Report di Denis Bonetti
Fotografie prese dalla pagina ufficiale del festival
Il Ragnarök è uno dei tantissimi festival medio-piccoli che si svolgono in terra tedesca durante tutto l’arco dell’anno: con l’edizione appena conclusa siamo giunti al traguardo della diciannovesima edizione.
Nato nel 2004, si svolge ormai da moltissimi anni nella location fissa della Stadthalle di Lichtenfels, il palazzetto dello sport della cittadina della Franconia che si trova ad un’ora di auto a nord di Norimberga.
La dimensione del festival – a pieno regime – è di circa tremila persone e come quasi tutti gli eventi che fioriscono in terra tedesca, sfrutta una costruzione a misura d’uomo, con sufficienti punti ristoro per birra e cibo, un’area campeggio e la possibilità di parcheggiare con comodità, vista anche la collocazione in un’area non densamente popolata.
Nel corso del tempo la manifestazione si è assestata su coordinate legate al pagan e al viking metal, con ovviamente tutto un contorno di black metal più classico. Gli anni più fiorenti sono stati attorno al 2010, quando il genere era realmente in auge, con i vari Moonsorrow, Primordial, Finntroll, Ensiferum, Einherjer, Borknagar, Equilibrium e Manegarm ad occupare sempre le posizioni più prestigiose.
Chi scrive ha partecipato per tre volte, tra il 2012 e il 2014 e quest’anno abbiamo voluto testare come potesse essere cambiato l’evento, in relazione anche ad una diversa ricezione da parte del pubblico del (sotto)genere musicale stesso, visto che i giorni più commercialmente floridi del pagan/folk sono ormai passati, almeno per quanto riguarda questo modello musicale nato in seno al black metal dei tardi anni ‘90.
In una giornata piovosa che non ci tranquillizza del tutto, ci rechiamo perciò in quel di Lichtenfels per assistere alle tre giornate di festival. Vediamo come è andata.
GIOVEDÌ 4 APRILE
Dopo essere arrivati in quel di Lichtenfels in una serata decisamente fresca a causa del temporale appena passato e svolte le operazioni di accettazione, con il nostro braccialetto ci dirigiamo all’interno del palazzetto e notiamo subito come nulla sembri essere cambiato. L’ampia area merch interna dedicata alle band, quella esterna con tendone dedicato al metal market, i due palchi affiancati, i chioschi della birra e l’area antistante alla struttura con i relativi food-truck sono tutti nelle posizioni in cui ce li ricordavamo, segno di stabilità. Un cartello all’entrata indica come i pass per due giorni siano esauriti e rimangano invece biglietti giornalieri. L’atmosfera è già di festa, come ad un ogni evento in terra tedesca, con i vari torpedoni allestiti a campeggio temporaneo, le tende e svariati personaggi a petto nudo o quasi nonostante la temperatura ben lontana dai venti gradi.
Attorno alle 20, avvicinandoci al palco assistiamo con piacere all’esibizione dei GASBRAND, duo di Marburg che bazzica i piani più underground della scena black metal tedesca. Vedere solamente batteria più chitarra e voce esibirsi sul palco decisamente ampio di Lichtenfels fa un certo effetto, ma il black metal solenne, appena atmosferico e classico dei nostri regge il confronto con la dimensione live, sostenuto ovviamente dalle basi registrate per il basso.
I pezzi proposti si assomigliano in definitiva un po’ tutti, ma creano un’atmosfera che le diverse centinaia di fan presenti apprezzano sicuramente, tributando calore ed applausi. La band ha finora rilasciato due soli EP che potrebbero essere il preludio ad un full di valore. Interessanti, anche se ovviamente incompleti dal vivo.
Dopo di loro tocca alla finlandese VERMILIA, nome che dovreste appuntarvi se siete interessati a commistioni fra black metal e folk come quelle portate avanti da realtà come Myrkur.
Julia Mattila, in arte Vermilia, è un’artista finlandese che finora ha deciso la via dell’autoproduzione e propone un misto tra pagan, atmospheric e folk venati ovviamente di black metal. La stessa Julia si occupa di tutti gli strumenti da studio, mentre sul palco si prodiga a cantare (sia con una specie di scream che in pulito) e ad occuparsi di varie percussioni.
In questo tipo di proposta, da valutare è sempre il bilanciamento tra elementi prettamente metal e le parti tradizionali: nel caso di Vermilia il focus principale è sempre legato alle chitarre prive di distorsione, abbinate alla voce pulita o cantilenante di Julia, in un effetto complessivo adeguato, grazie anche al carisma della performer.
