Report a cura di Giovanni Mascherpa
Fotografie di Francesco Castaldo
Li hanno avuti come supporter i Kiss, Slash, i Black Sabbath. Ormai era una gara ad accaparrarseli tra le grandi firme del rock per aprire i loro concerti. I Rival Sons sono stati uno dei grandi ‘crack’ degli ultimi anni, ottimi su disco e capaci di ammaliare le platee con una seducente miscela di hard rock settantiano, blues e soul in grado di mettere d’accordo chiunque o quasi. Fuori dal tempo, vintage ma senza insistere accanitamente nella rievocazione di fasti appartenenti ad altri gruppi, i quattro (cinque dal vivo, grazie all’ingresso di un tastierista/seconda voce) di Long Beach hanno ampiamente meritato le luci della ribalta. Il loro Teatro Fiasco Tour, che li vede nuovamente girare club più o meno grandi nel ruolo di headliner, arriva a Milano per l’unica data italiana. L’Alcatraz accoglie la band sul palco B, situazione che provocherà un po’ di ristrettezze e temperature elevate come accaduto a dicembre per Meshuggah e High On Fire: vista l’elevata affluenza, forse lo stage A sarebbe stato più idoneo. Da bravi istrioni, i Rival Sons non hanno un ‘regolare’ supporting act a introdurli. Il cantante Jay Buchanan arriva a presentare l’ospite della serata, e dell’intera tournee, descrivendolo come uno dei migliori poeti americani moderni. Derrick C. Brown, questo il suo nome, è un poeta sui generis, che interpreta su una base musicale minimale componimenti ironici e grotteschi. Una performance surreale, da chi scrive mai ammirata come antipasto di un concerto, che tiene impegnata per una buona mezz’ora la platea. Un esperimento simpatico, non c’è che dire: Derrick sa intrattenere molto bene pubblici lontani da quelli che accorrerebbero normalmente a una sua sessione di lettura, peccato che il fastidioso brusio in sala e lo scoglio linguistico attenuino l’effetto complessivo. Intanto, il numero dei presenti è andato notevolmente a crescere tra una poesia e l’altra e l’Alcatraz nella sua configurazione ridotta è sulle spine da un pezzo quando le inconfondibili note del tema principale de “Il Buono, il Brutto e il Cattivo” iniziano a fluire dall’impianto audio, anticipando l’entrata in scena della band.
Non c’è bisogno di essere accaniti musicofili per capire il lignaggio oramai conquistato dai Rival Sons. Il loro carisma ti arriva dritto in faccia, il movimento sornione sul palco dei musicisti non ha alcuna pretesa di voler compiacere o ammaliare, basta e avanza la musica. Non ci sono suoni roboanti a contornare l’esibizione, tutt’altro, i volumi sono abbastanza bassi e tali resteranno. Ma la nitidezza è garantita, e allora già dall’apertura affidata a “Hollow Bones Pt.1” ci stende in un turbinio di carezze e seduzioni. Il pubblico è adorante, sotto scacco in pochi attimi e piegato dal feeling ammaliatore che si spande da ogni angolo dello stage. Buchanan pare essere stato criogenizzato nel 1970 o giù di lì e riportato alla vita di tutti i giorni, intatto, negli anni 2000: modo di vestire, atteggiamenti, voce, quasi nulla segnala che quest’uomo sia un nostro contemporaneo. Con un cantante di tale levatura, il resto potrebbe anche essere lievemente più canonico e qualcosa di buono salterebbe fuori ugualmente. Ovviamente non è così. Il lavoro di chitarra di Scott Holiday è un’ode al rock più vero, sentimentale nel senso più bello del termine, ovvero capace di smuovere passione ed emozionalità con tocco leggero, misurato, privo di esibizionismi. E le ritmiche, che pure appaiono essenziali e scarne, trasmettono un groove magnetico, mentre le tastiere si involano in armonie moderatamente psichedeliche, mai preponderanti sulla forza impattante della chitarra e del basso. La prima parte del set è affrontata con taglio rapido e quasi frenetico per gli standard della band, che mette in fila alcuni dei suoi pezzi più potenti lasciando poche pause e spendendo parole con il contagocce fra un brano e l’altro. Gli estratti dell’ultimo, leggermente incostante “Hollow Bones”, non soffrono il confronto col materiale di dischi più celebrati come “Pressure & Time” e “Head Down”, valga come esempio la stupenda versione di “Thundering Voices”, che esalta gli intrecci vocali fra Buchanan, Dave Beste e il tastierista Todd Ogren-Brooks. Quest’ultimo è diventato in breve tempo un elemento altrettanto importante dei quattro membri ufficiali, almeno on-stage. Giri rock’n’roll sculettanti e vocalizzi strepitosi non lasciano indifferenti gli spettatori, c’è un bel pubblico ad accogliere ogni mossa dei Rival Sons, omaggiati di una risposta corale nei refrain veramente altisonante, da brividi! “Electric Man” vede Buchanan straripare di potenza, seguito nell’impeto da tutto l’Alcatraz, incapace di contenere l’entusiasmo suscitato da un lotto di canzoni magistrali nel mescolare ritmi scatenati, estro e feeling. Elargita a piene mani tutta la propria durezza da rocker di razza, i cinque iniziano a rilassarsi e rilassare, introducendoci dopo una piccola pausa a una porzione centrale che va a colpire i cuori teneri. D’altronde, il 14 febbraio sarebbe anche il giorno degli innamorati, San Valentino. “Where I’ve Been” è proprio dedicata a chi al concerto si è recato in coppia, scegliendo un modo speciale di festeggiare la propria unione. I tempi si dilatano, appaiono anche alcune lievi improvvisazioni e l’esibizione scorre ora con qualche vampata in meno di energia e un piglio ancora più divertito e complice da parte dei musicisti, che si concedono a toni scanzonati, gran sorrisi e qualche chiacchiera. Non si abbassa la qualità della musica, chi scrive avrebbe eliminato volentieri assoli di batteria e di chitarra, ma sono pedaggi ben economici da pagare a fronte di un’esecuzione complessiva niente meno che ineccepibile. Ci si scioglie completamente durante “Open My Eyes” e lo squillare incontrastato della voce di Buchanan, ci si lascia cullare dalla psichedelia vaporosa di “Hollow Bones Pt.2”, prima di ritornare con prepotenza al torrido hard rock durante l’inno “Keep On Swinging”, che chiude il concerto dopo un’ora e tre quarti di gran classe. Ci permettiamo una riflessione finale: tanti gruppi storici sono al tramonto, inscenano tour d’addio, fanno a gara a chi incute maggior nostalgia e chiedono cifre iperboliche per assistere a un loro show. Ecco, magari sarebbe il caso di mettersi l’anima in pace sulla fine delle loro gloriose carriere e accorrere in massa a vedersi gente come i Rival Sons, meritevoli di prendere il testimone dai grandi dinosauri del rock in fase d’estinzione e di onorare un certo tipo di sonorità con una voglia e un pathos che musicisti più anziani, per colpa di anagrafe e appagamento, non possono più vantare.
Setlist:
Hollow Bones Pt. 1
Tied Up
Thundering Voices
Electric Man
Secret
Pressure and Time
You Want To
Where I’ve Been
Fade Out
Tell Me Something
Face of Light
Torture
Open My Eyes
Hollow Bones Pt. 2
Keep On Swinging