12/04/2012 - ROADBURN 2012 @ 013 - Tilburg (Olanda)

Pubblicato il 04/05/2012 da

Introduzione di Luca Pessina
Report di Luca Pessina e Igor Belotti

Il Roadburn è ormai il nostro cosiddetto break di primavera. Se fossimo degli studenti universitari statunitensi, ci recheremmo probabilmente a Miami o sul lago Michigan (in stile “American Pie”), ma siccome viviamo in Europa e siamo degli appassionati di un certo tipo di musica, la nostra destinazione prediletta rimane la città olandese di Tilburg, che ogni anno ospita il suddetto festival indoor. Conosciamo bene il luogo, anche perchè di norma ospita pure il sempre più noto Neurotic Deathfest, e venirci ogni aprile è ormai una piacevole consuetudine: ritroviamo amici da ogni parte del mondo e per quattro giorni (tre di festival “regolare”, più un giorno di Afterburner) ci godiamo la solita selezionatissima miscela di sonorità “di nicchia”, soprattutto in salsa doom, stoner, prog e “post”-qualcosa. Il Roadburn è ormai un happening assolutamente distinto, basato su una formula consolidata che mette gli artisti e le loro proposte davanti a tutto: la corsa ad accavallare più band possibile non rientra nei piani degli organizzatori, nè l’idea di allargare le dimensioni dell’evento o di rendere quest’ultimo più appetibile al cosiddetto “grande pubblico”. Certo, buona parte dei suoni “da Roadburn” hanno vissuto e stanno vivendo una indubbia esplosione di popolarità negli ultimi tempi, ma stiamo pur sempre parlando di un circuito underground che spesso è poco noto persino tra chi ascolta metal abitualmente. Doveroso ma per certi versi superfluo spendere parole sull’organizzazione del Roadburn, che da tempo rasenta la perfezione quando si tratta di rispettare gli orari, di mettere le band nelle condizioni di proporre un set completo e con ottimi suoni e di creare quell’atmosfera “da evento per pochi” che in Europa ormai quasi solo qui si respira. Piuttosto, questa volta desideriamo muovere alcune critiche al costo del biglietto, quest’anno forse eccessivo. Calcolando che il Roadburn ha luogo all’interno di due locali – lo 013 e il Patronaat – e che non è quindi necessario allestire palchi, campeggi e bagni, troviamo tutto sommato spropositato richiedere quasi 200 Euro per quattro giorni di festival. Certo, il bill è di prim’ordine e alcune delle realtà chiamate a parteciparvi tengono concerti a dir poco esclusivi, ciò nonostante l’impressione che il costo sia almeno un po’ sproporzionato rimane. Il sito da cui acquistare i tagliandi ha dichiarato il sold out dopo solo sette minuti quest’anno, quindi è pur vero che non tutti si sono fatti problemi a venire incontro alle richieste degli organizzatori, tuttavia abbiamo notato un generale calo di presenze tra le fila degli avventori dall’Europa meridionale (dove l’attuale recessione è più intensa) e, di contro, la crescita della “legione” scandinava e nordeuropea, facilitata dal cambio e da un’economia senz’altro più solida. Detto ciò, torniamo a sottolineare come, per quanto ci riguarda, il Roadburn 2012 sia stato un vero successo sotto ogni punto di vista e come, anno dppo anno, continui a confermarsi un happening imperdibile, dal quale – organizzativamente parlando – molti festival di dimensioni medio-piccole dovrebbero sempre trarre esempio. Di seguito leggerete i report di alcune delle esibizioni che abbiamo seguito con maggior interesse, assieme a quelli su altri show che ci è capitato di vedere mentre vagavamo tra le sale dello 013. Buona lettura e appuntamento all’anno prossimo.

