Report a cura di Riccardo Plata
Un tour dei Rammstein, già di per sé, è uno spettacolo da non perdere; se poi si tratta del primo in dieci anni con del materiale inedito da proporre, si capisce come l’occasione sia troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Preso atto della mancanza dell’Italia (per ora) in questo European Stadium Tour, abbiamo quindi approfittato della doppia data di Monaco di Baviera (non a caso definita la città più a nord d’Italia) per saggiare lo stato di forma di Till Lindemann e soci, di rientro nel capoluogo bavarese dopo un’assenza di sette anni. Giunti all’Olympiastadion (eredità delle Olimpiadi del 1972) soddisfatti della proverbiale efficienza tedesca – code ridotte, prezzi della birra umani, assenza di bagarini e bancarelle di merch contraffatto… -, notiamo con un certo disappunto come il palco non preveda maxi-schermi, aspetto che limiterà un po’ la visione, per chi come noi siede in tribuna. Altro punto a sfavore è l’assenza di un vero e proprio gruppo di supporto – le Jatekok, duo di pianiste francesi che re-interpreta i maggiori successi dei Rammstein, risultano sì piacevoli, ma finiscono con l’assomigliare alla musica diffusa dagli altoparlanti -, ma alla fine si tratta di dettagli, dato che siamo tutti qui per gustare il piatto principale e vedere quali pirotecniche sorprese ci hanno riservato i sei crucchi…
Sono le 20.30 in punto (ora di prime time in Germania) quando il sestetto tedesco fa la sua trionfale comparsa sul palco, mentre le ultime luci del giorno illuminano ancora lo stadio, esaurito in ogni ordine di posto e pronto ad esplodere appena parte il riff di “Was Ich Liebe”, primo estratto di una setlist che vede l’ultimo album suonato quasi nella sua interezza. Se non stupisce la scelta di privilegiare in maniera importante il materiale più recente, legittima dopo un’attesa decennale, sorprende invece la quasi totale assenza di canzoni dalla seconda metà della discografia – escludendo il già citato “Untitled”, sono in tutto tre i brani in scaletta, con la sola “Pussy” a rappresentare i ripudiati “Rosenrot” e “Liebe Ist Fur Alle Da” -, segno della volontà di amalgamare modernità e tradizione. La scelta sembra comunque pagare, ed effettivamente le varie “Tattoo” e “Zeig Dich” fanno la loro figura anche in sede live di fianco a classici ‘minori’ (se tali possono essere definiti) come “Links 2 3 4”, “Sehnsucht” o “Mein Herz Brennt”, scaldando a dovere il pubblico in senso letterale, visto che iniziano a vedersi fuochi e fiamme. Il primo momento clou arriva però con l’attesa esibizione di “Puppe”, tra gli episodi migliori del nuovo corso e protagonista della prima gag della serata, con una carrozzina gigante (decisamente inquietante, come del resto la canzone) che all’improvviso prende fuoco, proprio mentre Till ci regala una delle sue interpretazioni più sofferte. La parte centrale dello show vede ancora protagonista la settima fatica discografica e così, dopo la breve parentesi intima di “Diamant”, arriva un altro dei momenti più attesi con “Deutschland”: introdotta da un remix strumentale (opera dello stesso Richard Z. Krusp, sulle cui note si scatenano quattro ballerini ricoperti di luci fluorescenti), la ‘canzone con il video più figo della storia’ anche dal vivo non tradisce le attese, facendo esplodere in un boato lo stadio al grido di ‘Deutschland, Deutschland Uber Allen’, prima di lasciare il posto all’altrettanto apprezzata “Radio”. Da qui in poi, complice il calar delle tenebre e il ripescaggio nella discografia di fine anni ’90, inizia la parte più infuocata (non solo metaforicamente) dello show: se “Mein Teil” fa sempre la sua sporca figura (con il consueto siparietto di Flake arrostito in pentola, stavolta esposto al lanciafiamme anche al di fuori della stessa!), l’apice della serata arriva con “Du Hast” e “Sonne”, anthem immortali impreziositi da effetti speciali (fuochi, botti e razzi) degni del miglior Game Of Thrones, giustamente acclamati da 70.000 voci e display all’unisono. Dopo una breve pausa le luci del palco restano spente perchè i Nostri riappaiono sul palchetto sopra il mixer, dove recitano insieme al Duo Jatekok una versione di “Engel” per piano e voce: peccato che questa veste non renda pienamente giustizia al pezzo, ma l’espediente dà modo alla band di salire sui classici canotti, con cui navigano tra l’entusiasmo della folla nel mare di braccia fino a riguadagnare le luci del palco. Terminato il break acustico, è arrivato il momento di settare il mega-impianto luci in modalità disco, e ovviamente non poteva che toccare all’ultra-tamarra “Ausslander” (per la verità accolta in maniera un po’ tiepidina dal pubblico) il compito di aprire le danze; ben altra sorte tocca alla storica “Du Riechst So Gut” (attualissima nonostante abbia quasi un quarto di secolo), prima della finta chiusura affidata a “Pussy”, con finale dilatato per dare modo a Till di sfogare il suo onanismo sparando sulle prime file con il suo cannone-pene gigante, mentre dalle torri sputa-fuoco esce ora una pioggia di coriandoli. Ovviamente c’è ancora tempo per gli ultimi encore, e così ecco arrivare la lenta “Ohne Dich”, con i suoi millemila accendini e smartphone, e l’immancabile “Ich Will”, dichiarazione d’intenti intonata all’unisono da tutto lo stadio prima che gli ultimi botti facciano calare il sipario, mentre i sei escono dal personaggio e, per la prima volta dopo due ore, si rivolgono al pubblico ringraziando. Peccato per il taglio nell’ultimo encore di “Rammstein” (presente in scaletta la sera prima, con però “Ohne Dich” in versione acustica sul palco B), ma nel complesso possiamo dire di aver assistito ad uno show praticamente perfetto sia dal punto di vista visuale che sonoro, in un unione di contrasti (brani datati e recenti, gag vecchie e nuove, effetti pirotecnici e momenti più intimi) che conferma come, nonostante le periodiche voci di crisi, almeno dal vivo i Rammstein abbiano ad oggi pochi eguali.