A metà tra il nuovo corso del folk legato ad Heilung e Wardruna e la vecchia scuola pagan figlia del black metal, Vermilia è in grado di intrattenere e divertire moltissimo il pubblico presente che ormai riempie per bene il palazzetto. Fra i brani, apprezziamo soprattutto le splendide “Ruska” e “Marras” dall’ultimo album uscito verso la fine del 2022.
Come in ogni comunità metal, ci sono i fenomeni a dimensione locale che sparigliano le aspettative di chi, come noi, arriva da altre nazioni.
È evidente a questo punto della serata come il debutto di ROBSE sia molto atteso: stiamo parlando della nuova band di Robert-Martin Dahn, secondo storico cantante degli Equilibrium, band del filone pagan folk che ha fatto capolino anche da noi negli anni con dischi come “Turis Fratyr” e “Sagas”, ma che poi si è ritirata in una dimensione di successo in territori più favorevoli, come il proprio paese. Robert ha ricoperto il ruolo di frontman dal 2010 in poi per lasciare il gruppo nel 2022. Dal nostro punto di vista, al di là della ricezione più o meno ampia in territorio nazionale, gli Equilibrium hanno smesso di essere rilevanti proprio in questo periodo, ma non vogliamo farne un pregiudizio.
Acclamatissimi dai fan, i cinque si presentano sul palco carichissimi, con Robse stesso a far da mattatore ed accompagnare le canzoni da ampie presentazioni in tedesco che – ahinoi – ci perdiamo quasi completamente causa scarsa conoscenza della lingua. La proposta musicale è invece fin troppo identificabile: melodeath in salsa viking che richiama da un lato i Dark Tranquillity e dall’altro gli Amon Amarth. Alcuni ritornelli sono decisamente stuzzicanti anche per chi non ha mai sentito le canzoni ed in sede live funzioneranno più che bene, ma ci sembra tutto abbastanza scontato. Bello comunque l’entusiasmo con cui si propongono sul palco e la cornice del pubblico.
Dopo di loro tocca ad un’altra realtà che in Germania gode di un grande successo, i VARG.
Per come li vediamo dall’Italia, è possibile fare un discorso affine agli Equilibium: da noi sono comparsi con “Blutaar” e “Wolfskult” per poi scomparire progressivamente dai nostri radar. In patria invece, hanno una solidissima base di fan, i loro tour sono sempre ben accolti e sono coinvolti che nell’organizzazione di festival estivi, oltre a portare avanti marcate posizioni antifasciste. Il genere musicale nel tempo si è evoluto dal semplice viking metal, incorporando sempre più ampie influenze melodeath e metalcore. Dal 2020 è presente anche la cantante Fylgja, che ha dato più ampio respiro alle composizioni del gruppo, che se vogliamo si evita di cadere in stereotipie come quella degli appena visti Robse.
La loro esibizione, accompagnata da fuochi, effetti e un grande coinvolgimento dell’audience, è totalmente godibile anche da chi, come noi, non segue il gruppo disco dopo disco ma si limita a rinfrescarsi con i singoli in uscita. Le soluzioni musicali dei Varg sono semplici, ma il tiro esecutivo della band, la presenza scenica del cantante Freki e l’evidente familiarità dei musicisti (che suonano davvero a memoria) rende la loro setlist davvero coinvolgente.
L’ora a loro dedicata scorre perciò in modo realmente piacevole ed insieme a Vermilia il primo giorno del Ragnarök può considerarsi un successo sotto ogni punto di vista e non un riempitivo.
VENERDÌ 5 APRILE
Dopo la serata metereologicamente interlocutoria del pre-show, il sole splende su Lichtenfels e poco dopo pranzo ci rechiamo nuovamente allo Stadthalle per iniziare la nostra prima giornata di festival.
I concerti si aprono con i CALAROOK, pirate metal band con voce in growl abbastanza sui generis: di death metal melodico si tratta, con l’aggiunta di trame di violino eseguite sul palco da Nori Kalevala.
I pregi ed i difetti del genere si notano tutti, nei volenterosi svizzeri: un allestimento di palco e costumi sì sgargiante, ma visto troppe volte e strutture musicali troppo lineari per destare reale interesse. Tolto il violino (che non sempre si è sentito sul palco, come accade spessissimo nel mix live per strumenti simili) resta poco se non la simpatia dei nostri.
Notevole comunque l’afflusso di pubblico già presente a supportare i gruppi in diverse centinaia alle due del pomeriggio.
Da questo momento in poi, iniziano i velocissimi cambi di palco tipici del festival, e dopo cinque minuti, sulla nostra destra dei due palchi affiancati, tocca ai finlandesi SUOTANA, band sicuramente non nuova (attivi dal 2005) ma di cui non ci eravamo mai francamente accorti.