DISEMBOWELMENT

L’edizione 2012 del nostro festival olandese preferito per noi inizia in grande stile con quella colata lavica targata Disembowelment, precursori del death-doom metal più ferale e di tante altre varie derive del genere, funeral compreso. Gli australiani oggi si esibiscono sotto il monicker storico, nonostante abbiano di recente ri-imbracciato gli strumenti dando vita ai d.USK (poi divenuti Inverloch); questo per sottolineare come la performance odierna sia interamente dedicata al vecchio materiale, quello del leggendario debut “Transcendence Into The Peripheral” (1993), per intenderci. Il quintetto di certo non brilla per presenza scenica – e in questo non è aiutato dalle ampie dimensioni del palco principale – ma l’impatto del death-doom metal primordiale di cui è alfiere è assolutamente fuori discussione. Con “The Tree Of Life And Death” ha inizio una sessione di headbanging devastante che ha fine solo con “Cerulean Transience Of All My Imagined Shores”. L’opera più nota del repertorio di Paul Mazziotta e soci viene riproposta per intero, senza modifiche alla tracklist nè pause rilevanti. Il monolite Disembowelment fa insomma esattamente ciò che ci si aspettava da esso: aprire il festival nel migliore dei modi, rispolverando un grande classico che mai dovrebbe essere dimenticato/sottovalutato e suscitando il primo mal di testa della giornata (oltre a compromettere i muscoli del nostro collo per il resto del festival). Avanti così.
(Luca Pessina)

AGALLOCH

Non brillano certo per simpatia, ma gli Agalloch quest’oggi fanno un figurone. Il palco principale è a loro dispozione, la folla è adorante e i quattro statunitensi gestiscono la situazione nel migliore dei modi, ovvero con un concerto intenso e decisamente sentito. Il frontman John Haughm, in verità, accusa qualche problema tecnico ai pedali della sua chitarra (a detta sua, sono “appiccicosi”), ma lo show fila comunque liscio come l’olio, avendo in primis il pregio di essere incentrato su quasi tutti gli episodi migliori del repertorio della band, da “Limbs” a “Dead Winter Days”, passando per la monumentale “Into The Painted Gray”. Siamo al Roadburn da poche ore, ma siamo già esaltatissimi per quanto stiamo vedendo su questi palchi. L’alternanza di parti feroci di estrazione black e soluzioni più vicine alla sfera doom-gothic metal mette gli Agalloch nelle condizioni di incuriosire varie fasce di pubblico e, nonostante le chitarre non godano esattamente di suoni spessissimi, sono in molti coloro a rimanere nelle vicinanze del palco, nonostante il concerto duri ben un’ora piena. Si sa che a questo festival si è spoliti girovagare per una stanza e l’altra e che non sempre si ha la possibilità o la semplice costanza di assistere a una performance per intero, ma le particolari atmosfere rupestri dei Nostri riescono a suscitare il giusto scalpore, tanto che la sala principale resta colma sino alle note conclusive di “Kneel To The Cross”. Ottima prova.
(Luca Pessina)

KILLING JOKE

Probabilmente lo show dei Killing Joke verrà ricordato come quello più controverso di questa edizione del Roadburn. Già dalle primissime battute si capisce che ci sia qualcosa di strano nell’atteggiamento della band britannica questa sera: Jaz Coleman, come al solito, prova a rapire l’audience con le sue classiche movenze feline, ma il chitarrista Geordie Walker sembra totalmente disinteressato e poco incline a farsi trasportare dalla performance. Il Nostro continua a guardarsi alle spalle e a parlare con uno dei suoi roadie, persino mentre impegnato a suonare, fino a quando non inizia ad assumere un atteggiamento molto aggressivo nei confronti di qualcuno al lato del palco, che, giudicando dalle mimiche facciali, non gliele manda a dire. A un certo punto, non capiamo proprio che cosa stia succedendo all’interno dello 013: da parte del pubblico iniziano a piovere fischi, un bicchiere proveniente dalle gradinate colpisce Walker, il quale prima pare minacciare di andarsene e poi, a sua volta, scaglia un altro bicchiere in direzione del personaggio a lato palco con cui stava discutendo poco prima. Nel frattempo, il roadie tira una bottiglia a un uomo tra le prime file, mentre il resto del gruppo continua a suonare, anche se Coleman tradisce un certo imbarazzo. Dopo un’oretta scarsa il concerto viene quindi concluso nell’incredulità generale. Inutile spendere parole sulla performance, perchè questa sera, pur eseguendo i pezzi in maniera formalmente accurata (nonostante tutto!), i Killing Joke hanno sostanzialmente suonato per loro stessi, quasi come se fossero in sala prove.
(Luca Pessina)

