Report a cura di Giovanni Mascherpa
Sono passati da qualche annata i tempi in cui i Riverside erano considerati una band di culto. Ora questo status va stretto agli uomini di Mariusz Duda, bassista, cantante e mente principale dell’intera avventura. I polacchi hanno sviluppato poco per volta un linguaggio prog fuori da qualsivoglia filone, accentuando l’intimismo e la riflessività della propria musica nel passaggio dall’età giovanile a quella adulta. Nell’attesa di farci godere i nuovi frutti della fertile immaginazione di Duda con il preannunciato “Love, Fear And The Time Machine” (uscita prevista il 4 settembre), che abbiamo avuto il piacere di ascoltare in anteprima nel pomeriggio appena dopo il lungo soundcheck (circa tre ore, quando si dice non lasciare nulla al caso!) , il gruppo si è lanciato in un lungo tour europeo, comprensivo di alcune date open-air e concerti nei club. Non ci vuole un grande sforzo di fantasia per ipotizzare quale cornice abbia accolto i musicisti all’approdo in Lombardia: una foresta tropicale, di questi tempi, è più fresca di qualsiasi locale del Bel Paese, e la trappola di umidità milanese non ha lasciato scampo, aiutata nell’opera di infastidimento da plotoni di zanzare a dir poco agguerriti. Saltati per problemi organizzativi gli opener Dropshard, sono rimasti i soli Riverside a occupare il cartellone dell’evento. Avessimo avuto a che fare con personaggi meno generosi nell’offerta musicale, sarebbe potuta scaturire una serata in tono minore, dai minutaggi ridotti e contraddistinta da una prestazione solo nella norma. Buon per noi che questi progster dell’Est Europa officino i propri live con una professionalità abbondantemente sopra la media e affrontino ogni data cercando di renderla indimenticabile. Cosa puntualmente accaduta al Lo-Fi, dove circa centocinquanta persone, alcune sopportatesi diverse ore in auto pur di esserci, hanno sfidato un caldo insostenibile e sono state ripagate da una prestazione monumentale, per chi scrive una delle migliori in assoluto in questa prima metà abbondante di 2015.
A ridosso delle dieci e mezza, la lotta contro le zanzare può finalmente interrompersi: preannunciati da un intro soffuso in crescendo, i Riverside si manifestano tra scroscianti applausi, in una cornice di pubblico per una volta all’altezza della situazione. È la nuova “Lost (Why Should I Be Frightened By A Hat?)” (dal disco in uscita arriverà anche la già nota “Discard Your Fear”) a darci il benvenuto, e per un attimo riusciamo ad estraniarci dalla nostra fisicità e metterci in piena sintonia con la melliflua calma del pezzo di apertura. Non bisogna essere studiosi della musica per comprendere la valenza sopraffina di quanto stiamo udendo: nell’apparente semplicità del pezzo si rilevano arrangiamenti esteticamente ed emozionalmente mirabili, dove il basso del leader e i sintetizzatori di Michał Łapaj risaltano per ricchezza di particolari, profondità e capacità descrittiva delle pulsioni più inestricabili dell’essere umano: questa commistione di perizia strumentale e maestria nel toccare l’animo nei punti più sensibili sarà il filo conduttore dell’intero concerto. Rimane un mistero come il frontman possa districarsi fra le parti vocali e lo strumento senza impazzire; né in un caso né nell’altro è impegnato in attività banali, eppure non sbaglia una nota che sia una, sempre in controllo e sempre in grado di trasmettere un insieme di sensazioni toccanti, potentissime nella loro delicatezza. Duda, con quella faccia alla Daniele Luttazzi, che è tutto un programma, si rivela un frontman dalla simpatia contagiosa: mentre si toglie il sudore di dosso, per quanto possibile, con un asciugamano, non perde l’occasione di ringraziare le zanzare per l’accoglienza e prova anche a scandire qualche parola in italiano e poi a farcene ascoltare la registrazione. Dei tanti che si sono sforzati di imparare un breve saluto nella nostra lingua, il cantante polacco è uno di quelli che riesce a esprimersi nell’italico idioma tradendo il meno possibile l’accento straniero. Il sonoro è perfetto, bilanciato secondo il missaggio tipico della musica dei Riverside, con chitarra e batteria in secondo piano rispetto a tastiere e basso, dilaganti nell’alveo ampio e accogliente di canzoni che, a questo punto della carriera dei Nostri, ridicolizzano qualsiasi paragone con prog rock classico, prog metal nella sua accezione comune, ogni altra concezione stilistica moderna dell’universo rock. I Riverside stanno in un angolo tutto loro e ci sguazzano che è una meraviglia. I dibattimenti interiori diventano una cascata di note fatate nelle mani dei quattro, che prediligono in questa sede il materiale più delicato, con un occhio abbastanza equanime ai differenti capitoli discografici passati. “Conceiving You”, “We Got Used To Us” per il versante soft destano in noi stupore e quasi imbarazzo, per non aver saputo in passato cogliere pienamente tutto il valore di questi pezzi, magari attratti da qualcosa di più funambolico ma, nella resa sulla lunga distanza, meno consistente. L’istrionismo tenuto sottotraccia in molti degli episodi offertici, alcuni soffici e malinconici (“The Depth Of Self-Delusion), altri in meticolosa districazione di una tela a trama spessissima (“Escalaton Shrine”), rivelante la propria bellezza solo dopo minuti di attenta preparazione, esplode al suo zenit nelle canzoni propriamente metal. Quando “Hyperactive” e “Egoist Hedonist” erompono dalle casse è impossibile restare fermi e non diventare meri burattini nelle mani esperte della band, impareggiabile anche in incroci ritmici spezzettati, controtempi ingestibili, scariche di note così dirompenti da formare nella nostra testa un arcobaleno di cromature metalliche quasi incomprensibile per chi non è preparato a certe combinazioni soniche. Coi Riverside si giunge a quel raro equilibrio, dote dei giganti della musica, che vede dialogare senza battibecchi talento, misura, inventiva e capacità di sintesi; il modo in cui la band rende naturali idee ad alto gradiente di difficoltà può ricordare soltanto i Rush, ed essendo i canadesi tra le live band migliori del globo, la nostra considerazione è di quelle pesanti. Facile perdere la cognizione del tempo in occasioni del genere, a dispetto delle condizioni ambientali probanti i Riverside non danno grossi segni di stanchezza e fra la gradevolezza quasi pop delle linee vocali più esili, l’eleganza mozzafiato del piano, gli attimi in cui la malinconia sugge i refoli di serenità fattisi strada a fatica qualche istante prima, i garbati solo puliti di Piotr Grudziński, tutto scorre e viene assimilato con facilità sconcertante. Con la doppietta “The Same River” / “The Curtain Falls” a seguito di una breve uscita di scena, i Riverside chiudono un concerto che ci sentiamo di definire perfetto, appagante anche nella quantità (un’ora e tre quarti) oltre che nella qualità, uno dei punti più alti dell’annata concertistica italiana. Il conto alla rovescia per il nuovo album è già iniziato.