Introduzione di Davide Romagnoli
Report a cura di Davide Romagnoli, Simone Vavalà e Luca Pessina
Mecca per gli appassionati di certe sonorità più sperimentali ed eclettiche, il Roadburn festival, anche quest’anno e come gli anni scorsi, regala una certa dose di soddisfazione, entusiasmo e appagamento a tutti i partecipanti dell’evento, in maniera decisamente più ampia di moltissimi degli altri eventi concorrenti in questo ambito di gusto. Abbiamo già avuto modo di elogiare l’assetto di marketing e comunicazione, insieme ai caratteri di trasparenza dell’organizzazione, così come abbiamo avuto modo di criticare l’eccessivo numero di biglietti venduti l’anno scorso, con la conseguente mole di code e impossibilità di riuscire a vedersi talune band, e bisogna ammettere che anche l’edizione 2017 è proseguita su questi canoni. Molte sono state infatti le situazioni in cui non è stato possibile a molti entrare all’Extase, o al Cul De Sac, venue più piccole ma che ospitavano vere e proprie chicche presenti nel bill dell’evento, o addirittura alla Green Room e all’Het Patronaat. In quest’ultima venue è stato infatti quasi impossibile arrivare a vedersi lo show di Zeal & Ardor e Inter Arma, per citarne alcuni dei più ambiti. Questo non può succedere in un festival di questo calibro, in cui naturalmente sono molte le sovrapposizioni di esibizioni di band per cui si è scelto di essere presenti. Un festival che regala così tante emozioni e che è stato sempre elogiato in ogni sua parte rischia di soffrire di un pesante senso di insofferenza per questa situazione e svilire quello che era invece un rapporto tranquillo e pacifico con orari, location e spostamenti, inserito nella splendida cornice cittadina di Tilburg e arricchito sempre di situazioni, attitudini e show intriganti e difficili da trovare altrove. Ciò detto, è altresì vero che la qualità delle performance e della line-up di quest’anno non tradisce la tradizione e regala veri e propri momenti memorabili e degni, forse, della sopportazione di certi problemi, come quelli appena sottolineati. Tra i momenti che ci sono sembrati più degni di nota e che abbiamo avuto modo di seguire in maniera più approfondita, vi rimandiamo alle righe successive, organizzate per giornate, per cercare di trasmettere un senso di circostanza e cronologia più adatto all’esperienza e alla relativa testimonianza che abbiamo cercato di dare in questa sede.
GIOVEDÌ 20 APRILE
Sbrigate le formalità pass/biglietto e alloggio, il primo show che riusciamo a seguire nella giornata di giovedì è quello dei LYCUS, una delle vere rivelazioni in campo death-doom dello scorso anno. Il loro secondo album “Chasms” ci ha presentato una formazione ormai pienamente matura e la dimensione live fortunatamente non ridimensiona affatto lo status dei ragazzi di Oakland, i quali sembrano decisamente a loro agio sulle assi di un palco. Il piccolo Extase è il locale perfetto per una realtà di questa natura, legata all’underground sia nei suoni che nell’attitudine; davanti ad un pubblico di soli fan, che si stringono attorno ai musicisti con il tipico entusiasmo da giornata inaugurale del festival, la band flirta con death, doom, funeral e black metal, destando continua curiosità nello svolgimento delle canzoni, vuoi per le strutture poco ortodosse, vuoi per la scelta di affidare buona parte del growling al giovane batterista Trevor Deschryver, sorta di Chris Reifert in erba. Il set dura appena mezzora, meno del previsto; se l’obiettivo era quello di congedarsi lasciando fra gli astanti una gran voglia di rivedere il gruppo dal vivo, l’obiettivo dei Lycus può dirsi pienamente raggiunto (Luca Pessina). Per molti l’introduzione al festival è invece data dalla performance dei CRIPPLE BLACK PHOENIX. In tour promozionale per l’ultimo “Bronze”, la band di Justin Graeves regala momenti di rara bellezza musicale, prendendo a piene mani proprio dall’ultimo lavoro. Dopo un inizio un po’ smorto e sotto tono, in realtà, contraddistinto da una volontà di intimismo, probabilmente naturale, i britannici riescono a creare sulla lunga una progressione di brani capaci di fare arrivare i presenti alla catarsi finale. Il prog rock su cui innestano molta parte delle ultime sfaccettature della loro musica si tinge di una vena post-rock e laddove riesce a risultare opprimente viene anche inserito quel tocco doom rallentato che funge da altalena e bilancia perfetta per la tutta la performance. L’avant rock tinto di malinconia di “Bronze” sembra ormai ben lontano da “A Love Of Shared Disaster” del 2007, e riesce pian piano ad insediarsi nella pelle degli astanti, già consci che se ne vedranno delle belle durante il resto della manifestazione (Davide Romagnoli). Grande attesa anche per gli ALARIC, che dopo un paio di release si pongono già come una delle realtà più promettenti del panorama “post” in senso lato; la loro miscela di new wave, alternative e sludge (del più