Introduzione e report a cura di Denis Bonetti e Carlo Paleari
Foto di Carsten Brand, per gentile concessione di Prophecy Productions
Chi si trova a vivere per la prima volta il Prophecy Fest non rimane folgorato dalla pura qualità dell’organizzazione, per certi aspetti decisamente poco tedesca; potrebbe esserlo senza dubbio per la proposta musicale – figlia dell’eccellente lavoro della Prophecy Productions e del suo ottimo catalogo – ma a conti fatti, quello che davvero lascia a bocca aperta, in questo evento, è la sua location e l’atmosfera che si crea attorno ad essa.
Una prima giornata all’aperto, bucolica e perfino un po’ naif, e poi due giorni nella splendida Balver Höhle, una maestosa caverna naturale, che finisce per essere tanto cornice, quanto protagonista, di una manifestazione musicale già eccellente di suo.
Grazie alla scelta coraggiosa di non prevedere biglietti per le singole giornate, ma solo un abbonamento, il festival è riuscito a costruirsi uno zoccolo duro di affezionati partecipanti, che seguono tutte le esibizioni con la stessa attenzione e curiosità, senza prediligere i nomi più noti. D’altra parte, un’altra caratteristica del Prophecy è proprio la volontà di non avere headliner, con esibizioni che occupano a grandi linee lo spazio di quarantacinque/sessanta minuti ed un running order che non concede necessariamente lo slot serale alla band più famosa. (Carlo Paleari)
Chi scrive è dal 2019 che non tornava al Prophecy Fest, di cui abbiamo conservato un ricordo molto positivo, nell’anno in cui spadroneggiarono sicuramente le esibizioni di Bethlehem, Mortiis, Vemod e una delle pochissime apparizioni dei norvegesi Strid, vera chicca del black metal dell’ondata norvegese.
Nel frattempo, in circa cinque anni – con ovviamente quello stop involontario di cui tutti abbiamo preso atto, a causa della pandemia – la manifestazione organizzata dalla Prophecy è sicuramente salita ancora di livello, soprattutto con il successo ottenuto dall’aver ospitato la reunion degli Agalloch nell’edizione precedente.
Le differenze rispetto al passato per noi sono poche ma significative: in positivo sembra ormai fissa l’introduzione dell’opening night dedicata alle sonorità più intimiste e folk (con un pizzico di elettronica, se pensiamo all’esibizione di Thief, come leggerete a breve); un po’ dubbiosi, se ce lo permettete, ci lascia invece quello che viene chiamato comfort pass, biglietto con un sovrapprezzo per avere un posto a sedere a lato palco.
In un contesto così ridotto come quello della caverna – ‘spiritualmente’ distante dai festival estivi – avere differenziazioni fra servizi per il pubblico ci ha lasciati un po’ basiti – ma forse è un modo come un altro per far fronte all’aumento dei costi organizzativi della post-pandemia. Ad essere sinceri del tutto, anche la scelta del cibo presente non è stata amplissima (ma con un festival che inizia nel primo pomeriggio è stato possibile pranzare agevolmente all’esterno). Se artisticamente quindi non possiamo dire assolutamente nulla della manifestazione di Balve, logisticamente potrebbe migliorare ancora un pochino. (Denis Bonetti)
A voi il resoconto di questi giorni.
GIOVEDI’ 5 SETTEMBRE
Si capisce subito che l’atmosfera della prima sera del Prophecy Fest è decisamente più informale: non ci sono cancelli, controlli, transenne… il pubblico con molta tranquillità si avvia verso l’area del campeggio, allestita in maniera davvero minimale.
Un gazebo dove si esibiranno gli artisti, un tendone in cui gli organizzatori offrono una prima birra di benvenuto a tutti i partecipanti ed un piccolo angolo per il merch. L’area è grande e il pubblico bivacca serenamente sul prato, sfruttando panche o sedie portatili; non c’è una vera e propria area ristoro e ciascuno può semplicemente portarsi il cibo da casa o, nella migliore delle ipotesi, cuocersi una salsiccia sui numerosi bracieri che verranno accesi più tardi.
Il primo artista a calcare il piccolo palco all’aperto è VRÎMUOT, cantante folk che ha debuttato su Prophecy con l’album “O Tempora, O Mores”: voce, chitarra acustica, armonica e, per l’occasione, un accompagnamento minimale di basso e percussioni.
I testi in tedesco non ci permettono di seguire al meglio le qualità di scrittura della proposta, ma certamente Vrîmuot ha un suono particolare. Le sue canzoni sono piuttosto lunghe e, come da tradizione, si appoggiano su un accompagnamento acustico che risalta soprattutto la voce.