La loro proposta, seppur professionale, è un melodic death/black con influenze che variano da Dark Tranquillity a Eternal Tears Of Sorrow, da Children Of Bodom ai vecchi Arch Enemy. Piuttosto pomposi nel suono, accusano un paio di sbavature dovute all’impianto del palazzetto ma tengono il palco dignitosamente. Caratteristiche personali a parte, i Suotana ci fanno ragionare su come ci siano legioni di band stilisticamente codificate che appaiono e scompaiono nell’oceano infinito che ormai è la musica metal.
Velocissimo cambio palco ed è ora degli olandesi VANAHEIM, un vero tuffo nel passato riguardo alle sonorità: siamo di fronte alla prima band che avrebbe fatto furori attorno al 2010 con il proprio suono debitore degli Einherjer prima maniera o Ensiferum.
Entusiasti, padroni del palco, aiutati da un allestimento con alberi, banner, lanterne e vari gimmick che appaiono al momento giusto (tra cui l’enorme libro sfogliato dal cantante Zino in un pezzo dedicato alle leggende) intrattengono alla grande il pubblico, che inizia a danzare e ad organizzarsi in festosi circle pit. Se le sonorità sono tutt’altro che originali, il risultato è trascinante sotto tutti i punti di vista e denota una intelligente progettualità nel gruppo: bellissimo anche il merchandise, incluse piccole forme di formaggio olandese marchiate Vanaheim. La prima sorpresa del fest, per quel che ci riguarda.
Dopo di loro tocca ai THEOTOXIN, nuova realtà del black metal più classico dove militano diversi personaggi di esperienza ben conosciuti in zona Austria/Germania, tra cui Torsten di scuola Nocte Obducta/Agrypnie.
Sotto contratto con Art Of Propaganda, i nostri sono stati particolarmente prolifici dal 2016 in poi, con ben quattro album e una attività live almeno di recente parecchio intensa. Capita spesso quindi vedere il logo dei Theotoxin in vari tour o eventi, anche se per noi è stata la prima volta dal vivo: l’impressione è quella di una band solidissima, ma altrettanto monolitica e ferma su coordinate black metal scandinave spruzzate di un po’ di death metal moderno affini a quanto fatto da Naglfar o Belphegor nel tempo.
Dopo parte del loro set decidiamo di concederci una pausa girando per il palazzetto e notiamo, nell’area merch, come ci siano diverse band che hanno già esposto il loro materiale: ci colpiscono i CD dei Finntroll e dei Suotana a ben venti euro mentre poco distante, gli scozzesi Saor li espongono al classico, quasi scomparso, prezzo di dieci. Una felpa particolamente curata dei Finntroll arriva a costare ottanta (sic!) euro, mentre band più piccole propongono maglie stampate con un solo colore al prezzo non modico di venticinque (ari-sic!).
Al netto di rincari per il servizio vendita proposti dal fest di cui non siamo ufficialmente a conoscenza, è interessante ragionare su come il mondo del merch sia diventato una vera giungla ormai, in quanto spesso unica fonte di guadagno netto per i gruppi, soprattutto in questo momento di elevatissime spese logistiche dei tour.
Altro elemento che si fa notare in moltissime postazioni merchandise dei gruppi è, oltre agli immancabili vinili colorati, la presenza delle edizioni limitate in tape, altra peculiarità di questo mercato irregolare ed imprevidibile che ogni due o tre anni si propone con trend nuovi.
Dopo un veloce giro di acquisti e una birra, venduta al prezzo più che popolare di quattro euro, e conquistata una posizione di favore in un palazzetto già piuttosto pieno, ci godiamo i WALDGEFLÜSTER, uno dei gruppi che aspettavamo di più e che abbiamo visto crescere nel tempo in vari contesti live tedeschi.
La band della Baviera ormai ha creato un proprio brand musicale cantato in dialetto che si muove sapientemente fra atmosfera, post-black e aggressività vecchio stile. I consueti alberi scheletrici con appesi vari manufatti esoterici adornano il palco, le luci si abbassano e i nostri esplodono in una esibizione che riteniamo stupenda.
L’ultima volta li avevamo visti un paio di anni fa, in apertura ai Panopticon, e non possiamo fare a meno di notare come ormai la band, dopo quasi una decina di prodotti discografici di alta qualità, abbia davvero una dimensione propria. Sono sempre in bilico tra maestosità e minimalismo, tra intimismo ed aggressione, dualismo che si riflette nella prova vocale di Winterherz, efficace sia sugli scream che sui puliti. Se non li conoscete, sicuramente uno dei nomi a cui rivolgere la vostra ricerca musicale.