melodico e cupo insieme) trova sicuramente un palco naturale in questo festival, e il pubblico si accalca infatti in buon numero sotto il palco della Green Room. La partenza non è delle migliori: la doppietta iniziale, costituita dalle ottime “Demon” e “Mirror,” non decolla, la voce di Shane Baker è decisamente sotto tono e anche la presenza scenica appare alquanto impacciata, tra mossette poco azzeccate e sguardi nel vuoto non molto evocativi. Sotto la guida della batteria tribale di Jason Wiler, però, la band sembra rimettersi in carreggiata, e quando si arriva alla title track del loro secondo (e finora ultimo) album, ossia “End Of Mirrors”, le cose vanno in un tutt’altro verso; i brani diventano trascinanti, evocativi, ricchi di atmosfera – esattamente come su album, e ci riportano indietro con piacere a certe sonorità Anni ’80, con la giusta furia aggiuntiva live. Peccato per un quarto iniziale di scarsa presa, che ha fatto allontanare diversi astanti, ma l’esibizione è stata complessivamente da promuovere (Simone Vavalà). Tornati nella sala grande, si assiste ad un’altra esibizione cardine della giornata di giovedi: i SUBROSA, con il primo set in programma per il festival. Band di passione e umiltà encomiabili (facilmente erano infatti presenti in mezzo alla folla per godersi i concerti durante quasi tutto il weekend), il quintetto di Salt Like City presenta in tutta la sua durata l’ultimo “For This We Fought The Battle Of Ages” che si era garantito più di un plauso in occasione della sua uscita nel 2016. Rebecca Vernon regala una grande prova, come di consueto, sia per intensità che per carisma dall’iniziale “Despair Is A Siren” alla magnifica “Troubled Cells” sul finale, aiutata da Sarah Pendleton e Kim Pack ai violini e alle voci e dai due compagni maschili Levi Hanna al basso e Andy Patterson dietro le pelli, con l’incursione di elementi aggiuntivi di tanto in tanto. Performance memorabile e conferma assoluta della qualità della band in sede live (Davide Romagnoli).
I black metaller VERWOED, sul minuscolo palco del Cul De Sac, riescono quindi a confermare le ottime impressioni lasciate dall’ascolto del loro EP di debutto “Bodemloos”. Partita come one mand band, questa realtà olandese ha di recente accolto dei musicisti per esibirsi live: ad accompagnare il frontman Erik B. infatti troviamo ora, fra gli altri, JB van der Wal (Herder, Aborted) e Michael Bertoldini (The Secret). La resa live della formazione va oltre le aspettative: il locale è gremito e il gruppo si getta a capofitto in una performance che regala momenti di pura brutalità così come una serie di finezze di matrice contemplativa che conferiscono ulteriore spessore alla proposta. Decisamente una band da seguire se si stravede per le forme più moderne di black metal (Luca Pessina). Spostandosi di nuovo nella Green Room di fianco al palco principale, riusciamo a lasciarci coinvolgere dalle trame pesantissime degli UNEARTHLY TRANCE, autori di uno degli album sludge più convincenti dell’anno in corso come “Stalking The Ghost”. Il trio newyorkese assedia il palco della Green Room e offre il suo contributo al genere in maniera perfettamente degna del lavoro in studio, capace sì di riproporre le medesime tonalità di genere e andamento ma condendolo con una verve e delle soluzioni che meritano ben ampia considerazione (Davide Romagnoli). E’ ora tempo di grandi nomi. I WOLVES IN THE THRONE ROOM sono forse la band-simbolo dell’ultimo decennio del Roadburn Festival: difficile non pensare all’enigmatica realtà statunitense quando si pensa al tipico “gruppo da Roadburn”, ovvero ad una band dal seguito trasversale e da sempre capace di coniugare con eleganza misticismo e cattiveria. Da quando l’evento olandese si è aperto a sonorità più estreme, i Wolves In The Throne Room sono diventati uno dei gruppi di casa e, come previsto, il loro ritorno allo 013 viene celebrato da un’affluenza massiccia e da un entusiasmo quasi palpabile, sia fra le prime file, che sulle gradinate. Anzichè optare per una scaletta variegata, Nathan Weaver e compagni decidono di andare sul sicuro, incentrando buona parte dello show sul loro capolavoro “Two Hunters”. Il quartetto stende la platea con la sola opener “Dea Artio” e da lì assistiamo ad una vera e propria marcia trionfale sulle note di “Vastness and Sorrow”, “Queen of the Borrowed Light”, “Prayer of Transformation” e “I Will Lay Down My Bones Among the Rocks and Roots”. Rispetto alle sue prime esibizioni live, la band ha fatto passi da gigante in coesione e impatto, dando oggi prova di avere a cuore anche aspetti un tempo considerati di contorno come suoni e luci; di certo quello odierno è lo spettacolo più professionale mai offerto dai WITTR da queste parti. I black metaller statunitensi mettono da parte la loro consueta riservatezza e letteralmente dominano il palco, accettando una volta per tutte il ruolo di leader del loro movimento (Luca Pessina).