Il suo stile di canto non è avvolgente o delicato, anzi, trova la sua espressione nelle asperità. Cerca di trasmettere un dolore, certo, ma non privo di forza ed in questo gli arrangiamenti secchi, essenziali e l’uso delle percussioni si adattano bene ad una proposta non di immediata fruizione. (Carlo Paleari)
Pur restando su atmosfere folk, la musica dei THURNIN è diametralmente opposta: laddove Vrîmuot si presentava con una proposta (ed un look) contemporaneo, il trio olandese sale sul piccolo palco per accompagnarci in un viaggio antico e magico, che si nutre di leggende, di atmosfere quiete e di nostalgica malinconia. Le loro composizioni sono quasi completamente strumentali, con le voci che, di tanto in tanto, si trasformano in strumenti in un tappeto di cori.
Il resto è fatto dagli intrecci di chitarre e dalla ghironda, strumento medievale per eccellenza, che aumenta ancora di più la sensazione di avere a che fare con qualcosa di fuori dal tempo.
Jurre Timmer, ovvero la mente dietro a questo progetto, ci racconta di come l’intero tour – così come il prossimo album – siano dedicati alla scomparsa di due suoi cari amici, dandoci la possibilità di ascoltare in anteprima un nuovo brano intitolato “Arcturus”.
Uniche note negative della performance, dei volumi veramente bassi che hanno penalizzato una proposta così intima e soffusa, e la necessità di tagliare la loro esibizione dopo appena una mezz’ora per via dei ritardi accumulati in fase di soundcheck.
A parte questo, il miglior concerto della giornata, per chi vi scrive. (Carlo Paleari)
Restiamo sempre nello stesso genere anche con i NEUN WELTEN, storica formazione del roster della Prophecy, che festeggia proprio quest’anno il ventennale della pubblicazione del suo primo EP, “Valg”. La band si presenta in una formazione a quattro, con due chitarre acustiche, tastiere e basso (o violoncello), per un piccolo set celebrativo che va a riproporre per intero il già citato esordio, oltre ad una selezione di brani vecchi e nuovi.
C’è spazio per un paio di anteprime dal loro prossimo album in studio e abbiamo apprezzato l’arrangiamento rivisitato di “In Mourning”, qui spogliata delle sue contaminazioni new wave in favore di una versione unplugged molto sentita.
Ottima la prova di tutti i musicisti, mentre ci è sembrato un po’ traballante Meinolf Müller nel ruolo di cantante, complici anche i suoni non esattamente perfetti. Da rivedere, magari in un contesto meno dispersivo. (Carlo Paleari)
Anche se in un contesto così particolare – quasi agreste – stiamo sempre assistendo ad un concerto con i propri ritmi e la serata di apertura del festival entra in zona headliner con l’esibizione di WOLCENSMEN, ovvero il progetto dark folk e neofolk di Dan Capp, dal 2022 voce dei Solstice (che vedremo impegnati nei giorni successivi).
Ormai è buio nel campo attiguo alla caverna di Balve: i suggestivi falò e il nutrito pubblico che si raccoglie su panchine, sedie sdraio o semplicemente sull’erba sono una cornice veramente romantica per l’esibizione del nostro: si tratta in sostanza di un divertito e rilassato set chitarra/voce, composto da una manciata di pezzi presi dai due album principali usciti finora, “Fire In The White Stone” e “Songs From The Fyrgen”.
La scrittura del buon Dan è influenzata sicuramente dal modello Bathory da un lato e da una chitarra pizzicata debitrice da un modello di folk nordico più ampio, con un risultato efficace in quanto tanto narrativo quanto intimista. La voce di Dan, in questi contesti, è utilizzata in modo molto differente da quanto sentiremo coi Solstice e onestamente – -soprattutto nel momento in cui viene proposta una cover dei Dead Can Dance – non è nemmeno sempre tecnicamente impeccabile, ma sono piccolezze che non hanno spazio in un momento così rilassante e sentito.
Il pubblico sembra apprezzare moltissimo infatti, e la prestazione del nostro è ‘alla mano’ a sufficienza per mantenere l’atmosfera migliore. (Denis Bonetti)
A chiudere, tocca alla prima delle tre esibizioni dei THIEF che si susseguiranno nelle tre giornate e di cui avremo modo di parlare ampiamente in seguito. Si tratta in questo caso di un set dark ambient, con il solo leader Dylan Neal a proporre una mezz’oretta abbondante del suddetto genere in versione minimale, per poi evolversi in sonorità costruite su loop quasi mistici – a ricordare Raison d’Etre – e virando poi su suggestioni anche abbastanza simili al Simonetti d’antan, per concludersi infine con elettronica più costruita, affine a quanto i Thief stessi propongono ora.
L’interazione con gli astanti di Dylan è quasi assente – come spessissimo avviene in questo tipo di proposta – ma ancora una volta il pubblico apprezza. Conclusa la performance, appena alle 22 la serata di apertura si conclude, lasciando gli stand della birra e del merch attivi ancora per un po’.