Altro rapidissimo cambio, ormai verso sera, con gli IMPERIUM DEKADENZ, altra realtà ormai ventennale che si è mossa però verso una dimensione di notorietà maggiore con i recenti “When We Are Forgotten” e “Into Sorrow Evermore” e lo spostamento del proprio suono verso un black metal meno classico ma comunque molto serrato, in linea con quanto fatto dai compatrioti Der Weg Einer Freiheit, Helrunar o Agrypnie. Emergono qua e là sentori più malinconici, affini a Drudkh o alla scuola del black atmosferico, ma è una costanza sui tempi veloci ad essere sempre la spina dorsale della band del Baden. Chi scrive li ha sempre seguiti poco, ma con questa esibizione ci siamo convinti ad approfondirne la discografia.
La tiepida giornata di sole volge ormai al termine, con gli albionici WINTERFYLLETH a prendere possesso del palco di sinistra e notiamo come le presenze siano calate attorno all’area palco, probabilmente anche per la concomitante ora di cena, ma secondo noi anche perché si tratta della prima band straniera dopo ben tre tedesche. I suoni, per la prima volta, non sono perfetti sin dall’inizio e in generale non abbiamo mai trovato il mix adeguato, visto che dagli spalti dove ci siamo sistemati non mancano crepitii e sbalzi di volume.
Troviamo inoltre il suono complessivo delle chitarre molto sottile e non adeguato a ricreare le atmosfere che emergono negli ormai tanti dischi del gruppo di Manchester. I quaranta minuti a loro concessi non permettono di approfondire molto la scaletta ma riconosciamo con piacere un paio di estratti dall’ultimo, notevole “The Reckoning Dawn”. Verso la fine dell’esibizione decidiamo di spostarci all’esterno per cenare e vediamo quindi molto di fretta parte dell’esibizione degli estoni METSATOLL, altra realtà pagan/folk che è resistita a tutto e a tutti attraverso il tempo.
Finché ceniamo, ragioniamo sul fatto che finora abbiamo visto diverse band considerate ‘minori’ ma che hanno un ventennio di carriera alle spalle e in qualche modo resistono a mode, imprevisti della vita, pandemie e quant’altro: testimonianza che la perseveranza e in qualche modo la resilienza nel metal sono termini ben noti e che anche in caso di gruppi dove la dimensione ‘ultima’ a livello di successo è stata raggiunta il piacere di suonare rimane intatto o quasi.
I THE VISION BLEAK sono tornati in attività, non è un segreto per nessuno: dopo una lunga pausa dopo “The Unknown” del 2016, lo scorso anno ha portato la celebrazione dal vivo del primo album “The Deathship Has A New Captain” (riportato live in contesti selezionati) ed è in uscita un nuovo album in questi giorni. Konstanz e Schwadorf, attivi dopo tanti anni anche con Empyrium, Ewigheim e The Sun Of The Sleepless sono personaggi molto noti in terra germanica e si muovono realmente a proprio agio sul palco di Lichtenfels.
I The Vision Bleak hanno sempre proposto una loro teatrale miscela di dark rock, gothic rock e metal oscuro sin dall’inizio, alternando se vogliamo episodi più guitar-oriented ad altri decisamente più affini alla scuola The Sisters Of Mercy e Bauhaus. Concettualmente siamo nel barocco territorio delle storie dell’orrore e dell’occulto, passando da Lovecraft a Stoker, dal voodoo ai cimiteri infestati. L’esibizione è scorrevole e divertita, partecipata allo stesso modo da parte di pubblico e band, anche se personalmente non abbiamo mai trovato il dark rock dei nostri particolarmente esaltante (soprattutto la voce di Konstanz) e li preferiamo in quei momenti in cui chitarre spesse dettano il tempo.
Sono quasi le dieci di sera e stanno per arrivare i KANONENFIEBER a Lichtenfels: la quantità di maglie e merch del gruppo in giro per la location è praticamente oscena, e le presenze davanti alla parte destra del palco sono ingenti. Sulle gradinate del palazzetto è quasi impossibile sedersi, tra l’altro. Eppure, la band di Bamberg non lesina le apparizioni live, altro segno che il momento d’oro dei nostri non accenna a concludersi.
Appena il tendone del palco viene scostato, l’allestimento è imponente e diverso dall’ultima volta che li abbiamo visti, circa un anno e mezzo fa: oltre ai sacchi di sabbia e al filo spinato spunta ormai la riproduzione di un cannone in piena regola oltre ad effetti e fuochi di vario genere.
