Introduzione di Luca Pessina
Report a cura di Andrea Raffaldini, Luca Pessina, Davide Romagnoli e Simone Vavalà
Foto di Niels Vinck
Lo abbiamo già affermato in passato: il Roadburn festival è un autentico punto di riferimento, un’oasi per tutti gli appassionati dei suoni meno convenzionali o più di nicchia e una eterna rivelazione per tutti i veri curiosi. In ventuno anni la rassegna olandese non ha fatto altro che diventare più influente e prestigiosa, allestendo cartelloni miracolosi e richiamando di conseguenza un pubblico sempre più eterogeneo letteralmente da ogni angolo del globo. Negli scorsi anni non abbiamo mai mancato di sottolineare la perfetta organizzazione alla base dell’evento, assieme a quell’atmosfera rilassata e a quella sinergia tra pubblico e artisti che è possibile respirare girovagando per i locali e persino per le strade di Tilburg. Il Roadburn sino a quest’anno aveva sempre rappresentato un modello di festival unico, sia per il bill (un sempre più unico ed entusiasmante coacervo di suoni avantgarde, estremi, psych, doom e chi più ne ha, più ne metta), sia per la sua predisposizione a mettere al centro dell’esperienza tanto le band quanto gli avventori. Il programma fitto ma non esagerato, la location e gli orari comodi, le file inesistenti e la possibilità di entrare e uscire da una sala all’altra con grande facilità erano sempre stati elementi cardine dell’happening olandese. Quest’anno però, vista la ristrutturazione dello 013 e la maggiore capienza a disposizione, gli organizzatori hanno deciso di mettere in vendita circa un migliaio di biglietti in piú, ampliando quindi ulteriormente il calibro di un evento che già un paio di anni fa – con l’introduzione dei ticket giornalieri, oltre al classico abbonamento per l’intero weekend – sembrava avere raggiunto i suoi limiti di grandezza. Mille biglietti non sono tanti per un Hellfest, ma quel numero può seriamente fare la differenza in un festival che ha luogo fra le mura di alcuni locali in un centro cittadino. Senza girarci troppo attorno, il Roadburn quest’anno ha probabilmente peccato un po’ di megalomania: 4500 persone concentrate in un paio di strade, pur potendo contare su un locale enorme e ben strutturato come lo 013, sono evidentemente eccessive. Quello che una volta rappresentava una passeggiata – ad esempio lo spostarsi dal suddetto mega-locale all’adiacente Patronaat – quest’anno ha assunto i connotati di una vera impresa: i fan hanno continuamente dovuto fare i conti con code di dozzine di metri e “mura umane” davanti agli ingressi, la celebre Green Room si è trasformata in una sauna ad ogni singolo appuntamento, mentre l’Extase e il Cul De Sac – praticamente due bar dalla capienza di poche decine di persone – non hanno assolutamente retto l’urto di una tale affluenza, risultando quasi sempre sostanzialmente irraggiungibili. Cinque palchi per una folla di quel calibro sulla carta non sono pochi, ma se tre di questi sono di piccole (se non piccolissime) dimensioni, allora è forse il caso di rivedere conti e progetti. In ogni caso, non è nostra intenzione criticare solamente un evento che, come del resto ogni anno, si è anche fatto segnalare in maniera stra-positiva: dal punto di vista prettamente artistico, il Roadburn è stato infatti il solito grande successo e tuttora pagheremmo per potere rivivere certi show, oltre a non vedere l’ora di sapere che cosa l’organizzazione abbia in serbo per noi per l’anno prossimo. Di nuovo è stato un piacere vivere il festival accanto agli artisti (alcuni anche protagonisti di interviste e approfondimenti davanti al pubblico), sentirsi parte di un vero circolo di appassionati e letteralmente diventare un tutt’uno con la comunità di Tilburg. Seguendo il profilo Facebook del festival, abbiamo notato come l’organizzazione abbia risposto ad ogni singolo commento ricevuto nelle ultime settimane, prendendo nota sia degli elogi che delle critiche e promettendo opportune migliorie per il 2017. Non capita spesso di avere a che fare con imprenditori tanto trasparenti e disponibili e questo è senza dubbio un altro elemento che fa onore al Roadburn, che da sempre è un esempio di vera passione. Insomma, nonostante le cose questa volta non siano andate tutte alla perfezione, restiamo ancora altamente fiduciosi per il futuro di questo piccolo grande festival. Nei mesi a venire sarà nostra premura tenervi aggiornati sui progressi e le conferme per il 2017, ma nel frattempo vi invitiamo a leggere le nostre impressioni su alcuni degli show di quest’ultima edizione che siamo riusciti a seguire con più calma e attenzione!
THE POISONED GLASS
Spetta agli americani The Poisoned Glass aprire questa nuova edizione del Roadburn Festival all’interno del suggestivo Het Patronaat. Dietro al palco un maxi schermo proietta filmati in bianco e nero di sinistre ballerine, mentre il duo inizia lo spettacolo. Voci e chitarre riversano sui presenti canzoni di lentissimo doom metal angosciante e malato, che quasi provoca un senso di asfissia, interrotto soltanto dai vagiti in screaming del cantante. La lentezza spropositata della musica arriva a creare quasi malessere, ma il pubblico si fa abbracciare da queste atmosfere acide e distorte. Tanto essenziale quanto maligna, la proposta dei The Poisoned Glass si fonde con le immagini che continuano a passare sullo schermo per dar vita ad una performance molto teatrale. I brani sono lunghi e lenti, i due musicisti si occupano insieme delle striminzite parti di percussioni. La band sembra persa nel proprio mondo, incurante di tutto ciò che accade attorno a loro, ma i presenti appaiono molto coinvolti. E’ difficile pensare a semplificare e togliere orpelli dal doom metal, ma i The Posoned Glass sono riusciti in questa impresa.