Noi decidiamo di congedarci, prevedendo le altre due giornate di musica che saranno ben più lunghe. (Denis Bonetti)
VENERDI’ 6 SETTEMBRE
Archiviato il pre-show bucolico del giovedì, il Prophecy Fest entra davvero nel vivo con l’apertura della caverna di Balve. Varcata la soglia coperta da un tendone, per impedire l’ingresso eccessivo della luce del giorno, ci troviamo in una location davvero unica, resa ancora più magica dal gioco di luci, blu e gialle, che si riflettono sulle pareti di roccia. Il palco principale del festival dà le spalle all’ingresso, già allestito per la prima esibizione della giornata, affidata ai PERCHTA.
La band austriaca non ha ricevuto sempre parole d’elogio sulle nostre pagine, eppure ci fa piacere poter constatare come dal vivo si sia resa protagonista di uno show estremamente coinvolgente.
Certo, il folk metal dalle tinte black proposto non è la cosa più estrema che ascolteremo in questo contesto, ed è evidente come l’avere tra le fila strumentisti provenienti da contesti molto più melodici (pensiamo a Fabio D’Amore dei Serenity) contribuisca a dare un taglio più ruffiano alla loro musica.
Eppure, il concerto dei Perchta convince, per i suoni perfettamente bilanciati, per l’affiatamento dei musicisti e, soprattutto, per la prova teatrale e vocale della stessa Perchta: la cantante, vestita come una levatrice/strega, con tanto di bastone d’ossa e percussioni di placenta, ammalia il pubblico e la cornice della caverna contribuisce a rendere ancora più efficace la messa in scena. Molto buona, infine, anche la scelta di non usare delle tastiere per riprodurre gli arrangiamenti più folk, ma un dulcimer martellato, strumento che ha attraversato i secoli, diventando noto in Europa sul finire dei Medioevo. Un ottimo inizio. (Carlo Paleari)
La prima band ospitata sul palco secondario, posto esattamente dall’altro lato della caverna vicino alla zona bar, sono gli americani THIEF.
Il leader Dylan Neal – di ascendenza Botanist, una black metal band decisamente particolare a tema vegetale che vi consigliamo di riscoprire – si era già esibito al pre-show con un set dark ambient, mentre stasera il terzetto è al completo e sembra davvero a proprio agio nel proporre un crossover metal con evidenti influenze elettroniche.
Per capirci, nella loro proposta si sentono sia Trent Reznor, che i Cave In e gli At The Drive In, ed è davvero un piacere sentirli svisare di qua e di là: il set di questa sera porta il nome di “Vespers” e riconosciamo diversi estratti dai dischi principali del gruppo, ma ci rendiamo anche conto di come non sia molto importante a fronte di un risultato complessivo realmente suggestivo.
I Thief si definiscono – tanto per darvi l’idea dell’ecletticità – “Night Music For Haunted Ballrooms And Electric Churches” oppure “True Los Angeles Dungeon Pop”, un po’ a scorno della mania di etichettare tutto. Da provare, se non li conoscete. (Denis Bonetti)
Chiamati a sostituire i Farsot, impossibilitati a partecipare per via della prolungata convalescenza di un componente della band in seguito ad un intervento chirurgico, tocca agli EÏS salire sul palco principale del festival, per uno show interamente dedicato all’album “Galeere”, pubblicato nel 2009 quando ancora la band si chiamava Geïst.
Il concept dei tedeschi si rifà all’immaginario nautico delle grandi esplorazioni del Mare del Nord, con i suoi ghiacci millenari e la bruma che copre tutto con un’aura di biancastra solitudine: la band sale sul palco vestita come l’equipaggio di una nave fantasma, alta uniforme e pallore cadaverico, per lanciarsi nell’esecuzione dell’album nella sua interezza.
Cinque canzoni, per cinquanta minuti di esibizione: il loro black metal è malinconico e freddo come l’immaginario a cui fa riferimento e, almeno dal vivo, questo ha lati positivi ma anche negativi.
Se da una parte, infatti, le atmosfere dilatate contribuiscono ad immergerci in un mondo fatto di spazi sterminati e inospitali, la pura e semplice performance ci è parsa un po’ anonima e dobbiamo attendere la conclusiva “Unter toten Kapitänen” per trovare il meglio della musica degli Eïs. (Carlo Paleari)
Dell’esibizione dei GERM possiamo dire molte cose, ma sicuramente non è possibile definire la proposta degli australiani come standardizzata: prima di tutto siamo felici che i nostri siano ancora attivi, visto che l’ultimo disco risale ad una decade fa e che i fasti di un album come “Grief” sono ormai lontani, purtroppo, quasi sotterrati da dozzine e dozzine di altre band che si dedicano allo stesso post-black/shoegaze.