La scaletta si è in parte rinnovata: oltre alle pietre angolari prese da “Menschenmühle” ci sono i singoli “Der Füsilier” (con la scenetta invernale ormai diventata un automatismo) e “Die Havarie” legata al concept degli U-Boot, dove c’è persino un cambio di costume dei cinque. La prestazione di Noise e soci è come sempre eccellente al di là dell’importanza dei prop da palco, e ormai ad ogni live si viaggia sempre di più con il pilota automatico.
A nostro parere, la risposta del pubblico è grandiosa, addirittura maggiore di quanto poi riservato ai veri headliner della serata, i Finntroll. Non possiamo che concludere ripetendo come la curiosità di cosa arriverà in futuro, a livello discografico, sia sempre più forte.
Puntualissimi, alle undici sono i FINNTROLL a salire sul palco, acclamati dalla folla.
Se con i Kanonenfieber abbiamo visto agitarsi diversi giovani, ora il momento dell’eccitazione è riservato a diversi personaggi con qualche capello bianco che esultano quando i finnici prendono possesso del palco di sinistra. Brutti suoni purtroppo introducono i nostri, con chitarre assenti per le prime tre canzoni, per poi crescere pian piano fino a raggiungere una equalizzazione adeguata purtroppo solo dopo la metà del set.
In tour per promuovere ancora “Vredesvävd”, i nostri si presentano senza tastierista ma con l’ausilio delle basi; per il resto è la formazione che ci aspettavamo e ci colpisce fin da subito la prestazione del batterista MörkÖ, al pari ovviamente del microfono con teschio e fumo di Vreth e la stazza imponente di Routa.
Sempre ‘moderatamente’ mascherati da troll con orecchie a punta e un po’ di trucco, i nostri ci sono sembrati in forma, sostenuti da una scaletta intelligente che ha sì ancora promosso il nuovo, con tre/quattro estratti, ma ha pescato giustamente sparando classici da “Nattfödd”, “Blodsvept” e “Nifelvind”. Se dobbiamo analizzare lo stato di forma dei nostri troll, possiamo dire che in un momento in cui abbiamo visto in undici anni un solo disco di inediti, lo smalto non è sicuramente sparito. Certo, abbiamo dei ricordi di una band feroce e fuori di testa ai tempi di “Nattfödd”, ma gli anni passano per tutti.
Conclude la serata l’unica grande sorpresa di questa prima giornata: PERCHTA.
Si tratta di una nuova realtà – con un solo album all’attivo e un secondo in uscita per Prophecy – artisticamente gestita da Fabio D’Amore (già con i Serenity) e la stessa Perchta. I due, assistiti da una live band, propongono un miscuglio di folk black assolutamente interessante e in grado di rivoluzionare gli stereotipi del genere: la presenza dello xilofono sul palco al posto delle tastiere, le aperture acustiche al pari delle svisate realmente violente, la voce di Perchta che riesce a impersonare sia la feroce fata/strega del concept che la voce eterea ma con tanto spessore al punto da ricordarci una Anneke dei The Gathering più sperimentali.
Tra percussioni simili al bodhran suonati proprio da Perchta, interludi eterei e una performance sentitissima, i tre quarti d’ora a loro concessi sono sufficienti per incantare un po’ tutto il pubblico, nonostante l’ora tarda.
E’ l’una di notte ormai, ma usciamo realmente soddisfatti: oggi abbiamo visto conferme più o meno illustri e ci siamo ancora una volta sorpresi da qualche novità. Cosa vogliamo pretendere di più?
SABATO 6 APRILE
Il bel tempo ormai è arrivato, il sabato mattina di Lichtenfels è decisamente luminoso e la temperatura molto piacevole.
Dopo una lauta colazione ci dirigiamo per l’ultima volta presso la Stadthalle, giusto in tempo per assistere alla conclusione dell’esibizione dei danesi VANSIND. Ci sono parsi onesti e convinti mestieranti del folk metal con i flauti e cornamuse, con la loro alternanza fra roca voce maschile e femminile e trame di chitarra decisamente vicine all’heavy metal classico.
Appena i nostri salutano, dall’altro palco inizia l’esibizione di un’altra grande sorpresa del festival, ELLEREVE, ovvero l’esperienza musicale di Elisa Giulia Teschner, cantautrice che fa riferimento, musicalmente parlando, a dark rock, shoegaze e folk. L’esibizione è intima, sentita, particolarmente fuori genere per quanto abbiamo visto finora ma le melodie proposte dalla bella Elisa trascendono, ad un certo punto, il concetto stesso di genere.
Si sente di tutto nelle canzoni di Ellereve: da P. J. Harvey ai Pearl Jam, passando per tutto ciò che nel metal ci sta stupendo mese dopo mese quando parliamo di songwriter femminili di caratura, in un percorso che va da Emma Ruth Randle a Chelsea Wolfe, passando ovviamente per Myrkur.
