripetitivi, capaci di rendere l’atmosfera magnificente ed inquietante allo stesso momento, con una carica di pathos unica e quasi intangibile ad uno sguardo e ad un ascolto disattento. I movimenti da maestro d’orchestra di Gira accolgono lo stupore di molti che assistevano ad una tipologia di concerto che difficilmente potrà dirsi simile a quasi tutte le altre band che si possono trovare in giro. Uno dei migliori momenti del festival, in assoluto.
SLEEP
Dio benedica Matt Pike. Ebbene sì. Idolatrato dai molti presenti al Primavera Stage centrale, il robusto (vai con gli eufemismi) chitarrista dà sfoggio di tutto il suo carisma con la sua band principale e più conosciuta. Gli Sleep sono sempre una sicurezza e i loro tripudi psichedelici ed ipnotici non fanno fatica ad attecchire e ad iniettarsi direttamente nelle vene dei presenti, le cui pupille dilatate e i sentori di canapa riescono a raggiungere livelli di empatia generale tra palco ed astanti. La maggior parte della setlist è composta da “Holy Mountain”, di cui ricordiamo la immersiva “Dragonaut”, capace di rimanere impressa per groove e potenza. Un altro invito centratissimo da parte degli organizzatori del Primavera, capace soprattutto di far sentire la voce di un’ala del metal e della musica pesante anche a coloro non particolarmente avvezzi al verbo della psichedelia, del feedback e delle visioni scaturite da un muro di Ampeg e Orange.