Sullo stesso palco, è quindi il turno della prima esibizione in Europa per una band che definire seminale è poco: i COVEN. Aspettative alte? Difficile essere oggettivi, a riguardo. È piuttosto evidente come, a parte i cultori assoluti della band di Jinx, per molti prevalga la curiosità di vedere uno spettacolo più unico che raro, capire cosa abbiano da offrire dopo quasi quarant’anni di carriera e, ammettiamolo, mettere una bandierina di presenza sotto questo palco. Tutto inizia come da copione, con una bara verticale al centro del palco, portata da due ragazzi evidentemente impacciati coperti da una tunica, e non ci vuole molto a capire chi si nasconda lì dentro; sullo sfondo, l’infame poster che accompagnava il loro primo disco – con la band in abiti rituali e la cantante sdraiata come una vittima sacrificale – è immerso nelle fiamme dell’inferno, e vengono salmodiati i nomi di demoni e diavoli con la registrazione di quella “Satanic Mass” che chiudeva il loro album d’esordio; intanto il resto della band, anch’essi incappucciati, prende posto e… ecco che inizia il rituale. Un rituale molto annacquato e, francamente, di scarsa potenza; i musicisti sembrano compiere il loro mestiere senza troppo entusiasmo, e anzi con una certa ruggine, per tutta l’esibizione; la sacerdotessa Jinx fa sicuramente del suo meglio e sa come tenere il palco, ma l’età (parliamo di una donna nella settantina) e il sound di altri tempi si fanno sentire. Ecco, forse tutto si riassume in questo: è noto come, escludendo forse l’ultimo “Metal Goth Queen”, dove fanno capolino sonorità più heavy, il loro capolavoro “Witchcraft Destroys Minds & Reaps Souls” e gli altri due album del periodo classico, da cui la band attinge per questa esibizione, fossero di fondo lavori di rock psichedelico venato di tematiche occulte; e i segni dell’invecchiamento, sommati a una band chiaramente poco rodata dal vivo, si fanno sentire parecchio. Un evento, sicuramente, ma di scarsa rilevanza musicale, detto francamente (Simone Vavalà). Un’altra posizione d’onore sul palco principale viene assegnata ai DEAFHEAVEN, il quintetto (almeno in sede live) californiano, che col suo mix di black metal e shoegaze farà pur storcere qualche naso, ma si è garantito un seguito di tutto rispetto. Anche questa sera confermano come tale attenzione sia più che meritata, visto che il loro mix di aggressività ed emotività, caratterizzato dal contrasto tra le atmosferiche chitarre e gli strilli alle soglie del DSBM di George Clarke, funziona e trascina; le loro canzoni, già parecchio dilatate, risultano in sede live vere e proprie suite che si insinuano sotto pelle, e colpisce nella scaletta, equamente divisa tra i loro tre album, l’aggiunta di una cover dei Mogwai (“Cody”) che, va detto, rientra benissimo nelle corde della band. Il frontman, un tempo piuttosto statico, pare aver superato ormai le sue timidezze: simile a un direttore d’orchestra folle, sembra guidare la band con i suoi movimenti convulsi e scenografici, o più spesso, dà semplicemente vita a sipari che strapperebbero risate a scena aperta, se non finissero per essere un perfetto contrappunto della loro proposta musicale: un viaggio nella psiche reso anche fisicamente. L’apice viene sicuramente toccato durante “Dream House”, pezzo di apertura del capolavoro “Sunbather”, e perfetta espressione del post-black metal di cui i Deafheaven sono meritevoli capofila (Simone Vavalà).
In chiusura di serata non si può mancare all’appuntamento con il black metal bizantino dei BATUSHKA, nella perfetta cornice dell’Het Patronaat, stracolmo di affluenza per uno degli eventi più sentiti dell’intero festival; segno, questo, del successo della band . Se molte possono ancora le situazioni in cui la band può non eccellere per eccessiva morbidezza o mancanza d’atmosfera, sicuramente non è il caso della performance della mezzanotte di Giovedi. I canti oscuri di “Litourgya” vengono trasposti dai polacchi con solennità e fermezza, più che mera malignità, degni della migliore tradizione performativa black metal sacrale di Roadburn (ricordiamo Ulfmessa solo l’anno scorso), inscindibile con una certa estetica, e riescono a coinvolgere in un emozionante rituale i moltissimi presenti nella chiesa sconsacrata di Tilburg, tinta di incenso e candele (Davide Romagnoli). Chiudiamo quindi per davvero con i BONGZILLA. Benvenuta ignoranza, parola che nel gergo del Roadburn rappresenta un meritatissimo complimento: quella capacità di travolgere il pubblico con brutalità, semplicità e menefreghismo che, tutto sommato, potrebbe essere il riassunto per il grande pubblico di cosa sia lo stoner/sludge, genere che ancora rappresenta il fulcro di questo festival. E quale band può esprimere meglio tutto questo dei Bongzilla di Michael “Muleboy” Makela? Ritornati da un paio d’anni in attività, i quattro hillbilly, sempre loro dalla fondazione, stasera offrono uno spettacolo speciale, riproponendo per intero il loro classico “Gateway”, che compirà a breve quindici anni; non che il resto della loro produzione si differenzi in maniera mostruosa dal riffing grasso e sporco che caratterizza gli otto capitoli di questa discesa nei meandri della dopamina, ma resta il fatto che non c’è un brano debole, in quello che è stato, forse, la versione più fattona e grezza del mitico “Dopesmoker” degli Sleep… ed è tutto dire. La band tiene il palco ottimamente, Mike, di cui vediamo gli occhi arrossati anche da ottanta metri di distanza, intrattiene con chiacchiere biascicate e divertenti il pubblico, mentre il basso ultradistorto e la batteria offrono il perfetto contraltare ritmico a un immaginario bong che passa di mano in mano fra il pubblico; finale affidato, ovviamente, a “Hashdealer” con il palco immerso in luci verdi dall’evidente richiamo a una nota foglia. Hail The Leaf, e addio timpani (Simone Vavalà).