ULVER

Dopo il discusso set dei Killing Joke, il Roadburn prosegue sui binari della follia (anche se in un contesto certamente più pacifico e rilassato) con il concerto degli Ulver. Per l’occasione, il gruppo di Kristoffer Rygg decide infatti di tralasciare quasi completamente il suo repertorio per proporre una sfilza di cover di vecchie realtà anni ’60, che verranno presentate nell’imminente raccolta “Childhood’s End”. Pezzi di Troggs, Gandalf, Jefferson Airplane e The Pretty Things fuoriescono così dagli amplificatori, per somma sorpresa anche dei più grandi fan dei Nostri. Rygg appare particolarmente divertito, così come la band tutta, che sembra proprio aver pregustato a lungo questo momento. E pazienza se parte dell’audience decide di andarsene dopo qualche canzone: i Nostri sembrano aver messo tutto in conto. Del resto, stiamo pur sempre parlando di una formazione che in carriera ha sempre spiazzato e fatto tutto e il contrario di tutto. Lo show al Roadburn 2012 si inserisce senz’altro in questa tradizione e, nel bene o nel male, siamo sicuri che verrà ricordato da molti.
(Luca Pessina)

SPIDERS

Per chi non li conoscesse già, gli Spiders sono un gruppo nato da delle jam tra il batterista dei Graveyard Axel Sjöberg e l’ormai ex chitarrista degli Witchcraft John Hoyles, di fatto i due gruppi di maggior successo della prolifica scena retro rock svedese. Quella al Roadburn è la loro prima importante apparizione fuori dalla Scandinavia. Axel Sjöberg, visti gli impegni con i Graveyard, ha ormai ceduto il posto a Ricard Harryson (già con i garage rockers The Maharajas), che si dimostra in questa sede un batterista solido e preciso, in grado di non far rimpiangere il suo funambolico predecessore, e anzi, di avere uno stile che inserisce bene nel suono del gruppo. Senz’altro degno di nota anche l’apporto del nostro connazionale Matteo Gambacorta al basso, autore di una perfomance davvero convincente. I coniugi John e Ann-Sofie Hoyles, rispettivamente chitarra e voce, rimangono comunque l’animo della band, con la voce graffiante di Ann-Sofie che si conferma ottima anche dal vivo e alla quale non manca certo la giusta presenza scenica. Vengono suonato tutti i pezzi del repertorio, dall’omonimo EP d’esordio per la Crusher Records fino al singolo “Fraction”, oltre a nuovi pezzi che si presume andranno a finire sul primo album completo del gruppo. Il loro suono, un hard rock venato di garage che in qualche modo si colloca tra i Witchcraft più rock e gli Hellacopters meno punk, si rivela avvincente dal vivo quanto su disco. Nonostante la loro perfomance sia di ottimo livello, la sensazione è che questo gruppo possa fare ancora di più, visto che le potenzialità non mancano certo.
(Igor Belotti)

NACHTMYSTIUM

Un altro evento da ricordare di questo Roadburn 2012 è senz’altro il concerto dei Nachtmystium, impegnati a proporre per intero sulle assi di un palco “Instinct: Decay”, l’album che per la prima volta li portò all’attenzione del grande pubblico ormai oltre un lustro fa. I black metaller statunitensi hanno da tempo una solida reputazione in materia di live show e in questo venerdì pomeriggio non fanno niente per tradire le attese. Il chitarrista/cantante Blake Judd denota subito un atteggiamento molto positivo e invita il pubblico a seguirlo in quello che sarà un viaggio nel passato del suo gruppo. Le dimensioni del palco principale non spaventano i Nostri, che, a quanto pare, gradiscono l’idea di essere considerati una delle principali attrazioni della giornata: on stage i Nachtmystium ostentano infatti passione ma anche tanta consapevolezza dei propri mezzi. Un classico come “A Seed For Suffering” viene eseguito con estrema ferocia e infiamma gli animi dei fan presenti. Altri astanti si fanno trasportare di meno, ma, in ogni caso, l’esibizione desta interesse e giustifica la posizione di rilievo ad essa concessa. I Nachtmystium, d’altronde, non sono la classica black metal: hanno un’attutudine più “open minded” e il loro stile è ricco di contaminazioni. “Instinct: Decay”, a oggi, forse non è più la loro opera maggiormente coraggiosa, ma chi ha assistito al concerto avrà intuito la forte personalità del quintetto, sempre più lanciato verso riconoscimenti più rilevanti.
(Luca Pessina)