(Andrea Raffaldini)
CULT OF LUNA
“The sun, the light in your eyes, trapped me in a cage. When you saw me you sw yourself. We were the ones that marched and fell”. Così inizia “Somewhere Along The Higway” e così per molti inizia il Roadburn 2016. Sono le tre di pomeriggio e per un’ora si resta ammaliati da una performance di rara bellezza, quella che presenta forse il capolavoro della band svedese. I suoni degli otto protagonisti sono mirabili, l’atmosfera eterea è resa ancora più evocativa da un comparto luci teatrale e visionario, che accompagna un’ora di musica di veramente alta classe. Usciti da poco con il nuovo disco con Julie Christmas, il gruppo di Umea presenta però solo l’album del 2006, in occasione della decade di celebrazione, senza presentazioni, senza aggiunte, senza encore, come se fosse stato inserito nel lettore e si fosse premuto ‘play’. Un’esperienza quasi mistica per i fan dei Cult Of Luna e per molti che invece si trovavano li per curiosità o per la prima birra del festival. La triade finale “Thirtyfour”, “Dim” e “Dark City, Dead Man” è da inserire nei libri di scuola di musica per i conservatori. Rabbia, classe, eleganza, nulla fuori posto. Encomiabile rappresentazione di un album (di uno spirito difficilmente raggiunto nelle opere succesive) che racchiude la validità assoluta di una band come questa. Otto musicanti, niente squilibri, niente di pleonastico, superfluo o presuntuoso. Molto cuore, molto spirito, tanta classe e contenuto. Uno dei picchi più emozionanti del festival olandese. “Further down the steps gets steeper. You haunt me in my dreams. I let go and fall deeper. This will be the end of me”.
(Davide Romagnoli)
INVERLOCH
Il concerto dei Cult Of Luna si sta rivelando strepitoso, ma chi scrive decide di lasciare la sala principale poco prima della conclusione per andare a gustarsi il set degli Inverloch, band che non capita in Europa tutti i giorni. I death-doom metaller australiani, da poco fuori con il notevole “Distance | Collapsed”, sono i naturali eredi dei seminali Disembowelment, gruppo autore del capolavoro “Transcendence into the Peripheral” nel lontano 1993. Anni fa i Nostri si sono già esibiti da queste parti proprio come Disembowelment/d.USK, ma oggi è il caso di dare il meritato spazio alla nuova incarnazione della band, che già pare avviata verso una carriera ricca di soddisfazioni. Al microfono troviamo il belga Arne Vandenhoeck (Marche Funèbre), a quanto pare unitosi alla formazione all’ultimo minuto per queste date europee, ma la resa sonora non ne risente affatto. Proprio come sperimentato su disco, gli Inverloch sono un monolite di proporzioni allucinanti: più death metal che doom dal vivo, ma, all’occasione, pesanti tanto quanto il più asfissiante gruppo funeral. La Green Room non è pienissima durante l’esibizione, ma si può dire che ognuno dei presenti sia letteralmente rapito da questa performance ricca di potenza e contrasti. Quando le chitarre di Mark Cullen e Matthew Skarajew producono quegli arpeggi che tanto abbiamo amato su disco, sembra quasi che le prime file cadano in una sorta di trance, lasciandosi andare a movimenti sconnessi che sembrano quasi divertire alcuni dei musicisti. Nel complesso, si può parlare di una prova davvero riuscita per il quintetto, che non ha affatto deluso le aspettative venutesi a creare dopo la recente pubblicazione del full-length di debutto. Speriamo di non dovere attendere diversi anni prima di rivederli in Europa.
(Luca Pessina)
USNEA
Il pomeriggio del primo giorno di Roadburn, tra entusiasmo ancora in crescendo e un po’ di stanchezza post viaggio, non è forse il momento ideale per stagliarsi sopra la media e rendere memorabile la propria esibizione, ma gli Usnea centrano l’obiettivo con capacità. Del resto è la seconda calata europea in assoluto per il combo di Portland e nelle parole del chitarrista e cantante Justin Cory, incontrato prima del concerto, l’occasione di suonare qui è un onore e una soddisfazione non indifferente; ecco che quindi decidono per un concerto senza fronzoli: tre soli pezzi, ossia l’ormai classica “Chaoskampf” dall’album di debutto e “Healing Through Death” e “Detritus” da “Random Cosmic Violence”, per puntare sull’impatto e la partecipazione del pubblico, sufficientemente numeroso e ben coinvolto. La loro proposta, che unisce una base non lontana dal funeral a efficaci derive sludge e brevi sfuriate black permette agli astanti di farsi ipnotizzare dalle cadenze rallentate della sezione ritmica, per poi essere improvvisamente sferzati dagli armonici e dai contrappunti delle due chitarre; ottima anche la resa live di entrambi i vocalist: il già menzionato Justin, dedito alle parti scream, e il bassista Joel al growl, che come su disco prevalentemente si dividono l’incombenza brano dopo brano, riuscendo a restituire bene tutte le componenti musicali presenti nel background della band. Attendiamo con curiosità il terzo album, in fase di composizione, sperando che il tour promozionale li riporti da questa parte dell’Atlantico.
