Report di Simone Vavalà
Foto di Benedetta Gaiani
Dopo l’annullamento improvviso della data di Vicenza la sera precedente, il timore che saltasse anche il concerto dei Queens Of The Stone Age in quel di Milano era alto. La conferma dell’esibizione è giunta solo nel primo pomeriggio, motivo per cui – non ce ne abbiano le prime band presenti in cartellone – siamo arrivati al termine dello show dei The Vaccines, su cui abbiamo sentito comunque commenti positivi. Poi, è stato tempo di esplorare un po’ l’area concerti, scoprire (nemmeno completamente, a ben vedere) le varie aree cui il promoter ci aveva gentilmente concesso accesso con una sfilza di braccialetti degni di un calciatore in vacanza a Ibiza.
Ma soprattutto, abbiamo avuto modo di assistere all’esibizione dei Royal Blood e avere qualche informazione in più sui fatti del giorno prima, scoprendo che la causa dello stop forzato sarebbe stata un’ernia inguinale, da cui Josh Homme si è ripreso in tempo record (anche se, come vedremo, la durata del concerto ne ha inevitabilmente risentito).
Per quanto riguarda la location, l’Ippodromo di San Siro è ormai una nota croce e delizia, già trattata più volte su queste pagine; ma a parte la maledizione dei token, va detto che per un’affluenza come quella di questa sera – che avevamo ipotizzato a naso sulle quindicimila, ma che pare aver toccato le diciottomila unità – tutto scorre abbastanza liscio, dalla possibilità di godersi il concerto, alle code alle casse e ai bagni, fino al deflusso della massa a fine show.
Dicevamo, poco meno di ventimila persone presenti; se dovesse parlare il fan che ha assistito al primo concerto dei QOTSA esattamente venticinque anni fa, ovviamente pure troppe per godere appieno e da vicino del concerto, condividendo sudore oggi come al tempo. Ma la band americana ha fatto parecchia strada, da allora, diventando una delle realtà più solide, continuative e creative del rock alternativo, quindi ben venga un successo di pubblico che, per una volta, bacia anche ex paladini dell’underground. Che, anzi, meriterebbero forse numeri ben superiori, pensando alla loro qualità. Let’s go with the flow!
Mike Kerr e Ben Thatcher: già quando si ascoltano i loro dischi, leggere due soli nomi dietro il monicker ROYAL BLOOD fa quasi impressione, ma l’impatto dal vivo – per chi vi scrive è stata la prima occasione – è decisamente oltre.
Troppe volte abbiamo letto del duo di Brighton come la risposta inglese a The White Stripes, ma se si esclude, appunto, il numero di componenti, e uno spiccato amore per il blues e il garage rock, parliamo di due approcci completamente diversi. Se gli ex coniugi White riducevano all’osso ogni struttura, cercando di proporre un rock quasi primordiale, Mike e Ben esplorano in libertà alternative rock, qualche spruzzo di grunge, un gusto melodico che non può che venire, nel loro caso, dal britpop e tanto, tanto sudore.
Ben, dietro le pelli, è inventivo e inarrestabile, al punto che già al secondo brano decide di lasciare quasi da solo il suo sodale e gettarsi nel pogo, da cui risale visibilmente felice. Abbiamo scritto quasi, perché dal vivo i due sono accompagnati dal tastierista Darren James, ma la sua presenza, ironicamente piazzato dietro la batteria in un gioco di vedo non vedo molto anglosassone, è perfettamente funzionale a raddoppiare certi passaggi o a mantenere una spina dorsale mai invasiva quando i due membri principali divagano in brevi ma intensi assoli, donando anche qualche momento di vaga psichedelia in salsa grezza.
Mike Kerr, con il suo basso, sopperisce all’assenza delle chitarre grazie a una stratificazione di effetti strepitosa, oltre a una perizia tecnica non indifferente; e anche a livello vocale, risulta espressivo tanto nei momenti più catchy, che nei momenti più tirati. Non sarà un caso se, oltre all’endorsement di amici come gli Arctic Monkeys, i Royal Blood sono stati fin dagli inizi oggetto del plauso di Sua Maestà Jimmy Page.
