08/08/2017 - RIVAL SONS + MOTELNOIRE @ Area Concerti Majano - Majano (UD)

Pubblicato il 19/08/2017 da

Report a cura di Nicola Merlino

Indovinello: qual è la band che non è mai entrata nella top 100 di Billboard, non spopola sui social, della quale H&M non vende magliette vintage, ma che nel corso dell’ultimo anno e mezzo ha girato il mondo in oltre ottanta date sparse su quattro continenti, suonando di fronte ad un totale di più di un milione di spettatori? Se avete aperto questa webpage probabilmente siete già sulla strada giusta. Un set di due canzoni, tanto è bastato ai Rival Sons a convincere due spettatori seduti in prima fila, di nome Ozzy e Sharon, ad entrare nella guerra dei deambulatori per accaparrarsi il più ambito opening act del decennio sin qui trascorso, vincendola. Il resto è la storia del crepuscolare The End Tour dei Black Sabbath, il glorioso tramonto di una galassia di riff dietro al quale una protostella da Long Beach, California, ha trovato sufficiente oscurità per brillare come mai prima d’ora. Parlare ora dei Rival Sons senza indugiare nella schiera di leggende del rock che li hanno voluti a bordo dei loro set è arduo: dai Kiss ai Deep Purple, passando per Aerosmith, Slash e molti altri ancora; troppi nomi illustri e chiamate troppo soventi per costituire una casistica solo fortunata. Immaginiamo loro prenderli sotto braccio dicendo con voce paterna: “Ah sai, dude, quando avevo la tua età…” con gli occhi pieni di ricordi annebbiati da vecchie abitudini e troppi anni passati a contare royalties. Il loro hard rock archetipale infuso fino al midollo di blues e soul ha fatto breccia in blocco anche nei cuori della stampa di settore, alla quale non sembra vero di poter rievocare la più epica saga moderna della storia della musica senza macchiarsi del peccato di lesa maestà, ricordando quando gli dei hanno camminato sulla terra imbracciando chitarre a doppio manico, vestiti di pelle e satin per portarsi via la verginità di un decennio. Eppure, nonostante tutto ciò, per le grandi masse i Rival Sons sono ancora un segreto in attesa del completo svelamento, l’asso nella manica da sfoggiare quando ti chiedono un consiglio su una band che spacca. Mentre si trovano ancora sospesi, in equilibrio sulla linea che separa gloria e leggenda dalla manovalanza del rock nella sua forma più alta, i Rival Sons arrivano al Festival di Majano, nel cuore delle colline del Friuli, per capitanare il ‘day two’ del Summer Days in Rock: prima delle due date italiane da headliner per i californiani. Con loro, in apertura di serata, i meneghini Motelnoire.

MOTELNOIRE

Alle 21.00, in leggero ritardo sull’orario annunciato per attendere un pubblico che stasera, lo diciamo subito, farà la figura di Godot, salgono sul palco i Motelnoire. Band proveniente dall’hinterland milanese con circa vent’anni di storia alle spalle tra cover e produzione inedita che, nonostante il supporto di una major come Sony e il coinvolgimento in sala di registrazione di personalità conosciute della scena pop italiana (Federico Zampaglione e Jake La Furia tra gli altri), dobbiamo constatare essere pressoché sconosciuta in questo angolo d’Italia. Se fosse già suonato un campanello d’allarme, purtroppo dobbiamo confermarne il sentore. Mentre su disco propongono un pop/rock in italiano di largo consumo, questa sera optano principalmente per un repertorio rock bluesy in inglese (anzi no, americano, così specificano) ispirato dalle atmosfere delle highway statunitensi, ma che incespica ruotando attorno a luoghi comuni e costruzioni poco ispirate, per arrivare sempre all’immancabile assolo che con troppe note riesce a dir nulla. Il set viaggia senza scossoni dietro la facciata di occhiali da sole e chitarre heavy relic, tra mossette e pose forzate che comunque non stimolano una platea ora intenta a scambiare quattro chiacchiere, fino alla conclusiva “Welcome to my Life”, singolo radiofonico che strizza l’occhio ai Negrita, ma che comunque non riesce ad attirare l’attenzione nemmeno quando il frontman ci ricorda quante views ha totalizzato sul Tubo. Hashtag wow. Tolto il Noir(e) che appare solo nel monicker, resta un Motel per trascorrere una stanca mezz’ora, dove la ricerca delle apparenze ha superato la caratterizzazione della proposta. Non è mai piacevole dover dire che non è piaciuta l’esibizione di una band emergente, che comunque dimostra una sincera passione per quello che fa, ma la sensazione è che le perplessità espresse nascano perlopiù da una collocazione fuori fuoco rispetto all’attitudine del main act. In uno scenario diverso, probabilmente avrebbero ottenuto maggior fortuna e consenso.