VENERDÌ 20 APRILE
Il venerdì per noi inizia con gli SCHAMMASCH, chiamati al difficilissimo compito di eseguire live il loro ultimo “Triangle” per intero. I death-black metaller svizzeri sono finalmente riusciti ad emergere dall’underground e lo spettacolo del Roadburn è la cosiddetta ciliegina sulla torta in un anno ricco di soddisfazioni. I concerti tenuti di supporto a Inquisition e Rotting Christ lo scorso autunno avevano in verità lasciato qualche dubbio sull’abilità in sede live della formazione elvetica, ma oggi la band appare più affiatata e attenta ai dettagli rispetto a qualche mese fa. Di certo lo show è stato preparato accuratamente dal frontman C.S.R, protagonista di una prova convincente sia al microfono che alla chitarra. Non comprendiamo l’esigenza di parlare alla folla nel corso di un concerto che dovrebbe essere denso e solenne come un movimento di musica classica, ma apprezziamo la coesione dei Nostri, che riescono ad interpretare con fedeltà sia i pezzi più aggressivi che le parentesi più ambigue del suddetto triplo album. Oltre novanta minuti di show sono tanti e non tutti gli astanti hanno il tempo o la pazienza di gustarseli in toto, ma il colpo d’occhio all’interno del Patronaat è di quelli notevoli. Ci auguriamo che questo concerto possa rappresentare una ennesima iniezione di fiducia in questa band forse ancora troppo sottovalutata (Luca Pessina). Allo 013 grande chicca della giornata è quindi riservata ad una delle formazioni culto del progressive rock mondiale: i francesi MAGMA, nati nel 1969 a Parigi e tutt’ora in circolazione. Dopo la performance osannata del 2014 la band francese riesce ancora a stupire per un’altro anno e regala un’ora di miracoloso tripudio musicale, datato, ma che riesce a risultare ancora oggi capace di stare ben al di sopra di moltissimi degli standard di genere. L’avventura sonora, e non solo narrativa (ricordando il linguaggio Kobaiano, inventato dal leader Vander), si infittisce di influenze kraut rock, divagazioni free jazz à la Coltrane e Frank Zappa, momenti di rarefazione e escandescenze di soli (Davide Romagnoli). All’interno del Patronaat, dopo gli Schammasch, si resta su registri tesi e bellicosi con l’arrivo degli ZHRINE, una delle realtà più attive della moderna e sempre più chiacchierata scena islandese. Il debut album “Unortheta” ha presentato ufficialmente una band capace di arrivare su livelli simili a quelli di punti di riferimento come Svartidauði, Gorguts e Ulcerate e lo show di oggi fa tutto fuorchè farci cambiare idea. Sorprende un po’ il look dei ragazzi, che con camicie ben stirate e una generale eleganza arrivano a ricordare vagamente i Deafheaven, ma nessuno osa fare del sarcasmo quando le note di brani come “Utopian Warfare” o “Spewing Gloom” si diffondono per la sala. Tra riff affilatissimi, dissonanze assassine e momenti di suspense in cui i Nostri giocano con arpeggi dalla grana fine, la platea viene messa KO senza alcuna possibilità di replica. Si respira una tensione che abbiamo avuto modo di saggiare solo durante gli show dei maestri citati poco fa, ma constatiamo anche una sicurezza e una consapevolezza dei propri mezzi di certo non comuni per una formazione tanto giovane e che, a conti fatti, sta ancora completando il ciclo promozionale del suo primo album. Dopo questa performance non vediamo l’ora di avere fra le mani del nuovo materiale targato Zhrine (Luca Pessina).
