Report a cura di Carlo Paleari
Sono passati quasi vent’anni da quando Ritchie Blackmore ha deciso di accantonare (quasi) completamente la sua Stratocaster in favore delle delicate note acustiche della musica rinascimentale; e in questi due decenni i fan non hanno mai smesso di sperarci, sia con Ronnie James Dio, che era sembrato possibilista, prima che il cancro ce lo portasse via, sia con Joe Lynn Turner, che avrebbe ripreso a braccia aperte il suo vecchio ruolo in qualunque momento. Eppure Ritchie non ha mai voluto, e non sono bastate le mani tese dei vecchi compagni, i soldi facili che le reunion portano alle vecchie glorie, né legioni di fan che lo richiedevano a gran voce. Poi però qualcosa è cambiato e lo scontroso e testardo ‘man in black’ si è lasciato prendere dalla nostalgia: si è accorto che il tempo passa anche per lui e la morte di Jon Lord ha aggiunto una crepa nella sua adamantina certezza di non voler più avere a che fare col rock. Nascono così le tre serate dei nuovi Rainbow, dalla voglia di imbracciare la chitarra elettrica per un’ultima volta e suonare quei brani che hanno reso Ritchie uno dei chitarristi più leggendari al mondo.
Sono passati quasi vent’anni da quando Ritchie Blackmore ha deciso di accantonare (quasi) completamente la sua Stratocaster in favore delle delicate note acustiche della musica rinascimentale; e in questi due decenni i fan non hanno mai smesso di sperarci, sia con Ronnie James Dio, che era sembrato possibilista, prima che il cancro ce lo portasse via, sia con Joe Lynn Turner, che avrebbe ripreso a braccia aperte il suo vecchio ruolo in qualunque momento. Eppure Ritchie non ha mai voluto, e non sono bastate le mani tese dei vecchi compagni, i soldi facili che le reunion portano alle vecchie glorie, né legioni di fan che lo richiedevano a gran voce. Poi però qualcosa è cambiato e lo scontroso e testardo ‘man in black’ si è lasciato prendere dalla nostalgia: si è accorto che il tempo passa anche per lui e la morte di Jon Lord ha aggiunto una crepa nella sua adamantina certezza di non voler più avere a che fare col rock. Nascono così le tre serate dei nuovi Rainbow, dalla voglia di imbracciare la chitarra elettrica per un’ultima volta e suonare quei brani che hanno reso Ritchie uno dei chitarristi più leggendari al mondo.
Ci ritroviamo così in un’arena storica, il NEC di Birmingham, proprio per la data conclusiva, l’unica nella patria di Ritchie dopo le due performance tenutesi in Germania. Le aspettative sono ovviamente altissime ma rimane anche una certa preoccupazione di fondo, dato che il debutto di Loreley aveva lasciato qualche perplessità: i video circolati, di scarsissima qualità bisogna dirlo, lasciavano trasparire tutte le difficoltà di una formazione che non si era mai esibita in pubblico e soprattutto un Blackmore un po’ fuori forma e non molto a suo agio con la materia rock che non maneggiava da troppo tempo. La seconda esibizione teutonica aveva dato invece una svolta a quella che rischiava di essere una brutta conclusione di carriera, e quindi sarebbe toccato al terzo concerto il compito di far rivivere la leggenda dei Rainbow. L’apertura dello show viene affidata ai Mostly Autumn che reggono bene la tensione di un evento così importante, regalando alla platea un set variegato fatto di passaggi prog rock, momenti folk, atmosfere ariose ed intimiste alternate a movimenti più energici. Tutti i musicisti si comportano con grande professionalità e anche la cantante Olivia Sparnenn si dimostra all’altezza della situazione. Il pubblico inglese sembra apprezzare e tributa un caloroso applauso al termine del concerto di apertura. Quello che tutti aspettano, però, è la celebre frase di Judy Garland tratta da “Il Mago Di Oz”: ‘Toto, I’ve a feeling we’re not in Kansas anymore, we must be over the rainbow!’, ed ecco i nuovi Rainbow fare il loro ingresso sul palco, incoronati come da tradizione da un enorme arcobaleno, composto da led colorati che saranno la principale componente scenografica dell’intero concerto. L’apertura è affidata ad un classico senza tempo dei Deep Purple, “Highway Star”, e ben presto i dubbi iniziali vengono spazzati via dall’ottima resa della band: certo, Blackmore ha già passato il traguardo dei settant’anni, l’agilità non è più quella di una volta, la sua chitarra non crea quel muro di suono che abbatteva chiunque negli anni ’70, ma il