(Simone Vavalà)
THE SKULL
Tra tutte le band partecipanti a questa edizione del Roadburn, i The Skull sono i più spremuti, quasi allo sfinimento. Tre concerti in tre giorni, il primo di mercoledì sera all’interno del pub Cul De Sac nella serata di riscaldamento insieme a Jucifer e Bang, il giorno successivo nel main stage a proporre la loro classica scaletta, mentre di venerdì, sempre sul palco principale, Eric Wagner e compagni hanno sorpreso i fan proponendo tutto il famoso disco “Psalm 9”, esordio dei leggendari Trouble (per chi vivesse su Plutone, la band pre-teschi in cui militavano Wagner ed il bassista Ron Holzner) pubblicato nel lontano 1984. Tre concerti, tre atmosfere totalmente differenti perché si è passati dalla dimensione familiare del pub, dove ci si trova di fronte agli artisti mentre si sorseggia tranquillamente una birra, al palco più grande dello 013, con suoni più professionali, luci stratosferiche ed un’audience di tutt’altra consistenza. Va detto che durante gli show principali il Main Stage non ha mai segnato il tutto esaurito, a differenza di altri nomi dal valore discutibile se paragonato alla portata storica di artisti come Wagner e compagnia. Nonostante ciò la band ha davvero fatto scintille sul palco, suoni potenti, heavy metal misto doom che arriva dritto in faccia come un diretto di boxe, e soprattutto un Eric Wagner in strepitosa forma vocale. La forma un po’ appesantita del cantante non gli impedisce di sfruttare al massimo le proprie energie per dar vita a concerti molti intensi che hanno sicuramente accontentato sia i fan dei The Skull dell’ultim’ora sia coloro i quali ancora venerano i seminali Trouble.
(Andrea Raffaldini)
BANG
Dopo quarantasei anni di carriera, gli americani Bang per la prima volta vengono a suonare in Europa ed il Roadburn Festival segna il debutto di Frank Ferrera e compagni nel vecchio continente. Lo stile della band pesca ovviamente dal rock anni Settanta: un misto tra Beatles, Grand Funk Railroad e Black Sabbath suonato con grande coesione ed alchimia. “Lions, Christians” mette in evidenza un ottimo gioco di ritmiche, chitarre e basso vengono sostenuti da un batterista di prim’ordine che, nonostante la giovane età (del trio è l’unico membro non originale) dimostra di avere un gusto perfetto per il tipo di musica proposto. Il bassista/cantante Frank Ferrera si erge a mattatore dello spettacolo, la sua presenza scenica è indubbiamente la più forte sul palco. “The Maze” e “Last Will” continuano il nostro viaggio nel mondo dei Bang, il caldo asfissiante nella Green Room inizia a sentirsi, ma di fronte ad un concerto cosi carico e pieno di energia, la fatica sembra sparire. Miracoli della musica! Ha dovuto attendere quasi mezzo secolo, ma la calata europea dei Bang è iniziata nel migliore dei modi.
(Andrea Raffaldini)
CONVERGE
Doppia sezione di show anche per i Converge. Per primo tocca a “Jane Doe”, perla di genere, riprodotto nella sua interezza muscolare (alcuni dicono sarà la prima e l’ultima volta che ciò avviene), violenta, caustica e secca come una badilata sui denti. La validità in sede live dei cinque musicisti di Salem, Massachussets, non è mai stata cosa da mettere in discussione, e nemmeno del capolavoro dell’hardcore che è l’album del 2001. Così infatti il concerto è effettivamente degno e rispecchia pienamente aspettative e premesse. Da “Concubine” fino all’omonimo finale del disco, le sferzate post-hardcore, hardcore punk, mathcore si susseguono come pugnalate inflitte nelle orecchie così come era stato su disco. Veste innovativa invece viene presentata con “Blood Moon”, set che presenta il lato più melodico e suadente degli americani, soprattutto se rivisitato in compagnia di Stephen Brodsky, Ben Chisolm, l’intrigante eroina brit Chelsea Wolfe e il buon vecchio Von Till. Un aspetto non nuovo, perché il materiale è di repertorio, ma l’impostazione dello show e della setlist è del tutto stravagante per i Converge, che con le partiture in maggiore e i vari “puliti” presentano l’altra faccia della medaglia della loro musica. Inizia con “Plagues” da “No Heroes” del 2006, e sembra di trovarsi davanti semplicemente un altro concerto dei Converge abbastanza consueto, seppur più cadenzato; e invece si finisce ben preso a trovarsi davanti a “Coral Blue” (l’unica con Von Till), “Wretched World”, “In Her Shadow” e “Last Light”, dove a farla da padrone è la prestazione della bella Chelsea Wolfe, che dona alla performance della serata un tocco completamente diverso da quello del precedente show di “Jane Doe”. Difficile dire se l’aspetto più melodico è riuscito a superare quello più peculiare della band del Massachussets, ma, applicato al festival, un’accoppiata di concerti del genere vuol dire avere veramente visto e vissuto la musica dei Converge a trecentosessanta gradi. Veramente difficile chiedere altro. E impossibile resistere all’applauso finale.