Che dire, se non che Elisa e la sua band promettono davvero molto bene.
Dopo il solito rapidissimo cambio palco è ora dei SAGENBRINGER e le lancette dell’orologio si spostano decisamente indietro, proprio agli anni in cui il pagan/folk era in auge: simpatia da palco a parte, con dei cappelli a forma di boccali di birra in gomma piuma distribuiti al pubblico, sembra davvero di risentire la vecchia guardia vichinga di più di una decade fa, con Ensiferum e gli stessi Varg a fare da modello. Sostanzialmente accessori, si fanno ricordare per convinzione e simpatia, ma anche perché in fondo uno slot basso in un festival non si nega a nessuno.
A seguire, apprezziamo con moderazione gli ISTAPP, svedesi di razza che appesantiscono le atmosfere con il loro black metal dritto e furibondo a concept ghiaccio, forse un po’ troppo indebitati con un’estetica da “Trono Di Spade” e musicalmente, in fondo in fondo, fin troppo standard in un mondo che non riesce ancora a fare a meno di Naglfar, Marduk, Immortal e Dark Funeral, come in parte vedremo più tardi.
Sono le tre del pomeriggio e dentro al palazzetto, per via della bella giornata, inizia a fare caldo.
Nel frattempo iniziano ad esibirsi gli HORN, altri veterani del black metal atmosferico, recentemente più in vista grazie anche alla posizione nel roster della Northern Silence. Dobbiamo anche riconoscere che gli ultimi due “Verzet” e “Mohngang” sono due dischi di buonissima caratura e il prossimo “Daudswiärk” promette già molto bene. La conferma è avvenuta sul palco di Lichtenfels, con la solennità del loro black metal restituita al pubblico nella maniera migliore.
Attendevamo i FEN con un certo interesse, visto che di loro ci ricordavamo solo una interlocutoria esibizione al Prophecy Fest con dei suoni poco brillanti. Purtroppo, anche stavolta la resa complessiva dal vivo degli scozzesi ha lasciato molto a desiderare, in parte per i volumi ed in parte perché con una formazione a tre, una sola chitarra e un basso fin troppo alto come volume, cominciamo ad avere il sospetto che le atmosfere a cui ci hanno abituato in dischi pieni di malinconia e riflessione fatichino ad uscire su un palco. Molto deboli anche le voci pulite di Grungyn: l’impressione generale è che i Fen siano un gruppo poco avvezzo a suonare dal vivo. Speriamo di ricrederci in futuro.
Come un vero ribaltamento di fronte, i NON EST DEUS arrivano sul palco del Ragnarök in modo dirompente, grazie alla loro miscela di black e death metal; per chi non fosse al corrente, stiamo parlando dell’altro progetto di Noise dei Kanonenfieber, addirittura precedente all’altra sua band di maggior successo. L’operazione di recupero appare evidente: stessa formazione, stesso approccio teatrale ma nuovi costumi.
Stavolta il concept è legato a monaci satanici mascherati e quant’altro, con tanto di benedizioni e eucaristie in odor di blasfemia, ma la proposta è facilmente riconoscibile. Il black metal dei nostri è evidentemente composto dalla stessa mano e, soprattutto nei pezzi dell’ultimo “Legacy”, non è difficile riconoscerne la matrice comune.
Bellissimo spettacolo, comunque, oltre a dover ammettere ancora una volta una cura artistica notevole, merchandise bellissimo incluso. Inutile, c’è chi ha proprio talento nel ‘creare’…
La seconda parte del pomeriggio è ormai arrivata, allo stesso modo dei CRUACHAN che, enormi problemi di line-up a parte, resistono ancora.
Ben lontani dai riconoscimenti di un tempo (sempre che ne abbiamo mai realmente avuti), Keith Fay e soci sembrano comunque aver ritrovato una sorta di stabilità in formazione dal 2020.
La scaletta si muove avanti e indietro nel tempo, dai classici come “Ride On” fino a proporre giustamente estratti dal più recente “The Living And The Dead”. Sul palco, a fianco di Keith, c’è l’ormai veterano Joe Farrell al basso, la violinista Audrey finalmente fissa in formazione e la partecipazione della voce femminile di Kimberly che compare da metà set in poi.
Il risultato è migliore del previsto e il pubblico apprezza indugiando in danze e ancora una volta si esibisce allegri trenini e circle pit decisamente non violenti. I Cruachan, per chi li segue degli inizi, sono sempre stati una band incompiuta, con pochissimi alti e troppi bassi, ma hanno sicuramente contribuito a forgiare la commistione fra musica celtica ed estrema. In sostanza, è comunque sempre bello averli ancora fra noi.