suo tocco resta assolutamente unico e forse gli anni passati tra mandole e liuti l’hanno perfino affinato. Appare evidente che il chitarrista è in una serata buona, perchè Ritchie non è un mestierante, è un genio e come tale sa essere incostante: proprio al NEC di Birmingham i Deep Purple registrarono nel 1993 un concerto disastroso che oggi possiamo vedere nel DVD “Come Hell Or High Water”, ma oggi la storia non si ripete: Blackmore appare sereno e, nonostante chi vi scrive non fosse esattamente tra le prime file, sembra davvero che il chitarrista sia felice di ritrovarsi sul palco a suonare questi pezzi, snobbati per anni. Anche il resto della band sembra molto più compatta rispetto alle prime impressioni e alla luce di questa performance appaiono sempre più fuori luogo le polemiche sbocciate alla presentazione della nuova formazione: ‘i Rainbow senza Ronnie non sono i Rainbow’, ‘sarebbe stato meglio se avesse chiamato Joe Lynn Turner’, ‘i musicisti sono dei perfetti sconosciuti’ e via dicendo. Blackmore avrà anche avuto una botta di nostalgia, ma ha ribadito, come sempre, un concetto fondamentale: i Rainbow sono Ritchie Blackmore. Lo ha dimostrato quando ha prima assunto e poi licenziato la quasi totalità degli Elf al tempo del debutto ed è stato così fino all’ultimo album, “Stranger In Us All”, con un’altra formazione composta da musicisti tutt’altro che famosi. Certo, Ronnie James Dio aveva una levatura gigantesca, così come molti altri personaggi eccelsi che hanno suonato con l’ex-Purple, e allora lasciamo parlare i fatti e vediamo come si comportano questi Rainbow targati 2016. L’incognita su cui si concentrano la maggior parte delle curiosità è ovviamente il cantante, Ronnie Romero, e qui possiamo davvero dire che, ancora una volta, il fiuto di Blackmore non ha fallito: il giovane frontman si è dimostrato assolutamente efficace in ogni brano, gestendo con maestria il materiale di Dio, Gillan, Turner e Bonnet, risultando sempre credibile. Niente da dire nemmeno su Jens Johansson, professionista affermato che non ha bisogno di grosse presentazioni, mentre non convince del tutto la sezione ritmica della premiata ditta Blackmore’s Night, che non riesce ad avvicinarsi a musicisti del calibro di Cozy Powell, Jimmy Bain, Roger Glover e Ian Paice. La scaletta, neanche a dirlo, è un concentrato di classici senza tempo: “Spotlight Kid” spinge sull’acceleratore, “Mistreated” permette a Blackmore di ricamare assoli con quella maestria che incanta tutti i presenti, mentre “Since You Been Gone” si intreccia a “Man On The Silver Mountain” facendo cantare a squarciagola tutto il pubblico dell’arena. Qualcuno ha criticato alcune scelte fatte dal chitarrista, per esempio il peso eccessivo del materiale dei Deep Purple in un concerto dei Rainbow: a fine serata il conteggio sarà addirittura di otto brani a tinte porpora contro i sette dell’arcobaleno, ma tutto sommato anche questo si inserisce perfettamente nel senso di una serata dove il protagonista rimane Ritchie con la sua chitarra: qualcuno potrebbe mai togliere a Blackmore il diritto di suonare tanto una “Perfect Strangers” quanto una “Long Live Rock ’n’ Roll”? Difficile enunciare i numerosissimi momenti indimenticabili di questo concerto, non possiamo però non citare le novità in scaletta: una emozionante “Soldier Of Fortune”, suonata divinamente da Blackmore alla chitarra acustica e cantata in modo ineccepibile da Ronnie Romero, e il ritorno dell’immortale “Burn”, che ha scatenato un boato nei bis. Il punto più alto, però, a parere di chi scrive, si raggiunge con “Stargazer”, composizione sublime culminata durante l’esecuzione live in un assolo semplicemente divino. La chiusura, ovviamente, non può che essere “Smoke On The Water” e la festa si conclude con un tripudio di applausi a tutta la band: la serata è stata indimenticabile per tutti e la speranza è che questa non sia davvero l’ultima occasione di vedere uno dei più grandi chitarristi viventi suonare quello per cui è nato. Avremmo voluto che il concerto continuasse ancora e ancora, perché l’assenza di “Kill The King”, “Gates Of Babylon”, “Temple Of The King” e “I Surrender”, solo per citarne alcune, non passa inosservata; rimane comunque la soddisfazione di aver assistito ad un evento indimenticabile che ci ha catapultati, come Dorothy e la sua casa, direttamente là, nel magico regno oltre l’arcobaleno.