L’ora appena abbondante di concerto è volata piacevolmente, forse fin troppo in fretta, alternata tra estratti di tutti i loro album, con particolare attenzione al disco di esordio; un album evidentemente ancora nel cuore dei fan, che hanno cantato e ballato con trasporto. Giustamente.
L’ora di attesa dopo la fine del precedente show ha due soli scopi evidenti: creare aspettativa – come se non ce ne fosse già abbastanza – e permettere ai QUEENS OF THE STONE AGE di salire sul palco con il favore delle tenebre… e anche da questo punto di vista, non era necessario il buio per godere comunque di una formazione che, ad oggi, sta senza dubbio nell’Olimpo delle rock band in sede live. E lo dimostra anche in una serata che, come detto è stata in dubbio fino all’ultimo.
L’attacco è una dimostrazione d’intenti chiara: il riff trascinante di “Little Sister”, fa subito scatenare il pubblico, che canta a squarciagola con la band, come del resto avverrà per buona parte del concerto.
Josh conferma nello sguardo un po’ di sofferenza, ma non manca di sfruttare ogni goccia di energia possibile, con il suo atteggiamento sfrontato e quelle mossette con la chitarra che l’hanno reso ormai iconico. Non più, comunque, della sua classe con la sei corde stessa e alla voce; da questo punto di vista, anzi, più invecchia (benissimo, come conferma l’entusiasmo del pubblico femminile) e più diventa consapevole e capace nel modularla, sfruttando ogni registro nel percorrere le diverse fasi della carriera della band.
Nonostante solo un’ora e un quarto di esibizione – decisamente scusata, date le premesse – vengono toccati quasi tutti gli album usciti finora: peccato solo per l’esclusione di una “Regular John”, ripescata in qualche data di questo tour, a sugellare il percorso completo tornando fino al loro primo brano ‘ufficiale’. I brani estratti da “…Like Clockwork” e dal recente “In Times New Roman” permettono di mettere in mostra la sempre maggiore ricerca negli arrangiamenti, senza tradire la vena profonda rock’n’roll, ma con quel mix di classe che è la chiave della loro evoluzione.
Il resto del gruppo contribuisce alla grande al muro di suono: Troy Van Leeuwen, ormai eterno sodale, si concentra ovviamente sulla chitarra, le cui parti soliste si intersecano alla perfezione con quelle di Homme. Michael Shuman al basso sembra fisicamente un giovane Homme reincarnato, mentre il batterista Jon Theodore, ex Mars Volta, a parte sfoggiare una capigliatura degna dei suoi vecchi compagni di gruppo, è una spina dorsale perfetta: un fabbro quando serve (come nell’intermezzo di “No One Knows”, brano ovviamente acclamatissimo), elegante e creativo quando le chitarre volano via in libertà, couadiuvate dal prezioso lavoro in secondo piano – ma non troppo – delle tastiere di Dean Fertita, che esplodono in modalità quasi elettronica su “Go With The Flow”.
L’alternanza dei brani è intelligente per non far mai pendere troppo l’asticella verso gli estremi; dovendo scegliere dei momenti cruciali per descrivere cos’erano e cosa sono diventati i Queens Of The Stone Age, ci viene da citare due brani: “The Lost Art Of Keeping A Secret”, che su “Rated R” spiccava per la sua sintesi tra la vecchia anima stoner e una ricerca psichedelica notevole, è stasera un momento di intimismo da brividi; poi, ovviamente, il gran finale affidato a “Song For The Deaf”, un’altra perla magistrale che fa esplodere diversi focolai di pogo, rendendo l’Ippodromo quasi un baccanale con i suoi due, furenti, reprise.
Peccato, come già scritto, vedersi accendere subito dopo le luci, ma sull’esibizione, la voglia e l’eccezionalità di questa band, non c’è veramente nulla da dire.
Setlist Queens Of The Stone Age:
Little Sister
Smooth Sailing
My God Is The Sun
The Evil Has Landed
Paper Machete
Emotion Sickness
I Sat By The Ocean
Time And Place
Go With The Flow
The Lost Art Of Keeping A Secret
Carnavoyeur
Make It Wit Chu
You Think I Ain’t Wort A Dollar, But I Feel Like A Millionaire
No One Knows
Song For The Dead
THE VACCINES
ROYAL BLOOD
QUEENS OF THE STONE AGE