Nella sala grande dello 013 tocca ora agli OATHBREAKER, che, lontani dal sensazionalismo musicale dei Magma, riescono ad inquadrarsi in ciò che esattamente ci si può aspettare da loro dopo aver ascoltato “Rheia” e aver avuto modo di constatare l’abilità in sede live della band di Gent. Wim Coppers dietro le pelli (anche nei Supergenius e Wiegedood) e soprattutto Caro Tanghe, nascosta dai suoi capelli, riesce a donare al quintetto belga quel quid in più e trasformare quello che potrebbe essere un post metal canonico in un qualcosa di più sentito, emozionante ed efficace (Davide Romagnoli). Il festival delle stranezze prosegue quindi sul Patronaat. “Not for Music”, ma, evidentemente, anche “Not for Everyone”. La proposta degli EMPTINESS diventa di anno in anno sempre più sfuggente e, a quanto pare, non molti ascoltatori hanno oggi la voglia e la pazienza di seguire le evoluzioni in chiave dark wave, post punk e ambient della band belga. Il Patronaat è pieno solo per metà nel corso dell’esibizione del combo di Bruxelles, il quale, per la verità, non dà mai l’impressione di essere preoccupato di ciò che sta avvenendo nello spazio antistante al palco. Il gruppo suona per sè stesso e tale attitudine aggiunge un ulteriore alone di freddezza e ostilità alla performance. L’ultimo album viene eseguito quasi per intero, mentre due episodi da “Nothing but the Whole” trovano spazio a circa metà scaletta, quasi per concedere una pausa agli astanti dalla massa di suoni aridi e alienanti e dalle strutture frastagliate su cui si basa il succitato “Not for Music”. Di certo non è più il caso di definire gli Emptiness una death metal band, ma lo show del Roadburn testimonia come i Nostri siano comunque una delle band più ostili e “difficili” in circolazione (Luca Pessina). La Green Room risulta invece a dir poco gremita per i nostri connazionali ZU. C’è francamente molta curiosità circa la loro esibizione; l’ultimo loro lavoro, “Jhator”, ha infatti rappresentato un bel salto musicale, verso una rarefazione notevole e un approccio quasi krautrock, ma basta vedere Luca Mai salire sul palco con il suo sassofono per capire che assisteremo a un “normale” concerto degli ZU. Le virgolette sono d’obbligo, chiaramente, perché le ritmiche asimmetriche e le violente bordate di sax e di basso offerte dal trio romano sono, come sempre, imperscrutabili e in grado di lasciare a bocca aperta; viene offerto quasi per intero il penultimo lavoro, ossia l’aggressivo “Cortar Todo”, e la formula pare essere graditissima dal pubblico: le ritmiche scandite da Tomas Järmyr, ormai in pianta stabile dietro le pelli, fanno scuotere la testa a quasi tutti i presenti, e i circa cinquanta minuti del loro concerto volano letteralmente via; lasciandoci felicemente con le orecchie sanguinanti (Simone Vavalà).
Per chi ha ancora in testa l’esibizione del giorno precedente del gruppo di Salt Lake City, i SUBROSA offrono poi un secondo round in versione “Subdued”, semi-acustica, nella cornice dell’Het Patronaat, in cui ad emergere sono proprio le sezioni degli archi. Una prospettiva diversa dalla precedente ma ancora in grado di confermare, e addirittura di amplificare, la portata di questa straordinaria formazione in sede live (Davide Romagnoli). In perfetto orario anche quest’anno, anche se annunciati all’ultimo, nello 013 ecco arrivare la colata di distorsioni targata AMENRA. I belgi presentano uno show molto simile a quello offerto l’anno scorso, con le medesime tonalità visive e musicali plumbee e decadenti, questa volta con un Colin H. van Eeckhout mezzo-zoppo ma trascinante come al solito in tutto e per tutto. Menzione particolare per “Nowena 9.10”, suonata con Scott Kelly e John Baizley dei Baroness sul finale, impetuosa cascata di post metal preso sul serio, con le medesime reminescenze religiose che fanno a capo alla Church Of Ra. Band devastante dal vivo, tra le migliori in circolazione tra le line-up di festival come questo (Davide Romagnoli). La vicina Green Room accoglie invece i possenti WHORES.. Per questa formazione parliamo di un mix forse datato, fatto in parti uguali di Helmet e Prong, nei loro gloriosi primi anni Novanta; ma sicuramente il risultato funziona, e alla grande. Aggiungete quell’amabile approccio redneck made in Georgia, e avrete ii quadro completo: quello gettato sul pubblico dagli Whores. è un concentrato di groove, ritmiche forsennate e accattivanti e un approccio a tratti punk che trascina per cinquanta minuti e fa scuotere ben bene la testa. Il power trio capitanato da Christian Lembach concentra l’esibizione sui brani immediati del recente “Gold”, primo full length dopo oltre cinque anni di attività che hanno fruttato una manciata di singoli ed EP e, soprattutto, l’attenzione della critica. E la loro presenza in questa sede, premiata da un buon numero di presenti, è sicuramente meritata (Simone Vavalà). Dopo una lunga serie di esibizioni dalla natura ambigua e destabilizzante, nel Patronaat si torna a del sano metallo con l’arrivo dei NAÐRA, una delle band più dirette della cosiddetta “New Wave of Icelandic Black Metal” di cui si parla tanto da un paio di anni a questa parte. Ad eccezione del frontman, l’intera line-up del gruppo è costituita da membri dei più affermati Misþyrming; sotto questo moniker, tuttavia, i Nostri lasciano da parte le dissonanze e tutte le trame più evasive per concentrarsi su un black metal sì teso, ma dall’indole più finemente epica e tradizionale. Una proposta magari non rivoluzionaria, ma che la band interpreta con quel vigore e quella innata vitalità ormai diventati alcuni dei principali marchi di fabbrica della suddetta scena nordica. Dopo diverse ore trascorse a decifrare i suoni più bizzarri e stranianti, fa piacere limitarsi a scapocciare e ad alzare le corna al cielo sulle note dei pezzi di “Allir Vegir Til Glötunar” (Luca Pessina).