SOLSTAFIR

Ben un’ora e mezza viene concessa ai Solstafir, ormai divenuti un nome di una certa importanza nel panorama “post” black/dark metal europeo dopo il successo riscosso dal nuovo doppio album “Svartir Sandar”. I cowboy islandesi si esibiscono nel Patronaat – il locale che ha preso le veci del vecchio Midi Theatre e che si trova quasi esattamente di fronte allo 013 – nel pomeriggio di venerdì e dimostrano di poter contare su un seguito già di tutto rispetto, visto che, almeno durante le prima battute del loro show, la sala è gremita di gente. Il cantante/chitarrista Aðalbjörn Tryggvason detta i tempi dello spettacolo, con il suo fare “piacione” e l’aria da “bello e dannato”, ma è pur vero che molti degli astanti hanno gli occhi incollati esclusivamente su quanto viene proiettato a fondo palco. Più che immagini, si tratta di veri e propri cortometraggi che paiono strettamente collegati al brani che il gruppo sta eseguendo. Un’iniziativa certo non nuova, ma senz’altro assai ben studiata, che dona a tracce come “Þín Orð” e “Goddess Of The Ages” quel quid in più in grado di catturare l’interesse anche dei più distratti. Come avviene solitamente al Roadburn, la folla presente a inizio show si riduce man mano che il tempo passa (vuoi per le sovrapposizioni con altri gruppi, vuoi per la stanchezza o le conseguenze di certi “fumi”), ma, tutto sommato, il gruppo riesce a godere di un notevole supporto sino all’ultimo, concludendo la sua esibizione in un crescendo di applausi. Curiosità finale: tra le prime file segnaliamo la presenza di Mikael Stanne e Niklas Sundin dei Dark Tranquillity in modalità “fan boy”!
(Luca Pessina)

WITCH

Dopo un tour europeo nel 2008 in compagnia dei Graveyard, inclusa un‘apparizione all’edizione di quell’anno del Roadburn, avevamo perso le tracce degli americani Witch, che fortunatamente ricompaiono nuovamente in occasione di questa edizione 2012 del festival, ghiotta opportunità per chi ancora non avesse ancora potuto ascoltare il loro hard rock psichedelico dal vivo. I Witch devono parte della loro popolarità al fatto che un’icona del rock alternativo come J Mascis dei Dinosaur Jr sieda alla batteria, ma il loro rock acido e psicotico brilla di luce propria. Rispetto allo show del 2008, il gruppo viene promosso al palco principale e vanta la le sue fila un nuovo chitarrista, Graham Clise (Lecherous Gaze, ex-Annihilation Time). Definire la proposta del gruppo non è facile: mentre il primo omonimo disco del 2006 aveva un deciso feeling Black Sabbath-Pentagram, e vintage, il secondo “Paralyzed” del 2008 è una sorta di biker rock con un’attitudine a tratti (proto)metal e punk, pur mantenendo un approccio lisergico. J Mascis dal vivo si rivela un batterista non eccelso ma competente e la performance del resto della band, con tanto di un Kyle Thomas (chitarra e voce) dall’aria spiritata, è convincente. Due membri dei Witch, Graham Clise e J Mascis (questa volta però nel suo ruolo naturale di chitarrista) prenderanno parte in una delle giornate successive del festival alla “Heavy Jam” in compagnia della sezione ritmica degli Earthless, composta dal bassista Mike Eginton e dal drummer extraordinaire Mario Rubalcaba (già skater professionista e batterista di OFF! e Rocket From The Crypt) per una lunga space jam simile agli Earthless stessi.
(Igor Belotti)