Dopo averli ascoltati sul palco della caverna di Balve, se facessimo finta di non conoscere per nulla la musica dei Germ, i primi pezzi sono risultati all’orecchio decisamente post-punk, con la presenza sul palco di una voce femminile (che nel disco al tempo era quella di Audrey Silvain), per poi passare per frangenti più affini al proto-black metal (in alcuni momenti ci abbiamo sentito le strutture dei Bethlehem più recenti) per poi, nella seconda parte del set, tornare su atmosfere shoegaze.
Quella dei Germ è una proposta delicata, capace di bilanciare le diverse sfaccettature di Tim Yatras che qui – a differenza di quanto fa con gli Austere, molto più quadrati – si sente molto più libero di cambiare direzione musicale.
Il pubblico tedesco però ha riservato loro una calda accoglienza, quindi speriamo di poterne parlare nuovamente presto, magari discutendo un album del ritorno. (Denis Bonetti)
Tocca agli islandesi FORTIÐ, che portano avanti la loro proposta black metal epico e vichingo sul secondo palco: ce li siamo un po’ persi nel tempo, lo ammettiamo, dopo il botto a nostro avviso fatto con la trilogia della Voluspá, ripubblicata nel 2023 dalla Prophecy in uno dei classici e bellissimi tripli artbook a cui la label tedesca ci ha abituato nel tempo.
La loro esibizione è solida, un po’ telefonata come gran parte della loro discografia, ma decisamente piacevole. Certo, album dopo album i Fortid hanno saputo introdurre nella loro musica elementi più complessi e raffinati, ma è anche vero che in sede live i nostri sembrano puntare più che altro sul sempre rassicurante viking metal affine agli Enslaved vecchia maniera ed Ereb Altor. (Denis Bonetti)
Si cambia completamente registro, invece, con l’arrivo dei SOLSTICE, formazione storica dell’epic doom britannico, che sale sul palco per dare fuoco alle polveri con uno show tanto prevedibile nella sua costruzione, quanto chirurgico nella sua devastante efficacia.
La band, guidata da Richard M. Walker, ha trovato un ottimo nuovo innesto con Dan Capp, polistrumentista, ex chitarrista dei Winterfylleth, che abbiamo già citato nella sua performance solitaria come Wolcensmen. Capp, che pure non ci aveva strabiliato come cantante nella sua veste acustica, con i Solstice si rivela un ottimo frontman e performer, capace di rendere giustizia alle atmosfere guerresche della band.
Non sono da meno i compagni, solidi come dei monoliti nel riversare riff granitici sulla platea, per una selezione di brani che si divide quasi equamente tra la loro l’ultima prova in studio, “White Horse Hill”, e il classico del 1998 “New Dark Age”, su cui svetta la conclusiva “Cimmerian Codex”. Una certezza. (Carlo Paleari)
Tocca ai norvegesi IN THE WOODS… prendere possesso del palco e l’impatto iniziale non lascia affatto indifferenti. Il quintetto apre le danze con “Heart Of The Ages”, dall’omonimo debutto del 1995, ed è innegabile come la band sia riuscita a ricostituirsi grazie ad un nucleo di professionisti di alto livello. Man mano che il concerto scorre, però, ci rendiamo conto di come la performance inciampi a grandi linee nelle stesse problematiche che si possono riscontrare nelle loro più recenti uscite discografia.
Tolto il batterista Anders Kobro – unico membro della line-up storica – il resto della formazione appare infatti sì estremamente professionale, ma anche un po’ manieristico nella sua esibizione, che risulta sempre pulita, ma un po’ senz’anima.
In particolar modo il cantante, Bernt Fjellestad, appare un po’ fuori contesto, con un approccio sul palco più adatto ad una più sanguigna rock band da pub, che non alla formazione che ha firmato un capolavoro come “Omnio”: ci rendiamo conto che si tratta più di sensazioni, perché da un punto di vista strumentale gli In The Woods… filano lisci come l’olio e non perdono un colpo, destreggiandosi perfettamente tra il materiale più datato e quello più recente.
Eppure, mentre ascoltavamo rapiti l’esecuzione di canzoni come “299 796 km/s” o “Yearning the Seeds of a New Dimension”, non riuscivamo a scrollarci di dosso la sensazione di essere di fronte ad una band che suona cover di se stessa. (Carlo Paleari)
E’ sempre interessante vedere come alcuni artisti, per motivi imperscrutabili, finiscano per diventare parte dell’universo metal, pur non avendone nessuna caratteristica esplicita. Prendiamo ARTHUR BROWN, 82 anni suonati (!): il suo mondo è quello della psichedelia più folle, il rock teatrale, eppure eccolo qui, sul palco dell’umida caverna di Balve, incastrato tra gli In The Woods… e i Triptykon!
Eppure, a pensarci, il tutto ha una sua logica, perché andando a ritroso nel tempo si scopre facilmente l’importanza di questo strano artista sul ‘nostro’ mondo: è stato il primo a usare un trucco di scena molto simile al corpse paint, i suoi spettacoli teatrali hanno influenzato giganti come Alice Cooper e i Kiss, e il suo immaginario strizza l’occhio spesso a tutto ciò che puzza di zolfo.