(Davide Romagnoli)
PARADISE LOST
Uno degli highlight della prima giornata del Roadburn è ovviamente il concerto dei Paradise Lost, qui chiamati a proporre il leggendario “Gothic” live per intero per la prima volta in assoluto. Da qualche tempo – come ha ben evidenziato il grande ritorno a nome “The Plague Within” – i britannici hanno ripreso dimenstichezza con le loro radici doom-death, ma naturalmente non vanno sottovalutate le esperienze con Bloodbath e Vallenfyre dei due leader della formazione, ormai di nuovo allenati a gestire e interpretare le trame e il cantato più brutali. Questa sera alla batteria troviamo ancora il giovanissimo Waltteri Väyrynen (che Adrian Erlandsson sia ormai fuori dalla line-up?), ma questa è l’unica sorpresa in un set che per il resto va esattamente come ci si aspettavamo. Anzi, si può dire che in alcuni momenti i Paradise Lost arrivino persino a stupire e ad andare oltre le aspettative, tanta è la verve che la band riesce a esprimere in tracce quasi dimenticate come “Rapture” o “Falling Forever”. Nick Holmes e soci devono avere visto questa serata come un divertente tuffo nel passato – il frontman non a caso rimarca come alcuni dei brani non siano mai stati suonati dal vivo, neppure all’epoca della pubblicazione dell’album – ma la resa complessiva è talmente convincente che non ci dispiacerebbe ritrovare alcune di queste vecchie hit nella scaletta dei futuri concerti. Visto il loro status di icone, con la maggior parte dei fan che sembra finalmente riuscita a metabolizzare tutte le loro varie fasi ed esperimenti, i Paradise Lost avrebbero potuto chiudere lo show con una selezione di pezzi presi dai periodi più disparati, ma, per mantenere il feeling old school fino alla fine, una volta terminata l’esecuzione di “Gothic” il quintetto si lancia nella riproposizione di una manciata di vecchi classici (“Embers Fire”, “Hallowed Land”, “Pity The Sadness”…) e in una chiusura all’insegna del nuovo inno “Beneath Broken Earth”, che con il suo incedere funereo riesce a legarsi alla perfezione all’incipit del concerto. Scelta azzeccatissima e vincente.
(Luca Pessina)
ABYSMAL GRIEF
La prima giornata del Roadburn volge al termine, ma prima di rincasare ci sembra obbligatorio seguire lo show di uno dei gruppi italiani in cartellone. Parliamo degli Abysmal Grief, che portano il loro misterioso doom/horror metal sul palco del Patronaat attorno alla mezzanotte. Efficacissima la scenografia scelta dalla band, con luci rosse e viola, fumo, candele, un cancello e statue sacre a fare da contorno ad una performance sì dominata dal frontman/tastierista Labes C. Necrothytus, ma che comunque vede ogni membro della formazione fornire un contributo senza alcuna sbavatura. Si può effettivamente parlare di una prova davvero compatta e coinvolgente per il quartetto ligure, che denota un affiatamento e una dimestichezza con la dimensione live che non è comune vedere in questa corrente musicale. Insomma, gli Abysmal Grief, potendo anche contare su dei suoni calibrati alla perfezione, questa sera “spaccano”, offrendo una scaletta dinamica come poche altre. Tra sequenze più dure e solenni e altre più ritmate, dalle quali emerge un accattivante retrogusto goth, la folla fatica a restare ferma, tanto che ben presto, stando nelle prime file, ci ritroviamo circondati da gente che fa headbanging e da altra che danza. Nel set trova poi posto anche una cover della vecchissima “Chains Of Death” dei Death SS: chicca per cultori che dona ulteriore valore ad un concerto sostanzialmente impeccabile. Eravamo stanchi morti, ma gli Abysmal Grief ci hanno a dir poco rianimato.
(Luca Pessina)
ABYSSION
Come inevitabile in un festival che fa dell’underground e di una certa qual “ricercatezza” il suo forte, la piccola Green Room riesce a diventare talvolta protagonista assoluta e regalare così ulteriori, piacevoli sorprese. Che una vera e propria scena finlandese si stia imponendo in ambito estremo è fuori discussione: solo al Roadburn abbiamo (avremmo?) potuto assistere alle esibizioni di Oranssi Pazuzu, Dark Buddha Rising e del collettivo Atomikylä, ma non sono solo i numeri a dare la dimensione del fenomeno, quanto l’esito. Che vede gli Abyssion, davvero, tra le esibizioni più riuscite del festival: un’atmosfera scarna, la prevalenza di luci verdi, proiezioni non particolarmente ricercate dietro la batteria, ma su tutto la figura del signor Rossi, leader della band, a ergersi con capacità. E il gioco di parole sul cognome parte dal fatto che, nonostante una presenza scenica e una figura anonima, la capacità di trascinarci in un trip ossessivo del Nostro è notevole: la chitarra quasi al collo, coi suoi riff di ossessivi bicordi, non muove praticamente un passo per tutto lo show, negli intermezzi parla solo in finlandese, eppure il senso di straniamento che riesce a donarci è straordinario. Aggiungete i due compari alle macchine ai due lati, che si occupano di sfondarci i timpani con effetti e basi psichedeliche, una batteria ininterrottamente in quattro quarti, e capirete perché la definizione perfetta di questo show possa essere “Burzum incontra i Chemical Brothers”: malignità, ossessività, ritmo e acidità. Ottimo show, che chiude alla grande la prima serata sul palco minore.
(Simone Vavalà)
NIBIRU
Orgogliosamente italiani, i Nibiru si prestano a mettere a ferro e fuoco la nuova location Extase, in pratica un pub con una piccola sala concerti al suo interno. Purtroppo il luogo non è dei migliori se paragonato alle strutture principali del Roadburn, ma fortunatamente la stanza in pochi minuti si riempie. I Nibiru fanno il loro ingresso tra fumi e luci che creano la giusta atmosfera, Ardath si presenta con un teschio animale usato come maschera rituale per dare inizio allo spettacolo. “Krim” e “Teloch” avviano lo show a tutta potenza: lo sludge estremo ed esoterico della band (ricordiamo che i testi dei brani sono scritti in lingua enochiana) possiede un sound micidiale, caldo e sudore si fondono in mezzo all’euforia generale e il pubblico assiste molto coinvolto allo show della formazione italiana. Come tocco di classe, il bassista Riccardo Pesce in un paio di brani sfodera un fantastico basso fretless che offre un sound particolare. La band nonostante una temperatura assolutamente insopportabile da il massimo, chitarre e batteria continuano a macinare violente ritmiche, senza pause, senza riprendere fiato. Il concerto si conclude con “Khem” e “Apsara”, ultimi due capitoli di questo rituale che lasciano la band con poche energie, ma contenta per il buon esito dello show. L’orda di fan fiondata dopo il concerto al banchetto del merchandise è prova concreta della credibilità e dell’originalità dei Nibiru.