RIVAL SONS

Il cambio palco è fulmineo tanto è essenziale il setup dei Rival Sons: solamente strumentazione old school, lo stretto indispensabile di illuminazione e un backdrop, logo bianco su sfondo nero, forse l’unico che hanno fatto stampare da inizio carriera. Scenografie e in generale tutto ciò che è superfluo sono al bando, quasi a voler lasciare più spazio possibile al loro immenso carisma. Calano le luci e viene diffuso il leggendario tema de “Il Buono, il Brutto, il Cattivo” composto da Ennio Morricone, dopodiché irrompe il riff megalitico di “Hollow Bones pt.1”, seguita dalla doppietta bollente e peccaminosa di “Tied Up” e “Electric Man”; ma sin da subito emerge un problema, i volumi. Sebbene i Rival Sons raramente calchino la mano sul mixer in favore di bilanciamento e nitidezza dei suoni, stasera davvero manca una manciata di decibel a permettere il completo coinvolgimento dell’esiguo, e inizialmente timido, pubblico presente. La situazione migliorerà in seguito, ma troppe volte ci è parso di sentire il frontman Jay Buchanan maggiormente attraverso la sua stessa voce che dall’impianto. Forse un eccesso di intimità, ma è chiaro che di fronte a noi questa sera ci sono comunque i migliori Rival Sons che potessimo desiderare. Intensi, magnetici, compatti, ora introspettivi poi straripanti, sempre qualitativamente magistrali: il loro show è un saliscendi emozionale che si infila sotto pelle e si espande come una sbornia estatica. Si sono spesi fiumi di parole sul fatto che Jay Buchanan sembri essere una riuscita ibridazione genetica tra i rappresentati del gotha vocale degli anni ’70, sia per le ineguagliabili qualità vocali che per la presenza sullo stage: sempre totalmente immerso nel mood del pezzo per sprigionare la potenza ruvida del blues o la sottigliezza di un falsetto nel pathos più lacerante. Alla sua sinistra Scott Holiday, baffo arricciato e giacca in tinta con la marca di amplificatori, ne è il partner perfetto. Sidekick sullo stage, mente e cuore compositivo in studio, è un arsenale ambulante di chitarre fuzz, riff vintage, spettacolari slide lick dei quali ne sarebbe orgoglioso persino Duane Allman, e un suono che si dovrebbe studiare nelle scuole. Completano l’ensemble la quadratissima sezione ritmica del groove-duo Miley-Beste e il membro aggiunto alle tastiere Todd Ögren-Brooks, un uomo che sembra aver chiaro il concetto che grandi barbe comportano grandi responsabilità. La setlist scivola via seguendo il programma proposto nelle date precedenti attraverso pezzi provenienti da ogni release, Ep compresi, fino alla grande sorpresa posta a metà concerto: Jay chiede al pubblico di scegliere tra “Jordan” e “Where I’ve Been”, voto che ovviamente ricade sulla prima, über ballad melanconica, vero fiore all’occhiello tratto da “Head Down” e raramente proposto durante questo tour, che Buchanan canta letteralmente in punta di fioretto. E i ritmi rallentano, i riff impertinenti cedono il passo ad emozioni lancinanti e trip lisergici. La successiva “Face of Light” segue una riflessione su come la band sia incessantemente in tour lontano dalle famiglie per il più lungo periodo finora sperimentato, marchiando un punto di svolta per essi e ciò che questo pezzo rappresenta. Le successive “Torture” e “Soul” segnano l’apice catartico del concerto; pezzi degli albori le cui esecuzioni si dilatano, la prima fluendo e ritraendosi in lunghe fughe blues dove ogni membro può sfoggiare il proprio debordante talento, la seconda nell’esplosione della sua anima gospel. I ritmi riguadagnano quota con la fan favourite “Open my Eyes” per poi riavvolgersi nella spirale psichedelica di “Hollow Bones pt.2”: implorazioni a creatori e salvatori si rincorrono tra ‘hallelujah’ e ‘Hare Krishna’, portando nel XXI secolo gli spiritual da campo di cotone con un’iniezione di sensibilità pan-religiosa che rispecchia le credenze miste della band. I cinque si ritirano brevemente nel retropalco prima dell’ultimo burnout hard rock con l’anthem “Keep on Swinging”, la dichiarazione d’intenti dei Rival Sons che chiude con l’acceleratore a tavoletta ottantacinque roventi minuti di show. Un concerto ad altissimo livello da parte di un complesso in stato di grazia, che, di fronte ad una platea striminzita di poche centinaia di persone, non ci ha pensato nemmeno a tirare il freno a mano per risparmiarsi. La crescita artistica di questi ragazzi è stata sin qui preparata minuziosamente con duro lavoro, attenzione ai dettagli e sagge decisioni. Se ancora non hanno puntato il bersaglio grosso è perché probabilmente lo hanno deciso loro, ma, come già detto prima, la band si trova ad un bivio: da una parte decidere se rimanere quelli che volevano solo suonare del rock n’ roll e continuare ad essere l’eterno special guest che nell’anno 3000 aprirà il concerto per le teste fluttuanti di Ozzy Osbourne e Tony Iommi; dall’altra uscire dall’ombra del dirigibile di piombo, e diventare il gruppo che rinnovando rispettosamente il passato ha donato nuova linfa ad un genere, cogliendo la torcia passatagli dagli dei. Ma forse i Rival Sons un passo lo hanno già fatto, diventando una delle band che nell’era di Youtube ha reso i suoi live una prescrizione medica da assumere obbligatoriamente.

Setlist:

Intro: Il Buono, il Brutto, il Cattivo (Main Title)
Hollow Bones Pt. 1
Tied Up
Electric Man
You Want To
Memphis Sun
Jordan
Face of Light
Torture
Soul
Open My Eyes
Hollow Bones Pt. 2
Keep On Swinging

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