VOIVOD

Anche quest’anno i Voivod hanno l’onore di tenere un doppio show al Roadburn: si sono esibiti giovedì sul palco principale, subito dopo gli Ulver, ma decidiamo di assistere alla loro seconda esibizione in programma, in quanto sappiamo che in quest’occasione riproporranno il classico “Dimension Hatröss” per intero. Ancora una volta, è triste vedere il gruppo canadese sul palco senza la mente Denis “Piggy” D’Amour, purtroppo scomparso nel 2005, ma il chitarrista Daniel Mongrain ha comunque tutto il diritto di stare sul palco al fianco di Away e compagni, essendo prima di tutto un immenso fan della band (basterà scambiarci due parole per capirlo), nonchè un personaggio altamente rispettato nella scena metal canadese, avendo collaborato o fatto parte negli anni di realtà importanti come Gorguts, Martyr e Cryptopsy. Pure quest’oggi, on stage i Voivod incarnando la passione per la musica e la gioia di suonare assieme: nonostante la fedeltà al disco sia notevole, si ha poca voglia di stare attenti ai dettagli in un’esibizione come questa, perchè il gruppo dà assolutamente l’impressione di divertirsi un mondo e invita il pubblico a fare lo stesso, coinvolgendolo in un pogo spensierato subito a partire dalla thrasheggiante “Experiment”. La voce di Denis “Snake” Bélanger è forse l’aspetto del sound dei Nostri che sta soffrendo maggiormente il trascorrere del tempo: le prime strofe arrancano un pochino, ma, tutto sommato, bastano un paio di pezzi affinchè i vocalizzi del frontman acquistino calore e intensità. In ogni caso, all’altezza d “Technocratic Manipulators” buona parte del pubblico è ormai completamente rapita e i Voivod non devono far altro che godersi il momento e auto-celebrarsi eseguendo quel che resta di uno dei loro capolavori in un’atmosfera di giubilo. Probabilmente non verranno mai riconosciuti loro tutti i meriti che si meriterebbero, ma i Nostri hanno ormai trovato nel Roadburn una famiglia che li sosterrà e promuoverà incondizionatamente sino all’ultimo.
(Luca Pessina)

CELESTE

Chiudiamo la giornata di venerdì con quei folli dei Celeste, che si esibiscono nella Green Room alla loro maniera, ovvero sorprendendo tutti con un impianto luci praticamente azzerato, soppiantato da un buio pressochè totale, reso ancora più torbido da un ampio utilizzo di fumo. I ragazzi francesi si intravedono solo perchè portano sulla fronte delle lampade “modello speleologo”, che, al buio, assumono presto i connotati di raggi impazziti, visto che i Nostri non smettono un attimo d fare headbanging e di contorcersi sui loro strumenti. I suoni purtroppo sono un po’ impastati e non ci permettono di cogliere pienamente la performance strumentale della band, ma l’effetto è comunque quello di venire investiti da un treno in corsa, guidato da un conducente che sbraita come un ossesso sino ad auto-annientarsi. Pare che non siano molti coloro a conoscenza del post-hardcore/black metal della formazione transalpina, ma la sala è gremita di gente e i commenti che si sentono in giro sono assolutamente entusiastici. Come accennato, a livello di suoni si poteva fare di meglio, ma questa sera i Celeste hanno senz’altro saputo come attirare l’attenzione, tanto da venire eletti “band rivelazione” della giornata da diversi avventori.
(Luca Pessina)

CELESTIAL SEASON

Siamo cresciuti nei tardi anni ’90 ascoltando quella perla doom-death metal che risponde al nome di “Solar Lovers”. Si tratta sostanzialmente dell’unico vero grande disco dei Celestial Season, che, dopo esordi un pochino acerbi, nel 1995 regalarono al pubblico questo ottimo lavoro prima di orientarsi su di uno stoner rock settantiano e poi sciogliersi quasi nell’anonimato nel 2001. La news della loro reunion in formazione semi-originale ha convinto gli organizzatori a offrire uno slot alla band olandese, che si esibisce nel Patronaat nel pomeriggio di sabato, davanti a un’audience che sembra essere quasi esclusivamente costituita da reduci dei nineties (pochini, ahinoi). L’atmosfera è molto “intima” e, onestamente, anche un po’ triste: il nome Celestial Season non ha evidentemente retto la prova del tempo e il gruppo si ritrova quindi a suonare davanti a soltanto un centinaio abbondante di fedelissimi, venuti a gustarsi il suddetto piccolo capolavoro per intero per la prima e ultima volta in assoluto. Considerando il decennio di assenza dalle scene, le aspettative da parte nostra non sono elevatissime, tuttavia i Nostri ci sorprendono con una performance sentita e ben attenta ai dettagli: Jiska ter Bals è presente sul palco con il suo violino, accompagnata da Elianne Anemaat al violoncello, e il loro apporto contribuisce a rendere lo spettacolo particolarmente “vivo”. Con delle basi registrate, il tutto sarebbe probabilmente scaduto in una semplice imitazione dei vecchi tempi. Dal canto loro, il nuovo frontman George Oosthoek (ex Orphanage) e il resto dei musicisti si esprimono con competenza, riproponendo chicche come “Decamerone” con fedeltà e discreta disinvoltura. Di certo non si tratta di una performance da brividi o di qualcosa che faccia letteralmente scatenare il pubblico in sala (cosa dovuta ovviamente anche alla natura della musica stessa), ma, tutto sommato, l’ora a disposizione dei Celestial Season scorre via con piacere e ci strappa più di un sorriso, facendoci pensare alla nostra adolescenza. Un grazie alla formazione olandese per aver accettato la sfida di questo live e per aver nel complesso ben figurato.
(Luca Pessina)