Piccola ma intrigante situazione è quella concessa dalla performance dei post metaller TELEPATHY al Cul De Sac di Tilburg. “Tempest” è la loro ultima fatica e non c’è dubbio valga la pena essere trasportati dai suoi fiumi d’atmosfere rarefatte e caustiche anche in sede live. I britannici sanno come creare qualcosa che può esulare dal mero standard e offrirsi in tutta la loro onestà e passione per queste sonorità (Davide Romagnoli). Gli INTEGRITY chiudono invece il programma nella sala principale dello 013 con un set crudo e basilare, come da loro tradizione. La seminale hardcore-metal band statunitense gioca evidentemente fuori casa, davanti ad un pubblico pieno di semplici curiosi e su un palco forse troppo grande per le sue esigenze, ma il concerto, pur senza fare registrare quel pogo e quegli stage dive tipici dei set hardcore, ha comunque i suoi ottimi momenti, soprattutto all’altezza di classici come “Micha: Those Who Fear Tomorrow”, “Abraxas Annihilation” e hit più recenti come “To Die For” e “Suicide Black Snake”. Se l’età sta chiaramente influendo sulla longevità e la potenza della voce di Dwid Hellion, va d’altro canto segnalata la notevole coesione della nuova (e giovane) line-up del gruppo, ora capitanata dall’ex chitarrista dei compianti Pulling Teeth Dom Romeo. A quest’ultimo è stata affidata la stesura dell’imminente nuovo album – in uscita su Relapse Records – e la curiosità attorno a questo ennesimo come-back è oggi più alta che mai (Luca Pessina). Nel Patronaat è infine tutto pronto per l’arrivo del fenomeno PERTURBATOR. Benvenuti alla dance hall del Roadburn, quest’anno in grande spolvero come non mai, visto che nei giorni a seguire troveremo a intrattenere il pubblico anche Carpenter Brut a colpi di beat e techno o il brutale duo EBM noto come Youth Code, tra gli altri. La proposta musicale di James Kent è una dark wave elettronica figlia dell’amore per gli anni ’80, per le colonne sonore horror e, abbastanza prevedibilmente, per il passato metal dello stesso Kent, che ha suonato la chitarra in diverse band black prima di approdare ai lidi del laptop; ecco, va detto come – al di là dell’hype che permea il nome di Perturbator ultimamente – se una esibizione così statica e meccanica fosse stata nel pomeriggio, difficilmente avremmo visto il Patronaat così pieno; ma complice la conclusione di serata e il desiderio di un chill-out di qualità, i suoi lunghi brani fanno divertire e ballare i tantissimi presenti con cadenze che spesso ricordano il Chu Ishikawa di Tetsuo, con ritmiche frenetiche, sferzate vagamente industrial e tanto gusto, semplicemente… tamarro. È puramente elettronica per metallari, facilotta ed esaltante? Confessiamo di aver perso da tempo contatto con tale mondo, ma la sensazione è che, di fondo, poco importa: funziona, trascina e sfora serenamente l’ora e venti a disposizione, portandoci a lasciare il locale alle due e mezza passate del mattino. Giusto in tempo per una birra della staffa al Little Devil, l’unico pub aperto fuori orario a Tilburg, perfetto per gli instancabili o i pazzi (Simone Vavalà).