(Andrea Raffaldini)
STEVE VON TILL
Cullato dalle atmosfere rarefatte delle vetrate della chiesa sconsacrata dell’Het Patronaat, la performance di Steve Von Till rimane degna del suo carattere impetuoso e poetico allo stesso tempo, in una forma lirica e malinconica forse maggiore del suo compagno Scott Kelly, e dotata di un fattore x essenziale per uno show acustico. Brani come “Language Of Blood” commuovono per la loro storia, il loro retroterra culturale, la persona che emerge da quei testi e da quegli arpeggi. Sempre più influenzato da Steve Van Zandt, ma al tempo stesso sempre più personale, intimo e riflessivo, il buon Von Till offre momenti di grande musica acustica al pubblico di fedeli che sono riusciti ad entrare in sala, prima che si formasse una lunga coda all’esterno.
(Davide Romagnoli)
NIGHT VIPER
Subito dopo la fine dello show dei Nibiru, ci teniamo in zona Extase per presenziare al concerto dei Night Viper, una formazione che difficilmente ci saremmo aspettati di veder calcare uno dei palchi del Roadburn, in quanto a livello di sound gli svedesi risultano borderline rispetto alla filosofia del festival olandese. Siamo infatti di fronte ad una band che propone un surrogato di heavy metal e thrash figlio degli anni Ottanta, senza tanti fronzoli o contaminazioni. I brani dell’unico disco finora inciso si susseguono in modo veloce e violento, episodi come la title track ci ricordano per sonorità i Metallica degli esordi (con i dovuti paragoni, sia chiaro), belli diretti ed ignoranti al punto giusto. La cantante Sophie Lee Johansson spicca sul resto della band, che comunque svolge molto bene il proprio compito. Sophie però ha una marcia in più e non si parla solo dell’aspetto, ovviamente; la sua capacità di tenere il palco e caricare il pubblico è la carta vincente di una band che, tutto sommato, non propone nulla di originale. Va detto comunque che episodi come “Curse Of A Thousand Deaths” dal vivo riescono a elargire dosi pericolose di adrenalina e che i Night Viper sono l’ideale per riscaldare gli animi e per gustarsi un’ora di musica diretta e senza troppe pippe mentali.
(Andrea Raffaldini)
SCOTT KELLY
Un po’ meno emozionante del compagno neurosiano che ha appena abbandonato il palco, anche la performance di Scott Kelly è comunque di quelle capaci di mostrare il carattere romantico, folk e country che anima le righe della band di Oakland. Qui ritroviamo qualcosa di più semplice ed essenziale, caratterizzato da tonalità tipicamente americane e più dirette e immediate rispetto alla liricità e l’eleganza maggiori di Von Till. Scott Kelly è sempre stato impegnato in mille progetti – in questo weekend si trova anche con i Mirrors For The Psychic Warfare – e difficilmente si possono sostenere tutte queste differenti situazioni. Forse è per questo che qualche volta capita che il buon Scott si dimentichi di qualche verso del suo repertorio solista, pur mantenendo sempre – c’è da dirlo – un certo charme e una certa umiltà in sede di perfomance. Le cose però si fanno interessanti con brani come la suadente “The Ladder In My Blood”, la cover dei suoi Shrinebuilder “We Let The Hell Come”, quella di “Cortez The Killer” di Neil Younge la finale “Tacumseh Valley”, del mentore Van Zandt, qui proposta in compagnia (come abbiamo già avuto modo di apprezzare nel tour europeo) di Colin degli Amenra.
(Davide Romagnoli)
WITH THE DEAD
Come premessa, chi scrive ci tiene a ribadire l’amore per l’esordio discografico dei With The Dead, la nuova creatura di Lee Dorrian dei Cathedral. Ebbene, assistendo per la prima volta ad un loro concerto dal vivo, sul Main Stage del Roadburn, qualcosa non convince. Sia chiaro, sul palco la band si presenta sicura e pronta a sciorinare un’ora di doom metal lento e sulfureo come prevede la scuola classica del genere. “Crown Of Burning Star” e “The Cross” catalizzano l’attenzione sul frontman Lee Dorrian, lui è anima e corpo della band e, pur non interagendo mai con il numeroso pubblico presente, il suo carisma riesce a conquistare tutti. Con il proseguire dello show il Main Stage si riempie del tutto, la calca non è paragonabile a quella riservata ai Neurosis, ma senza ombra di dubbio Lee Dorrian è un personaggio amatissimo dai fan del Roadburn. Rimane però il fatto che qualcosa non convince, infatti durante l’esecuzione dei pezzi, tra cui “Living With the Dead” o “I Am Your Virus”, l’impressione è quella di un’eccessiva ripetitività; ad un certo momento del concerto (se non fosse per le pause tra un pezzo e l’altro) pare che i With The Dead stiano suonando un unico e lunghissimo brano, senza sfumature diverse tra una traccia e l’altra che alla fine sa di monotono. Suoni, luci e performance sono state tutte di alto livello professionale, ma alla fine dei conti, tra tutti i concerti della giornata, quello dei With The Dead si posiziona più o meno a metà classifica.