SAVIOURS

Autentici road warrior, visto che dall’uscita del nuovo album “Death Procession” la band è stata quasi ininterrottamente in tour, gli americani Saviours calcano per la seconda volta il palco del Roadburn dopo esibizione del 2009. L’intensa attività live ha ormai reso il gruppo di Oakland un’autentica macchina da guerra dal vivo e a Tilburg ci regalato un’esibizione che non ha fatto prigionieri. La scaletta è incentrata sugli ultimi due album, quelli che vedono in formazione il chitarrista Sonny Reinhardt, diventato ormai un elemento importantissimo nell’economia del suono del gruppo, e anche l’acquisto più recente, il bassista Carson Binks (già all’opera con i Dzjenghis Khan) è ormai perfettamente integrato nella band. Dispiace che i primi due dischi siano tralasciati nella scaletta, dettaglio comunque trascurabile e che la band si fa ampiamente perdonare. Il batterista Scott Batiste, autore della maggior parte del materiale del gruppo, è come sempre il motore ritmico con il suo ottimo drumming, mentre il chitarrista e cantante Austin Barber, indubbiamente un frontman calzante per una band come i Saviours, appare ora migliorato anche sul versante solista e in grado di funzionare benissimo in coppia con Reinhadt. Il punto di forza del suono del gruppo è l’alternanza di momenti rallentati tra lo stoner e il doom, tempi medi e altri più veloci, oltre alle diverse influenze che spaziano dalla NWOBHM al thrash, che risulta sempre avvincente e senza  cali di tensione, per raggiungere il massimo del coinvolgimento del pubblico durante i pezzi più veloci come “Crete’n” e “Slave to the Hex”. Il punto più alto dello show si tocca però con l’epicità in crescendo della strumentale “Earth’s Possession & Death’s Procession”, che nella versione live raggiunge la sua dimensione definiva. Se ancora non conoscete una realtà come i Saviours, datevi da fare al più presto.
(Igor Belotti)

PELICAN

La popolarità dei Pelican tra i cosiddetti fan della prima ora pare essere in netto calo, almeno giudicando dalla maniera tiepida con cui questi ultimi hanno accolto le recenti prove in studio del gruppo. Tuttavia, ciò non impedisce agli statunitensi di esibirsi al Roadburn in una sala principale pienissima e di di rendersi protagonisti di una prova oggettivamente molto sentita e coinvolgente. Certo, alla fine il pezzo più acclamato si rivelerà essere “Last Day Of Winter”, tratto dall’ormai classico “The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw”, ma, tutto sommato, l’intera ora a disposizione del quartetto viene ben supportata dagli astanti, compresi i momenti in cui i Nostri si dedicano al materiale di “What We All Come To Need” e del nuovo “Ataraxia/Taraxis”. Non c’è molto da dire sulla prestazione on stage dei ragazzi, perchè, pur dimostrandosi certamente coinvolti nella performance, questi fanno effettivamente poco per occupare il palco e interagire con la folla. Insomma, per apprezzare lo show, bisogna essenzialmente essere fan della musica dei Pelican. Quest’ultima viene riproposta senza sbavature e qua e là acquista un tiro “metal” maggiore, ovvia conseguenza della dimensione live, ma, tutto sommato, essa mai si allontana di tanto dalle coordinate che i fan hanno avuto modo di conoscere ascoltando gli album a casa. Uno show comunque intenso ed efficace.
(Luca Pessina)