Premesso ciò, vista l’età di questo decano del rock, eravamo pronti ad assistere ad uno show appena passabile, uno di quelli per cui dirsi “è già tanto se si regge in piedi“: invece il malefico Arthur Brown ci ha fregati con uno spettacolo che, certo, è sempre sopra le righe – e a tratti forse quasi ridicolo, in questo delirio di manichini, parrucche e paillette – ma funziona!
Il merito è di una band solidissima, che prende gli arrangiamenti degli anni Sessanta e gli dà una bella scossa elettrica portandoli nella contemporaneità, ed è anche merito dello stesso Arthur, con la sua fisicità a metà tra uno spaventapasseri e Willy Wonka.
Molto buona la gestione della scaletta, con diversi intermezzi strumentali che permettono al cantante di cambiare costume e, soprattutto, riprendere fiato, e la platea si gode il tutto con un entusiasmo inaspettato, con tanto di ovazione quando, durante “Fire”, Arthur indossa la sua celebre maschera infuocata. (Carlo Paleari)
I TRIPTYKON del buon Tom Warrior hanno decisamente i loro tempi discografici: l’ultimo disco di inediti, “Melana Chasmata”, ha ormai una decade e l’inserimento nel percorso artistico del revival dal vivo dei Triumph Of Death, tributo alla prima parte di carriera del nostro quando il nome portante era quello degli Hellhammer, non hanno sicuramente accelerato lo slancio creativo per un possibile (ed auspicato) ritorno.
Ci sono tre parole ricorrenti però, in questi mesi, che coincidono con l’attesa esibizione dei nostri: “Into The Pandemonium”, ovvero uno dei dischi più amati dell’altra parte del passato di Tom, ovvero i Celtic Frost. Con gioia, sono proprio i brani dei Frost ad aprire l’esibizione dei Triptykon, con “Synagoga Satanae”, proveniente dall’ultimo “Monotheist”.
In attesa di vedere se il nostro manterrà la promessa di tornare davvero al passato, per chiunque nella gremita caverna è evidente come la musica dei quattro sia impatto puro: riff marziali, cadenzati, continui e ripetuti fino all’ossessione, il tutto guidato dalla voce inconfondibile del nostro.
Si possono dire tante cose, dei Triptykon, a partire da un basso assolutamente inesistente che non varia di una nota il groove degli altri strumenti o pochissimo spazio per le personalità dei musicisti (e sì che lì dentro ritroviamo gente del livello di Hannes Grossmann e Victor Santura, non degli anonimi turnisti sul mercato ma parte di una pletora lunghissima di formazioni), ma allo stesso tempo è palese come gli svizzeri siano una creatura a servizio del suono stesso: uno schiacciasassi inarrestabile, perenne e in continuo avvicinamento.
In questo, i Triptykon sono sia violenti che ipnotici, e capiamo perfettamente la fascinazione che contesti come il Roadburn hanno avuto nel tempo per loro. Quello che Tom Warrior fa ormai dalla seconda metà degli anni Ottanta è ricreare paesaggi sonori pieni di disagio e oscurità e per l’ennesima volta, sul palco di Balve, i primi minuti dei Triptykon lo confermano.
La setlist si muove poi sulle più recenti “Goetia” e “Altar Of Deceit”, per poi regalarci quello che volevamo: “Mesmerized”, “Sorrows Of The Moon” e “Babylon Fell”, rilette ovviamente tramite l’estetica Triptykon, ovvero cantato con voce più diabolica e filtrato su distorsioni decisamente più infernali. Il risultato è ottimo e perfettamente in linea con il resto dei pezzi proposti: se dovessimo scegliere anche solo un pregio per i Triptykon dopo una quindicina di anni di esistenza, è quello di aver realmente portato avanti una linea di pensiero più che una proposta musicale specifica.
L’esibizione dei nostri si conclude con un nuovo ritorno verso il materiale più recente, ovvero “The Prolonging”, acclamata da tutti. La prima serata del festival non poteva chiudersi in maniera migliore, non ci sentiamo di dire molto di più. (Denis Bonetti)
SABATO 7 SETTEMBRE
Chi scrive non nasconde di aver deciso di partecipare al Prophecy proprio all’annuncio del set acustico degli EMPYRIUM, band a cui siamo molto legati da tempo immemore. Erano anche anni che non ci avventuravamo in prima fila, ma le dimensioni ridotte del festival ce lo permettono e – anche se un po’ perplessi dagli svantaggi tipici della calca – ci avviciniamo.