SABATO 22 APRILE
Forse non un modo per iniziare la giornata con il mood più elettrizzante, ma la performance di THE BUG insieme a DYLAN CARLSON era uno degli eventi più esclusivi del festival. In realtà non è che i noise di Bug abbiano creato qualcosa di particolarmente affascinante o esclusivo, nemmeno se accoppiati a quelli del leader degli Earth. Difficile, però, non rendere merito a coloro che in ogni caso riescono a creare un qualcosa di originale e semi-improvvisato, con entrambe le loro identità forti e la capacità di integrarsi in un pastiche di chitarre ed elettronica annichilente da atmosfera post-apocalittica (Davide Romagnoli). I COBALT si presentano anch’essi in grande spolvero: nonostante siano rimasti orfani dello storico frontman Phil McSorley, il gruppo dà vita a un concerto dal tiro notevole, in cui non si registra il minimo calo di tensione. La sezione ritmica di Wunder e del mastodontico Jerome Marshall non sbaglia un colpo, e vomita un maglio d’acciaio sul pubblico, mentre la chitarra di Shane McCarthy ripropone alla grande il personalissimo equilibrio tra black metal e sludge, marchio di fabbrica della band; e, a proposito di sludge, la presenza scenica sofferente e a tratti teatrale del nuovo cantante Charlie Fell ha più di un elemento in comune con il mitico Mike Williams e i suoi Eyehategod. Già presente nell’ultimo album, “Slow Forever”, Fell ha impresso una nota di nichilismo in più che viene perfettamente resa dal vivo, e infatti metà del concerto si concentra proprio sui brani più recenti, anche se l’apice dell’esibizione si tocca su “Gin”, title-track dell’omonimo album, e allucinata restituzione di una sbronza dai risvolti omicidi, che le movenze folli e la varietà timbrica del frontman ci raccontano a meraviglia. Decisamente un’ottima conferma (Simone Vavalà). Con gli ORANSSI PAZUZU, nella sala principale, si continua quindi ad andare sul sicuro. Ad un anno di distanza e a qualche decina di metri più in là, quelli che vanno dall’Het Patronaat allo 013, li si ritrova con la stessa intensità e la stessa intensità psichedelica. La maggior parte dello show, con ben tre brani, è presa dall’ultimo “Värähtelijä”, in particolar modo le espressioni più eteree e sconfinate, come nella finale “Vasemman käden hierarkia”. Una band, questa, che si impone ormai come fondamentale nel panorama della musica estrema sperimentale (Davide Romagnoli). Tutt’altra pasta è rappresentata dal doom cantautorale di Patrick Walker che lascia da parte i 40 Watt Sun e riesuma i suoi vecchi WARNING. “Sometimes when I watch you, you seem like the same person that I once knew”: iniziava così l’album del 1994 “Watching From A Distance”, condito di atmosferee decadenti e maudit, contemplate dalla suadente voce di Walker e dalle linee ossessive e ripetitive della band. Seppur forse non più in grado di trasmettere tutto il pathos di quel momento storico e musicale, complice forse l’età o il poco tempo post-reunion, lo show degli inglesi cattura un certo spirito autentico che riesce ad offrire (insieme forse a Emma Ruth Rundle) un comparto intimo, lirico e cantautorale di sicuro valore per questa edizione di Roadburn (Davide Romagnoli).
È divenuto ormai superfluo ricordare come i MEMORIAM siano la band fondata da Karl Willetts dopo lo stop dei Bolt Thrower, e come i nomi coinvolti – ossia Andrew Whale, batterista originale degli stessi Bolt Thrower, e i due Benediction Frank Healy e Scott Fairfax (quest’ultimo, a dirla tutta, membro solo live del combo inglese) – siano sicuramente una garanzia di qualità. O, quanto meno, di buon mestiere. Esattamente come dopo l’ascolto del loro LP di esordio, “For The Fallen”, anche al termine della loro esibizione non si resta sicuramente delusi, ma la sensazione che si potesse fare di più, anche solo aspettando magari qualche mese per fare uscire l’album, o per rodarsi in vista dei live, è forte; a parte il grosso problema tecnico che fa andare e venire la chitarra per tutta la durata del concerto, e di fondo fa emergere solo le frequenze alte della batteria, è evidente come i quattro si divertano e ce la mettano tutta, e anzi quando la chitarra di Scott si sente, si nota l’ottima qualità del suo songwriting. Si sorvola abbastanza in fretta sui limiti che l’età impone, ormai, all’ugola di Willetts, e non ci si può certo aspettare il puro Bolt Thrower Sound da chi ha ceduto il posto al granitico, e compianto, Martin Kearns; i brani si susseguono senza cadute gravi, c’è spazio anche per la cover di “Spearhead” e, insomma, gli applausi – con qualche nota di commozione – si concedono senza problemi. Ma sicuramente più come omaggio alla mitica band di origine che non per un’esibizione gradevole, ma tutt’altro che indimenticabile (Simone Vavalà). Ben efficace, al contrario, la performance degli AHAB nella Green Room. Nautik Doom oceanico e pachidermico, suoni altissimi e dilanianti, atmoferee funeree, dinamiche ridotte all’osso. I tedeschi di Daniel Droste ripercorrono le derive di “The Call Of The Wretched Sea” del 2006 e lo fanno con la giusta intensità e le migliori coordinate per trovarsi, sì, immersi in una colata di lava oceanica, fitta e devastante (Davide Romagnoli). Si resta in