(Andrea Raffaldini)
PENTAGRAM
Sono le 22:40 di venerdì quando le luci si affievoliscono ed i Pentagram entrano on stage. Bobby Liebling fa la sua comparsa vestito da figlio dei fiori degli anni Settanta e con un aspetto sempre più spettrale ed inquietante. La band non perde tempo ed inizia a sciorinare i suoi classici: “Death Row”, “All your Sins” e “Sign Of The Wolf (Pentagram)” scatenano l’esaltazione nel Main Stage, questa volta pieno zeppo quasi da scoppiare. Liebling si prodiga in pose ammiccanti e non manca di fare il piacione con le ragazze del pubblico, ma la vera colonna portante di questo show risponde al nome di Victor Griffin. Questa montagna di muscoli tira fuori vera magia dalla sua chitarra, solida in fase ritmica e concreta durante gli assoli, mai troppo tecnici, ma pieni di gusto, perfetti per le canzoni del malefico pentagramma. L’infernale spettacolo prosegue con cavalli di battaglia del calibro di “Forever My Queen” e “Dead Bury Dead”; Bobby Liebling non riesce a star fermo sul palco, la sua figura esile sembra più volte sul punto di spezzarsi, invece la forza di questo cantante è fuori dal comune. I presenti gradiscono molto lo show, tra le prime file vicino alla nostra postazione una nutrita schiera di presenti si lascia trascinare dalla musica, cantando e lanciandosi in brevi momenti di headbanging. Anche la resa sonora è ottimale: l’allargamento del Main Stage ed il nuovo impianto sonoro svolgono alla perfezione il loro dovere e ci permettono di assistere ad uno show tecnicamente ineccepibile. “Dying World”, “Relentless” e “Last Day Here” proseguono lo spettacolo dell’heavy doom dei Pentagram fino alla fine del concerto, quando nel punto massimo di climax emozionale il buon Bobby si butta a terra, mentre “Minnesota” Pete Campbell arriva a sfasciare il suo strumento, insieme a Victor Griffin che scaglia un tom pericolosamente vicino a Liebling, che, ancora steso sul pavimento, si affretta ad alzarsi. Un grande concerto per una band che sembra non sentire il peso degli anni.
(Andrea Raffaldini)
DARK BUDDHA RISING
Accettiamo la sfida di seguire il concerto dei doom metaller Dark Buddha Rising e non ce ne pentiamo. O meglio, la nostra psiche dopo circa venti minuti inizia ad implorare pietà, schiacciata dalla assurda gravità e dagli umori lisergici della proposta dei finlandesi, ma al Roadburn è giusto sperimentare, lasciarsi andare e diventare tuttuno con la band che si sta esibendo. “Un oblio psichedelico senza fine”: così abbiamo descritto il sound dei Dark Buddha Rising in una vecchia recensione; una immagine che troviamo perfettamente calzante anche per questo show-maratona, nel quale pubblico e musicisti sembrano abbandonarsi e perdere ogni contatto con la realtà. Qualcuno certamente si sta facendo aiutare da qualche sostanza di dubbia origine, altri sono semplicemente rapiti dalle frequenze, dai lamenti e dai rumori che fluttuano nell’aria… resta il fatto che, tutto ad un tratto, vediamo il frontman crollare e contorcersi sul palco, quasi in preda a degli spasimi, mentre nella platea gli sguardi sono a dir poco allucinati. Tutto normale, tutto già visto in anni di Roadburn, anche se sulle prime certe situazioni fanno sempre un po’ impressione. Chiudiamo gli occhi e ci godiamo le vibrazioni sino alla fine. Anche oggi abbiamo consumato la nostra dose di suoni acidi ed alieni.
(Luca Pessina)
ULFSMESSA
Terminato il concerto dei Dark Buddha Rising, viene presa la decisione di restare all’interno del Patronaat per non rischiare di perdersi l’imminente Ulfsmessa, sorta di show-rituale che vedrà protagonista un collettivo composto da alcuni membri delle black metal band Misþyrming, Naðra, NYIÞ e Grafir. Si tratta della prima volta che un simile evento ha luogo al di fuori dei confini islandesi e la curiosità che si respira attorno ad esso è notevole. La fila fuori dal locale è enorme e, visto l’hype che ultimamente avvolge i Misþyrming (“artist in residence” proprio a questo Roadburn, con altri due show “singoli” in cartellone), è raccomandabile non avventurarsi altrove, nonostante manchi ancora più di mezzora all’inizio del rito. L’attesa, comunque, viene ripagata da uno spettacolo assolutamente sui generis, che di certo rimarrà a lungo nella memoria di molti presenti. Introdotti da tamburi e dal gemito penetrante e stranamente agghiacciante di una tromba – oltre che da una cerimonia che prevede rintocchi di campane, un calice passato lungo la prima fila, ossa frantumate e candele accese – i musicisti rapiscono l’audience per quasi un’ora e mezza, alternandosi sul palco con fredda regolarità, ora allestendo arie post-punk, ora lasciandosi andare a scariche di black metal accecante. Ignote le identità dei membri del collettivo, dato che il capo di ognuno è avvolto da un drappo nero, ma siamo piuttosto sicuri che le parti più violente e sfrenate siano responsabilità dei Misþyrming, mentre agli altri componenti spettino quelle più marziali e ambigue. È uno spettacolo crudo, ma al contempo altamente affascinante quello messo in atto da questi islandesi, che, a dispetto della giovane età, denotano una personalità e una visionarietà fuori dal comune. Non vi è nulla di pretenzioso o inconcludente in questa “messa”: le pause, gli sbalzi di umore e le riprese sembrano essere state studiate con estrema cura, mentre a livello visivo è ancora più difficile non restare meravigliati, visto che queste figure incappucciate arrivano persino a mischiarsi con il pubblico nel finale, inscenando una sorta di cerimoniale di congedo che prevede la creazione di un corridoio fra la folla. Insomma, se l’obiettivo dell’Ulfsmessa era stupire ed emozionare, si può dire che la collaborazione abbia davvero dato ottimi frutti.