Appoggiati alla transenna, non ci vuole molto a rimanere incantati dall’entrata della band tedesca guidata da Markus Stock. Notiamo subito che la formazione per l’esecuzione di tutto “Where At Night The Wood Grouse Plays” è di sette persone: oltre al leader e a Thomas Helm, ci sono i fidati Eviga dei Dornenreich e Allen B Konstanz dei The Vision Bleak, più altri tre elementi che coprono basso, due violini, flauto e i cori.
Il disco viene eseguito in tutta la sua interezza, in ordine, esattamente come dovrebbero essere interpretate queste iniziative per offrire l’esperienza migliore ai fan. L’esecuzione è sentita, calma e molto molto fedele alle versioni da studio, con Stock che commenta brevemente tra un brano e l’altro.
Ancora una volta, non nascondiamo i brividi e il nodo in gola che ci hanno causato le note di “Dying Brokenhearted” o i flauti e i cori della title-track, rese in maniera praticamente identica alla versione da studio.
Il volume della band è ovviamente basso, ma nella caverna per circa quaranta minuti cala un religioso silenzio che denota come gli Empyrium rappresentino davvero qualcosa per molti appassionati.
Conclude il set, a sorpresa per chi scrive, “Die Schwäne Im Schilf” da “Weiland”. Se paradossalmente è possibile vedere ed apprezzare i Paradise Lost (tra gli altri gruppi inclusi nel bill di quest’anno) un po’ dovunque, sono proprio performance come queste che valorizzano l’unicità di un evento come il Prophecy Fest e che qui acquistano un significato unico. (Denis Bonetti)
Concluso lo strepitoso concerto degli Empyrium, sul palco principale è atteso un altro show unico, espressamente pensato per questo evento. Si tratta del ritorno degli ALCEST, questa volta in una modalità inedita: Neige e Zero, accompagnati da una seconda voce femminile, per l’occasione abbandonano ogni strumento, occupandosi esclusivamente delle melodie e delle armonie vocali.
Gli arrangiamenti musicali, invece, sono affidati a NICOLAS HORVATH, pianista francese di estrazione classica, che ha voluto cimentarsi nella rielaborazione di alcuni classici degli Alcest. L’esecuzione è magistrale, ed è subito evidente come il lavoro di Horvath sia centrale in questo progetto: il pianista, infatti, non si limita a tradurre sul piano le melodie della band, ma riversa molto del suo stile nelle esecuzioni.
Ogni canzone viene dilatata, lasciando molto spazio alle dita di Nicolas, che danzano e corrono sui tasti d’avorio, rendendo spesso irriconoscibili le canzoni: bisogna attendere la voce di Neige per ritrovarle, oppure dei passaggi particolarmente memorabili, come il tema principale di “Kodama”, o la conclusione di “Delivrànce”, così luminosa e celestiale da sembrare scritta apposta per un pianoforte.
E’ un’esibizione che divide, per certi versi, soprattutto in un contesto in cui c’è anche tanto metal estremo, e ci troviamo a constatare come dal fondo della caverna non manchi il brusio di chi, evidentemente, è poco interessato all’esperimento. Chi scrive non ha le competenze tecniche e teoriche per giudicare il lavoro di un pianista classico, ma possiamo tranquillamente affermare che il materiale degli Alcest e l’intreccio delle voci dei tre trova una sua dimensione inedita ed affascinante in questo contesto.
Ci piacerebbe poter riascoltare il tutto con la giusta attenzione, per coglierne le varie sfumature, e forse potremmo essere accontentati, vista la presenza di telecamere e cameramen che hanno ripreso il tutto: speriamo quindi in una futura pubblicazione. (Carlo Paleari)
Il palco piccolo in questa seconda giornata ospita nuovamente i THIEF, che offrono un secondo set in linea con quanto fatto il giorno precedente.
Stavolta il tema è “Antiphon” ma le coordinate sono quelle della giornata precedente, salvo qualche incursione in più verso territori elettronici, gestiti sempre sapientemente da Dylan.
Gli altri due set sono lasciati ai BLAZING ETERNITY, band che, insieme ai loro due album di inizio anni Duemila, entrambi targati Prophecy e con artwork caratterizzati per la tinta ocra e arancione, avevamo perso di vista nel mare magnum di uscite degli ultimi anni.
Il combo danese è ritornato da poco, con un nuovo album e un suono decisamente meno pesante: nel bello “A World To Drown In” si parlava il linguaggio del gothic/doom, mentre nel recente “A Certain End To Everything” si comunica più un termini, almeno in parte, goth rock. Le loro due esibizioni (divise per periodi) sono piacevoli, abbastanza partecipate, ma siamo comunque convinti che fossero davvero pochi a ricordarsi di loro visto che né al tempo né ora possiamo parlare di particolare originalità nella proposta. Bentornati, comunque. (Denis Bonetti)
Dei DYMNA LOTVA si sente parlare sempre più spesso e il numero di maglie presenti nell’area – badate bene, prima della loro esibizione – conferma come la fama della band bielorussa sia in rapida ascesa.