Definiti da molti come una nuova leva di un modello di black metal ormai ‘passato’, i norvegesi NORDJEVEL hanno messo rapidamente a ferro e fuoco il palazzetto, con una scaletta praticamente composta di pezzi velocissimi in stile primi Immortal, Marduk e Dark Funeral (e, visto che siamo in Germania, di epigoni come i redivivi Endstille); quando invece i nostri non pestano come forsennati sull’acceleratore i natali dei loro pezzi si rifanno al thrash estremo degli Slayer.
C’è poco da dire oltre a questo: la scelta della band è nettissima e si possono tecnicamente permettere di portarla avanti con fierezza. Da parte nostra però, dopo una ventina di minuti ci siamo ritrovati ad avere un interesse abbastanza basso, e non per ostilità al genere.
Corriamo a comprarci un po’ di cibo perché vogliamo assistere in pace all’esibizione degli HERETOIR, una delle gemme purtroppo ancora nascoste del post-black: la band di Eklatanz (all’anagrafe David Conrad) a nostro parere ha raccolto poco rispetto alla qualità di dischi come “The Circle” e il recente “Nightsphere”.
Se il post-black per essere efficace deve riuscire a costruirsi atmosfere piene di penombra e trasporto, poche band sono in grado di farlo come gli Heretoir, grazie soprattutto alla voce magnifica di Conrad, in grado di urlare in modo disperato tanto quanto di esprimersi in puliti pieni sia di timbro che di estensione; sentirlo scaldarsi durante il check con vocalizzi dall’anima soul, tra l’altro, ha fatto drizzare le orecchie a molti dei presenti che si sono assiepati sotto palco.
Chi scrive ha visto gli Heretoir più volte nel tempo ed ogni volta coglie un miglioramento nella performance: i nuovi pezzi, su tutti “Twilight Of The Machines” sono veri e propri inni blackgaze come pochi altri.
Il resto della scaletta indugia giustamente sul precedente “The Circle”: “Eclipse” ed “Exhale” restano magnifiche coltellate al cuore e dopo i cinquanta minuti a loro riservati usciamo all’aria aperta a bere qualcosa felici, ma ci stupiamo quindi un po’ come la fama del gruppo sia poco diffusa al di fuori del contesto tedesco. Peccato.
Rientrando è ora dei SAOR che propongono uno show speciale dedicato ad “Aura”, il secondo indimenticato capolavoro.
Avvolti da un buon quantitativo di fumo e da luci blu scuro, i componenti della formazione live si scorgono appena e ci vuole un po’ per distinguere le figure che emergono; l’effetto complessivo è sicuramente molto suggestivo, anche se oltre al patron Andy Marshall saremmo stati un po’ più curiosi di capire quali sono gli strumentisti coinvolti in questo momento.
Altra trovata interessante è disporre su due pedane rialzate su un lato il batterista e sull’altro la strumentista Elle che si occupa di tutti i flauti, della voce femminile e delle cornamuse. Una proposta così densa musicalmente, come quella dei Saor, viene quindi quasi tutta proposta dal vivo senza basi, o almeno questo è quello che ci viene suggerito anche se, onestamente, in tanti anni di concerti l’equalizzazione di flauti, violini e cornamuse per moltissime band è sempre stata un punto dolente. Stavolta invece, abbiamo sentito i flauti in completa evidenza nel mix in maniera quasi irreale. Sia come sia, il set di Marshall e soci ci ha regalato quello che aspettavamo da tanto tempo: atmosfere nebbiose, dense di pathos, guidate più che dalla voce dagli strumenti, in una sorta di continuum musicale quasi ininterrotto. D’altronde, la scelta di proporre un solo disco aiuta questo tipo di emozioni e per una volta non ci sentiamo di lamentarci. Spettacolo particolare ma emozionante, al di là di qualsiasi altra considerazione.
Non facciamo tempo a riprenderci completamente che tocca agli indomiti KAMPFAR iniziare ad esibirsi sul palco di sinistra, davanti ad un palazzetto stracolmo in ogni ordine di posto.
Dolk è ormai un veterano e i Kampfar festeggiano trent’anni di carriera, come ben evidenziato dal merchandise messo in vendita. Hanno anche attraversato una evidente evoluzione artistica, abbandonando il black metal lineare degli inizi e abbracciando produzioni e strutture musicali più ambiziose: tutto questo sembra essersi amalgamato in modo perfetto però, vista la potenza espressa dai nostri, il calore tributato dal pubblico e il risultato sonoro complessivo.