(Luca Pessina)
TAU CROSS
Supergruppo è una definizione abusata, ma non certo in questo caso: Rob Miller e Michel “Away” Langevin, con le loro rispettive band, hanno scritto pagine memorabili e senza le quali metà delle realtà presenti in questi giorni qui a Tilburg nemmeno esisterebbero; sarebbe superfluo dire che parliamo di Amebix e Voivod, con l’aggiunta di ex membri del combo crust dei Misery, ma citarli è utile per sottolineare come quest’eredità ci sia, ma tanto su disco quanto, strepitosamente, dal vivo i Tau Cross riescano a essere altro rispetto alle due band di partenza, e in maniera mirabile. Rob, lasciate le incombenze al basso a un turnista, sale sul palco con maschera e mantello rendendo subite chiare le intenzioni: questo è un sabba, o meglio un’adunanza. Sì, il termine usato dai Killing Joke per i loro concerti risulta perfetto, perché l’ombra dei quattro post-punk londinesi è fortissima; per l’intera ora di durata del concerto, durante la quale il combo anglo-canadese-americano sciorina l’intero e omonimo album di debutto, le ritmiche tribali di batteria sostengono i riff circolari e ipnotici delle chitarre e si intrecciano con un basso pulsante di pura scuola crust/d-beat; e su tutto la fa da padrone The Baron Miller, che, come un folle Maestro di Cerimonia (à la Jaz Coleman, appunto), ci trascina agli inferi con una voce roca, gracchiante ma straordinariamente ammaliante al tempo stesso. Per chi vi scrive, forse perché non era scontata una simile prova, il miglior concerto visto sul Main Stage.
(Simone Vavalà)
ADMIRAL SIR CLOUDESLEY SHOVELL
Gli Admiral Sir Cloudesley Shovell si presentano sul palco dell’Het Patronaat con il loro caratteristico look a metà tra hippie e rocker anni Settanta. Bastano pochi secondi della loro musica, un hard rock/metal di stampo profondamente psichedelico, per gasare il pubblico. La batteria scandisce le ritmiche a suon di cannonate pesanti e precise, mentre la band snocciola in serie “Tired And Wired”, “Wrong” e “I’m Moving”. Johnny Gorilla si conquista il ruolo di indiscusso show-man di questo concerto breve ma intenso, grazie al suo carisma ed a una prova vocale sugli scudi. Si continua a pestare forte sul pedale dell’acceleratore, le parti psichedeliche mandano in pappa il cervello, ma la botta è positiva e allegra. Con “Got Wot Indeed” e “Red Admiral Black Sunrise” gli Admiral Sir Cloudesley Shovell si congedano ottenendo grandi applausi e dimostrandosi una delle band più energiche dell’intero festival.
(Andrea Raffaldini)
DEAD TO A DYING WORLD
Non è semplice riproporre in concerto brani lunghi e ricchi di sfaccettature, ma i Dead To A Dying World a quanto pare sono anche una live band preparatissima. Gli statunitensi giungono al Roadburn in punta di piedi – si può dire che siano altre le band davvero attese nel cartellone – ma l’ultimo “Litany” resta una piccola perla e gli appassionati di black, doom e crust hardcore presenti al festival non si fanno evidentemente scappare l’opportunità di saggiare il valore del gruppo in questa sede. Subito veniamo colpiti dalla nitidezza dei suoni (il violino riesce ad emergere senza alcuna fatica), ma è soprattutto il sentimento che sembra animare la formazione ciò che ci porta a non distogliere lo sguardo dal palco della Green Room. Mike Yeager e Heidi Moore si inginocchiano quando non devono cantare, lasciando spazio al resto dei musicisti ma contribuendo anche a creare un’atmosfera di raccoglimento che si sposa alla perfezione con le tematiche e le arie delle composizioni. A volte i Nostri ci ricordano gli Agalloch, mentre in altri momenti la memoria va ai vecchi Fall Of Efrafa, band che sul palco riusciva davvero a dare il meglio di sè stessa. Possiamo forse fare lo stesso discorso per i Dead To A Dying World, realtà che su disco può a tratti apparire un po’ prolissa, ma che in concerto riesce ad acquistare sia crudezza, sia ulteriore sensibilità. La folla si spella le mani davanti a questi musicisti e tutti sembrano convenire sul fatto che lo show in atto sia una delle maggiori sorprese di questo sabato del Roadburn.
(Luca Pessina)
AMENRA
Se mai ci fossero stati dei dubbi sull’eccezionalità della band belga, questi vengono cancellati in questi due giorni di show, nei quali viene presentata una band che riesce ad offrire un monotonico e chiaroscurale post-metal ripetitivo, ridondante, fatto dei medesimi tratti, crescendo e passaggi, pesante, incessante. Farne ben due serate, una acustica e una non. E lasciare tutti di sasso. In cerchio, come una seduta spiritica, o un rito spirituale, la serata acustica presenta il nuovo lavoro in questa chiave, dove si trovano, accanto ai capisaldi “Razoreater” e “Aorte”, anche delle pregevoli versioni di “Parabol” dei Tool, opportunamente coverizzata in un senso degno dell’originale e perfettamente in linea con lo show, e “Het Dorp” di Zjef Vanuytsel, a metà tra il canto lieto della malinconia e un’oppressione latente ed ineluttabile che permea le immagini di boschi e foreste della band di Gent. L’umilità presentata dai membri della band, soprattutto del suo frontman Colin (tutto il giorno presente allo stand del merchandise), va di pari passo con una rabbia furibonda e un meticoloso spirito critico che prende luogo nei lunghi passaggi dei brani dei vari “Mass” che nel corso degli anni hanno portato una piccola band a diventare una delle realtà più interessanti del settore. Merito di una classe e di uno spirito impeccabili, esaltanti, illuminanti. Anche in uno strato impermeabile di nero che avvolge il loro nome come un grande mantello e, allo stesso tempo, una bandiera. Una band che ha del contenuto in ogni riff, in ogni nota, in ogni urlo sgraziato, in ogni sussurro.