Il quartetto, ora transfugo in Polonia per motivi politici (a quanto abbiamo capito), propone il proprio doom/post-black che guarda da un lato Katatonia e Paradise Lost mentre dall’altro accarezza le esperienze dei mille figli degli Alcest. Il risultato è visivamente appagante, con i loro costumi rossi e bianchi e i rimandi ad un immaginario folk, alle mietiture e alle divinità agresti; anche se musicalmente non troviamo chissà quale originalità, risultano godibilissimi e l’urlato della cantante Nokt è molto d’effetto.
Il loro set, basato sui pezzi degli ultimi due album, è partecipato ed apprezzatissimo, ma d’altronde pezzi come “Buried Alive” e “Come And See” non possono non piacere a chiunque bazzichi nel mondo della musica estrema e malinconica: il nome Dymna Lotva potrebbe quindi essere una ‘next big thing’. (Denis Bonetti)
I FEN sono una formazione che su disco ci ha quasi sempre convinto, e l’esibizione sul palco del Prophecy Fest è stata un’ottima occasione per testare la loro tenuta anche dal vivo.
Il trio sale sul palco e lentamente ci introduce al proprio universo sonoro, iniziando con due sezioni di “Winter”, l’ottimo album del 2017. Sebbene l’esecuzione sia priva di sbavature, dobbiamo però sottolineare alcune lacune che sembrano emergere dal trio britannico, legate soprattutto alla natura stessa della line-up: potendo contare su una sola chitarra, suonata da The Watcher, che si deve occupare anche delle parti vocali, non sempre si riesce a creare quell’intreccio di atmosfere che invece su disco rappresenta un punto di forza.
Non a caso, infatti, gli episodi più riusciti sono proprio quelli in cui la band morde il freno e lascia spazio alla propria anima più feroce, come nella devastante “Scouring Ignorance”, che assale la platea senza pietà. Alla fine, il bilancio non sarà negativo, questo no, ma in una giornata dove siamo stati testimoni di performance davvero eccellenti, quello dei Fen risulta essere uno dei momenti meno entusiasmanti. (Carlo Paleari)
Altra band di cui eravamo curiosi sono gli australiani AUSTERE, in giro da parecchio tempo ma sicuramente parchi nel regalare esibizioni dal vivo o farsi vivi in modo differente dal pubblicare un disco ogni tanto. Si tratta, nel dettaglio, di uno dei progetti in cui è presente Tim Yatras, artista che abbiamo già visto all’opera qui con i Germ.
Gli Austere sono una creatura strana, per chi scrive, perché li abbiamo sempre percepiti come ‘sul punto di’, ‘pronti a’, senza che poi succeda mai realmente niente a livello di fama: anche l’ultimo, piacevolissimo “Beneath The Threshold” conferma come i nostri siano compositivamente non originalissimi ma efficaci nel muoversi in territori dove i Katatonia hanno creato un vero e proprio genere.
Proprio dall’ultimo album vengono riprese “Cold Cerecloth” e “Cycle Of Collapse” e la resa doomish è realmente ben orchestrata. Noi li osserviamo da lontano, sorseggiando una birra, ma l’acustica in tutta la caverna è meravigliosa e quasi da ogni punto si possono apprezzare le vibrazioni e – soprattutto – le prove vocali degli australiani.
I nostri hanno il tempo di eseguire cinque o sei pezzi e ritornano anche al passato, ripescando dall’altrettanto bello “Corrosion Of Hearts”. Piuttosto statici sul palco, riescono comunque a regalare buone emozioni al pubblico presente, noi inclusi. Chissà se sarà la volta buona per crescere, o se li ritroveremo nuovamente inghiottiti dal tempo. (Denis Bonetti)
Se dovessimo fare un solo nome tra quelli che più ci hanno colpito in maniera positiva all’interno dell’intera manifestazione, probabilmente la scelta cadrebbe sullo show degli ARÐ.
Con due album all’attivo, la band britannica si era già imposta come una delle realtà discografiche più interessanti e sulle nostre pagine abbiamo già avuto modo di spendere parole di elogio nei confronti dell’eccellente “Untouched By Fire”, pubblicato proprio quest’anno.
Con molto piacere, quindi, abbiamo potuto constatare come gli Arð funzionino perfettamente anche dal vivo, con la cornice della caverna di Balve a fare da sfondo perfetto per la proposta ancestrale e monolitica della band.
Nei cinquanta minuti a loro disposizione, gli Arð costruiscono una cattedrale sonora, le cui fondamenta sembrano essere costituite dalla stessa pietra millenaria su cui poggiamo i piedi: riff doom risuonano negli anfratti, mentre le tastiere aggiungono drappi eleganti ma mai eccessivi o fuori contesto. E’ nell’uso delle voci, però, che la band raggiunge il suo apice, riuscendo a restituire in maniera incredibile la stessa profondità della sua controparte discografica.