Il magrissimo Dolk è sempre un mattatore e, sia che si riprendano grandi classici da “Fra Underverdenen” o composizioni più recenti da “Ofidians Manifest” o “Til Klovers Takt” – stilisticamente abbastanza differenti su disco – tutto risulta coinvolgente e ben suonato: un vero manifesto al black metal più puro e incontaminato. L’ora a loro concessa scorre via molto velocemente e ci viene voglia, una volta tornati a casa, di ripassarci la discografia.
I Primordial sono in ritardo con i voli e perciò l’organizzazione decide di rivoluzionare il running order, facendo esibire in anticipo gli ORIGIN.
Inseriti nel bill un po’ come i cavoli a merenda (essendo in tour europeo con i Marduk), iniziano la loro setlist davanti a davvero poche decine di persone, ma l’impatto sonoro da treno in faccia e le esibizioni tecniche impressionanti di basso e batteria iniziano a calamitare sempre più pubblico, che probabilmente gradisce pure un netto cambio atmosfera dopo una tre giorni di black metal e simili.
Il cantante Jason Keyser ironizza sul fatto che “non hanno voci femminili e fottuti flauti” come molti gruppi prima di loro e questa attitudine cialtrona rende l’atmosfera molto spensierata, abbassando qualsiasi possibile ostilità da parte dell’audience. Il resto del risultato lo portano a casa pezzi come le nuove “Chaosmos” e “Decolonizer”, a fianco delle più datate “Portal” e “The Burner”.
Lo ammettiamo: non sono tra i nostri preferiti nemmeno nel loro genere (i dischi del periodo Relapse sono realmente ricordi passati), ma in questo contesto ce li siamo goduti parecchio, visto l’atteggiamento divertito con cui hanno conquistato buona parte del pubblico presente.
A questo punto, sono pochissime le cartucce da sparare per gli organizzatori: la penultima sono gli headliner MARDUK, visti da chi scrive ormai più di una dozzina di volte, e la speranza era quella di veder loro eseguire una scaletta da festival, con un po’ di tutto.
E’ bastato poco per capire che saremmo stati accontentati nel modo migliore: nell’ora a loro concessa abbiamo avuto il piacere di ascoltare un po’ di tutto, sia vecchio che nuovo, accompagnati dalla voce di Mortuus e dalla chitarra di Morgan, ormai ultimi due pilastri rimasti.
Da “The Funeral Seemed To Be Endless” a “Wolves”, da “Panzer Division Marduk” a “Throne Of Rats” tutto sembra funzionare per i nostri a livello di ferocia esecutiva e convinzione: se in questi giorni abbiamo avuto modo di vedere band con qualche decade sulle spalle, per i Marduk il pensionamento sembra davvero lontano.
Verso la fine del set, emerge anche Alan dei Primordial per un duetto con il ferigno Mortuus che non fa altro che arricchire un’esibizione già perfetta di suo.
Dopo un soundcheck prolungato che porta al primo e unico ritardo del festival, ben dopo l’orario previsto partono i PRIMORDIAL per concludere un pacchetto di trentadue esibizioni in tre giorni.
La band non fa mistero di essere arrivata appena in tempo e spiega anche l’assenza del bassista titolare: i Primordial ‘storici’ visti a Lichtenfels quindi includono il solo Alan alla voce e il batterista Simon, mentre alla chitarra troviamo Gerry Clince, già con i Mael Mordha e in questo caso specifico anche un bassista guest.
“As Rome Burns”, la nuova “How It Ends” e “No Grave Deep Enough” sono alcune delle bellissime canzoni eseguite, parte ormai però di un rituale musicale complessivo che nel corso degli anni si è fatto sempre più indefinito.
Lo stile particolarissimo di folk/black metal dei Primordial è ormai in molti momenti veramente ‘decostruito’ quando si trova su palco, e si riconoscono questa o quella traccia più che altro dalle declamazioni del sempre carismatico Alan Nemtheanga che per l’esecuzione stessa. Probabilmente eravamo ormai stanchi noi, forse pure un po’ loro, ma al netto di un’esibizione che ha trattenuto molte persone fino a tardi (oltre l’una e mezza di notte in una giornata di festival partita a mezzogiorno) li abbiamo visti, anche su questo stesso palco anni fa, più focalizzati e feroci.
Una degna conclusione comunque, per un piccolo festival che non vuole morire, nonostante sia stato sorpassato più e più volte da eventi underground più ‘innovativi’, ‘esclusivi’ e maggiormente attenti a fare scelte più mirate. Lunga vita al Ragnarök, perciò, e chissà che per il ventennale annunciato non si decida di ritornare.