NECRO DEATHMORT

Una delle nostre poche capatine presso il palco minore dello 013 avviene per assistere alla prova dei londinesi Necro Deathmort, realtà definitivamente venuta allo scoperto lo scorso anno con la pubblicazione di “Music Of Bleak Origin” e già in procinto di rilasciare un nuovo opus. Quando arriviamo, la sala è letteralmente stra-colma di curiosi e fan del duo, tanto che ci tocca seguire il tutto praticamente dalla porta d’ingresso, vista l’immane calca. Poco male, comunque, visto che più che da vedere, c’è da ascoltare. Il progetto prevede infatti un largo uso di synth ed effettistica per produrre un industrial/doom terrificante nei suoni e nell’impatto e, date queste circostanze, non è quindi il caso di aspettarsi una performance “di movimento”. I Nostri imbracciano basso e chitarra, ma si affidano quasi in toto a una piattaforma su cui sono installati computer e campionatori per allestire le loro trame. Le atmosfere nebulose di una traccia come “Temple Of Juno” riempiono la sala e da qui inizia un viaggio verso l’ignoto, che sfocia qua e là in sprazzi di puro rumorismo. Un indovinato gioco di luci contribuisce a rendere questa parentesi “sintetica” ancora più raccapricciante e, ad ascolto terminato, siamo felici di aver trovato il tempo per testare questa interessante realtà anche dal vivo. Non è musica per tutti, ma il suo fascino non si discute.
(Luca Pessina)

SLEEP

Alla pari dei Kyuss, gli Sleep vantano una reputazione leggendaria nella scena stoner, della quale sono riconosciuti come i padri assoluti insieme ai Kyuss stessi. Una scena di cui Roadburn è la celebrazione suprema, e non è un caso quindi che quando il trio californiano sale sul palco, l’intero pubblico del festival si mobiliti e ci sia una palpabile atmosfera di attesa. E’ un peccato che il batterista originale Chris Hiakus, che pure prese parte ai primi concerti della reunion nel 2009, non sia della partita, sostituito egregiamente da Jason Roeder dei Neurosis. Un appesantito Mike Pike sfodera un riff altrettanto pesante, quello di “Dopesmoker”, e il concerto ha il suo lento ma poderoso inizio; non a caso, sullo sfondo vengono proiettate le immagini di uno space shuttle che decolla lentamente, sfidando la gravità del suo immenso peso con i motori a piena potenza. Viene eseguita buona parte della mega jam “Dopesmoker”in due tronconi, uno in apertura e uno in chiusura al concerto, e nel mezzo vengono eseguiti classici della band, tra cui ”Holy Mountain” e l’immancabile “Dragonaut”. Al Cisneros (basso e voce) e Matt Pike (chitarra) sono come dei giganti sul palco, non solo per la stazza ormai raggiunta dai due, ma soprattutto per lo status leggendario che vantano in questa scena con gli Sleep, ma anche rispettivamente con OM (che pure si sono esibiti nel corso del festival) e High On Fire. Il rituale sonico degli Sleep viene quindi finalmente celebrato a Roadburn, per un’esibizione che il pubblico, ipnotizzato dal vortice di riff, sembra apprezzare e che probabilmente è già storia.
(Igor Belotti)