Mark Deeds viene affiancato da Chris Naughton in un unisono talmente perfetto da sembrare irreale: i due, con le loro voci baritonali e armoniche, riescono a ricreare un effetto che deve molto alla tradizione del canto gregoriano, arrivando là dove tantissimi hanno fallito, senza mai arrendersi a soluzioni più tradizionali come l’uso di basi preregistrate.
Un concerto molto atteso e unico, che speriamo di poter rivedere al più presto anche nel nostro Paese. (Carlo Paleari)
Gli HEXVESSEL di Matthew ‘Kvohst’ McNerney hanno veramente chiuso un capitolo e ne hanno riaperto uno nuovo con l’ultimo disco “Polar Veil”.
Come abbiamo già avuto modo di dire in sede di recensione, le sperimentazioni e le commistioni dei precedenti dischi si sono realmente attenuate e gli Hexvessel hanno ricominciato a suonare black metal e doom; atmosferico sì, ‘post-’ certamente, ma sempre e comunque black metal e doom nelle strutture di base.
Nell’esibizione dei quattro, i pezzi estratti dal recente ritorno iniziano ad accumularsi uno dopo l’altro e alla fine, ci ritroveremo – se non andiamo errati – con un solo estratto da “Kindred” e poco altro, in favore dell’esecuzione per interno dell’ultima opera.
Il risultato è eccellente, sostenuto da suoni che hanno valorizzato le linee di voce di Matthew, malinconiche, pensose ed evocative. Il resto della band invece contribuisce all’impatto elettrico, sostenuto molto bene da una sezione ritmica che ci è piaciuta per stile. Lo ammettiamo, gli Hexvessel ci avevano stregato nella prima parte della loro carriera e li avevamo progressivamente lasciati da parte, non facendoci mai coinvolgere pienamente dal loro lato più psichedelico e progressivo, ma li abbiamo ritrovati ora in piena forma. Non vediamo l’ora di rivederli live, a questo punto. (Denis Bonetti)
Su disco i DOOL possono piacere o meno, ma sfidiamo chiunque a non riconoscerne l’assoluto valore nella dimensione live. La loro musica e, soprattutto, Raven van Dorst hanno una componente selvaggia che riesce a far vibrare le pareti della caverna in una maniera che nemmeno le più feroci band black metal hanno saputo fare finora.
Il quintetto per l’occasione si concentra quasi totalmente sull’ultima fatica in studio, “The Shape Of Fluidity”, da cui vengono estrapolati cinque dei sette brani suonati. La resa dal vivo è di assoluto valore e, pur avendoli già visti in passato, non ci pare affatto che le nuove composizioni abbiano addomesticato l’energia della band.
Il finale è, invece, affidato a due piccoli classici, prima una devastante “Love Like Blood” dei Killing Joke, seguita a ruota da “Oweynagat”, che suggella uno show di altissimo livello. A prova di questo, non ci ha stupito affatto ritrovare Neige degli Alcest tra il pubblico a godersi una delle performance più convincenti della giornata. (Carlo Paleari)
Dopo tre giornate di questo livello, serviva una chiusura degna di questo nome e, fortunatamente, il pubblico del Prophecy ha potuto contare sui PARADISE LOST, che hanno chiuso il loro tour europeo in questa occasione. Chi scrive ha avuto modo di vederli all’opera quest’anno al nostro Luppolo In Rock e nella struttura del concerto non abbiamo trovato grosse differenze: al contrario di altre formazioni, i Paradise Lost non hanno preparato un set specifico per il festival, limitandosi ‘solo’ a portare in scena la scaletta rodata che abbiamo potuto già apprezzare, un ottimo excursus sulla loro intera carriera, con un occhio di riguardo al capolavoro “Draconian Times”, da cui vengono estratti ben quattro canzoni.
Rispetto a Cremona, abbiamo potuto ascoltare “The Enemy”, mentre il resto del concerto ha visto nuovamente la band cimentarsi con una serie di classici, dai più vecchi e oscuri, come “Pity The Sadness” ed “As I Die”, fino ai momenti più catchy di “One Second” o l’immancabile cover di “Smalltown Boy”, che riesce a far smuovere anche il compassato pubblico tedesco.
Qualche incertezza vocale nella prova di Nick Holmes e una certa staticità nella performance dei musicisti potrebbe rendere il tutto meno coinvolgente, ma a fare da contraltare, per fortuna, c’è la classe e l’eleganza di un repertorio sempre di alto livello.
Quando le ultime note di “Ghosts” congedano il pubblico, riemergiamo dalla caverna (realmente ma anche metaforicamente) con la consapevolezza di aver assistito ad un festival davvero unico, per la particolarità della location, ma soprattutto per la varietà e la qualità della proposta musicale. Un evento che da anni si distingue e che, visti i continui sold-out, sta raccogliendo i meritati frutti della propria fama. (Carlo Paleari)