(Davide Romagnoli)
NEUROSIS
Per ogni fan dei Neurosis che si rispetti, quest’anno al Roadburn c’è solo manna dal cielo. Scott Kelly solista, Scott Kelly che presenta il suo gruppo nuovo Mirrors For The Psychic Warfare, Steve Von Till solista, Steve Von Till ospite dei Converge in “Blood Moon” e, naturalmente, la doppia data headliner di sabato e domenica, in occasione del tour trentennale della band. Nulla da invidiare quindi alle date di presentazione nella Bay Area o in qualsiasi altra situazione degli ultimi tempi: sintomo, questo, che i Neurosis qui sono di casa. La serata di sabato, vuoi per le aspettative che rendono l’aria rarefatta, diventa un tripudio di episodi colossali della discografia della band, presentati con voglia, spirito, muscoli, volumi, essenzialità. Se chiudere con “Through Silver In Blood” e “Stones From The Sky” vuol dire volere vincere facile, allora Von Till e soci fanno spuntare fuori perfino una delle versioni più esaltanti, tratta da un disco discusso come “Honour Found In Decay”, di “At The Well”, che sputa in faccia a molti gruppi post-rock di oggi. Come poi sorvolare sul recupero del repertorio di “Self-Taught Infection” e “Pain Of Mind”, mefitiche e oppressive, di “Times Of Grace”, “An Offering”, fino ad una magistrale cover dei Joy Division, “Day Of The Lords”. Pane al pane, vino al vino. I Neurosis sono la storia di un genere, l’emblema di cosa voglia dire suonare con una distorsione. Braccia spalancate accolgono il post-metal di Oakland al suo compleanno dei trenta. E non mancano di festeggiare anche di domenica, dove l’atmosfera (per l’effetto sorpresa, forse, o per la stanchezza del weekend intenso) e la prestazione calano però di un soffio. Alcuni problemi audio minano per qualche momento il proseguo del concerto, ma le oltre due ore di spettacolo non mancano di offrire le radici punk-hardcore spinte e ribelli di “Pollution” (da “Aberration”), “Blisters”, “Double-Edged Sword” e un’altra interessante e toccante versione di “No Rivers To Take Me Home” (dal magistrale “The Eye Of Every Storm”). C’è insomma un po’ di tutto, tanto materiale ripescato e tante chicche, forse trascurando qualcosa tra gli episodi più mirabili e conosciuti della band, ma evidentemente la celebrazione del trentennale è voluta avvenire in questo modo. E non si può che esserne fieri. Lunga vita.
(Davide Romagnoli)
BLOOD CEREMONY
A causa della sovrapposizione di orari tra i Blood Ceremony e lo show del trentennale dei Neurosis, riusciamo solo ad assistere all’ultima metà del concerto della band canadese. Innanzitutto il Patronaat riscontra una buona affluenza di persone che, nonostante il main event sia sul palco principale, preferisce ascoltarsi un concerto più intimo e suggestivo. Il doom atmosferico dei Blood Ceremony colpisce sempre, l’esecuzione di “Lord Of Misrule”, “The Eldritch Dark” e “The Magician” riesce ad arrivare direttamente nel cervello dei presenti per far loro vivere un allucinante viaggio mentale. Alia O’Brien, oltre che colpire per la sua sinistra bellezza, non lesina energie per coinvolgere e caricare i ragazzi, inoltre la sua performance vocale viene promossa a pieni voti. “Hymn To Pan” conclude un ottimo spettacolo, penalizzato purtroppo dallo sfortunato orario che l’organizzazione del Roadburn ha riservato ai canadesi, come già accennato in concomitanza con l’evento Neurosis in atto sul Main Stage.
(Andrea Raffaldini)
GENTLEMANS PISTOLS
Un po’ di sano hard rock non guarda mai, specialmente se suonato da una delle band inglesi più interessanti, a giudizio di chi scrive, di questi anni. Grandi ovazioni dal pubblico quando sul palco della Green Room appare il chitarrista Bill Steer, già ascia dei Carcass, nonchè musicista molto stimato nella scena. I Gentlemans Pistols nel poco tempo a disposizione sfoderano tutte le hit del loro repertorio, da “Confortably Crazy” a “Widow Maker” ed ancora “Devil’s Advocate On Call”. La venue risulta troppo piccola per contenere tutti i fan della formazione inglese, tanto che si forma una lunga fila anche oltre la porta d’uscita. Grande tripudio per la dirompente “Some Girls Don’t Know What’s Good For Them”, su cui si staglia la voce secca ed energica di James Atkinson; peccato per i volumi non sempre ottimali che impediscono al singer di ottenere una degna resa sonora del suo operato. A onor di cronaca, Bill Steer ha suonato bene, ma non in modo eccelso: in diversi momenti qualche lieve “scazzo” in ambito solista non è mancato. D’altronde la musica di una band come i Gentlemans Pistols come punto di forza non cerca la precisione chirurgica: l’impatto dal vivo ed il groove sono tutto ciò che conta. E, per quanto riguarda il concerto in questione, il groove proprio non è mancato!
(Andrea Raffaldini)