ADMIRAL SIR CLOUDESLEY SHOVELL

Nonostante gli Sleep stiano dominando il festival con la loro esibizione sul main stage, su un palco minore è in programma questo gruppo retro rock inglese e la curiosità di vederli è forte. Gli Admiral Sir Cloudesley Shovel sono un trio prossimo al debutto per la Rise Above di Lee Dorrian, autentico talent scout di questo genere di gruppi, e per la quale la band ha già pubblicato un 7” lo scorso anno. Prossimi al disco d’esordio, ma tutt’altro che giovanissimi, tra basettoni e haircut visti l’ultima volta all’incirca nel 1972, i tre componenti di questo gruppo appaiono davvero come transfughi degli anni ’70 ai giorni nostri. Il cantante e chitarrista Johnny Gorilla è un volto noto, visto la sua militanza nei Gorilla, una band legata all’italiana Go Down Records (Small Jackets, OJM) che qualche anno fa si è esibita spesso nel nostro paese. Autori di un biker rock tra Blue Cheer, Sir Lord Baltimore e Pink Fairies, questo trio è quanto di più devoto agli anni ’70 più polverosi e underground si possa trovare in giro, in grado di dare del filo da torcere persino a gente come Dzjenghis Khan e i Gentlemans Pistols della prima ora. Nonostante il loro aspetto da Freak Brothers in carne ed ossa, il trio sorprende con canzoni non banali e ben strutturate, oltre ad un performance compatta e precisa come un orologio svizzero, grazie all’esecuzione perfettamente coordinata di Johnny Gorilla e del bassista, quest’ultimo indubbiamente l’asso del gruppo. Non possiamo che augurarci di ammirare nuovamente dal vivo questo curiosa entità.
(Igor Belotti)

DRAGGED INTO SUNLIGHT

Decidiamo di spendere parte delle nostre ultime energie per assistere allo show dei Dragged Into Sunlight, chiamati anch’essi ad esibirsi sul palco medio dello 013 (la cosiddetta Green Room). Il gruppo britannico mantiene la sua fama di oggetto misterioso all’interno della scena, decidendo di non proferire parola prima, durante e dopo la performance e di esibirsi “nascosto” da fumo e forti luci stroboscopiche, che sul palco fanno intravedere solo qualche candela e varia oggettistica satanica, oltre alle sagome dei musicisti, che, tra l’altro, spesso suonano dando le spalle al pubblico. Il concerto assume comunque dei toni veramente bestiali non appena i Nostri attaccano con la loro proposta, un mix infernale di death, black metal e sludge giocato su chitarre ruvidissime e uno screaming lancinante, che buca letteralmente i timpani. Il fatto di non riuscire a cogliere a pieno che cosa stia avvenendo sul palco rende lo spettacolo ancora più intrigante, così come la scelta della band di non concedersi alcuna pausa, cosa che porta il quartetto a rimanere sul palco soltanto per una mezzoretta, quando invece il tempo messo a disposizone dagli organizzatori è sostanzialmente il doppio. Nessuno tuttavia si lamenta: una tale intensità e un tale oltranzismo vanno elargiti nelle dosi opportune e, a quanto pare, il pubblico del Roadburn ciò lo sa bene. Usciamo dalla sala a dir poco rintronati, ma pienamente soddisfatti.
(Luca Pessina)

BLACK COBRA

Dopo quattro giorni di festival siamo ormai discretamente a pezzi e il colpo di grazia ci viene dato dall’infuocata esibizione dei Black Cobra, che chiudono ufficialmente il Roadburn 2012. Sono solo in due, ma fanno casino per dieci! Se il recente “Invernal” ha vagamente deluso alcuni dei fan, per via di un sound un po’ più controllato ed “educato” rispetto al materiale degli esordi, di certo un discorso simile non può essere allargato al concerto di questa sera. Jason Landrian e Rafael Martinez si presentano sul Main Stage con le palle girate e prendono a badilate qualsiasi cosa gli si pari davanti. L’impostazione dello show è praticamente thrash metal, tanta è la foga con cui i Nostri danno fuoco alle polveri, e il pubblico – forse consapevole che dopo questo set potrà finalmente concedersi un po’ di riposo – risponde spremendo tutte le energie rimaste. Nella sala tornano a fare capolino headbanging e persino un po’ di pogo, per grande soddisfazione di Landrian, che parla pochissimo (o quasi per niente), ma aizza continuamente gli astanti a fare di più con gesti inequivocabili. Ne risulta uno dei concerti più intensi della manifestazione… forse anche quello più barbaro in assoluto. Senza dubbio, non ricordiamo tanta cattiveria sul Main Stage prima di questo momento, cosa che rincuora l’animo “metallaro ignorante” che è dentro di noi. D’altronde, il Roadburn è sì bello per la sua varietà e la particolare atmosfera, ma, alla lunga, ci piace sempre ritornare a del sano metallo suonato con la clava. Appuntamento all’anno prossimo!
(Luca Pessina)

1 commento
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