ambienti doom spostandoci nella sala grande dello 013, dove ha luogo un evento imperdibile per tutti gli appassionati del caro vecchio gothic-doom di matrice britannica. I MY DYING BRIDE sono da sempre la live band migliore fra quelle della classica triade Peaceville Records; se poi gli storici doom metaller di Halifax decidono di suonare per intero il loro album più famoso, il risultato non può che essere clamoroso. Potremmo chiudere qui con il commento sull’esibizione dei britannici, chiamati ad esibirsi tra gli headliner della sala principale per uno spettacolo pensato sulla falsariga di quello tenuto un anno fa dagli amici Paradise Lost (chiamati a proporre “Gothic”). I My Dying Bride scelgono “Turn Loose The Swans” e la platea viene stesa con la sola “Sear Me MCMXCIII”, uno dei brani-simbolo dell’intera discografia del quintetto. Nulla da appuntare sulla performance dei Nostri, abituati a tenere show selezionatissimi e puntualmente perfetti nel ricreare on stage le atmosfere decadenti e quella unica miscela di tragedia e dolcezza che da sempre contraddistinguono il loro repertorio. Dalla tracklist ufficiale del disco viene esclusa “Black God”, ma il set viene comunque allungato con uno spettacolare trio di classici: l’originale “Sear Me”, “Your Shameful Winter” e la sempre strepitosa “The Cry of Mankind”. Da segnalare una prestazione sopra le righe di Aaron Stainthorpe, questa sera un filo più ciarliero e “umano” del solito, meno incline a recitare la parte del poeta affranto sul palco, ma sempre impeccabile nell’interpretazione delle linee vocali, siano esse in growl o pulite. Non a caso, lo spazio direttamente antistante al palco risulta gremitissimo e qua e là si scorgono addirittura fan con le lacrime agli occhi. Di certo uno deli highlight di questa edizione del festival (Luca Pessina).
Una delle conferme più azzeccate di John Baizley, leader dei Baroness e curatore di parte del bill del festival di quest’anno, sono sicuramente i DISFEAR, la hardcore d-beat band svedese oggi guidata da Tompa Lindberg. Il gruppo negli ultimi anni si è tenuto a lungo in disparte – vuoi per l’inaspettata morte dello storico bassista Henke Frykman, vuoi per gli impegni del frontman con i suoi At The Gates – ma ora pare che a questi veterani sia tornata la voglia di martellare in giro. Reclutato l’esperto Andreas Axelsson (Tormented, Edge Of Sanity) al basso e con il leggendario Uffe Cederlund (Entombed) alla seconda chitarra, i Disfear si presentano al Patronaat in forma notevole e con un’attitudine immutata negli anni. Non capita spesso di vedere mosh, crowd surfing e stage dive al Roadburn festival, ma durante lo show degli svedesi avviene tutto questo. A differenza della sala principale dello 013, nella quale si sono esibiti gli Integrity, il più intimo Patronaat meglio si presta ad ospitare un concerto di questo genere: la band suona a diretto contatto con il pubblico e aizza continuamente gli astanti, i quali si sentono di conseguenza sempre più incentivati a fare macello. Non vi è spazio per finezze e riflessioni in questa mezzora abbondante a disposizione del gruppo: la tensione nell’aria si taglia con il coltello, così come la voglia di sfogarsi e divertirsi senza pretese. Come chiusura della giornata sul Patronaat non si può chiedere di meglio (Luca Pessina).
Nello 013 si chiude invece con una realtà di culto della scena black metal norvegese. Non vi sono dubbi su come i MYSTICUM siano una band assurta a uno status quasi mitico, date le uscite discografiche col contagocce e le apparizioni live a dir poco sporadiche. Per la prima volta in tre giorni, il palco del main stage viene coperto durante il sound-check, e la sensazione che stiano preparando qualcosa di speciale è scontata, anche per la comparsa di cartelli che segnalano il rischio di crisi epilettiche per l’uso di luci stroboscopiche durante il concerto. Mentre si aspetta l’inizio dell’esibizione, è anche possibile (potere del marketing) bere una delle due birre prodotte dalla band norvegese stessa in collaborazione con una brewery belga (entrambe infernali e fortissime, come ci si poteva giustamente attendere), ma è sufficiente l’apertura del sipario e la prima ondata sonora per dimenticarsi di cosa si sta bevendo, o di qualunque altro bisogno: lo show messo in piedi dal trio norvegese è un’ora abbondante di annichilente violenza musicale e visiva senza soluzione di continuità. Dr. Best, Prime Evil e Cerastes si stagliano ieratici e staticissimi (fatto salvo il primo, che batte ossessivamente il tempo con la gamba) su tre piattaforme rialzate di diversi metri sul palco, isolati l’uno dagli altri e tutti dagli astanti, con cui non scambieranno una sola parola per tutta l’esibizione, in perfetta sintonia con l’elitarismo di cui sono fautori da sempre. Fumo, fasci di luce accecanti, proiezioni continue alternate tra aquile bicipiti e SATAN e LUCIFER a caratteri cubitali (particolarmente invasivi durante il ritornello di “LSD”, che ci ricorda il desiderio di unirsi a “Lucifer in the skies with demon”) sono una parte importante quanto il contenuto musicale di un’esibizione che lascia a bocca aperta e a timpani sfondati; e che è equamente divisa tra il loro classico “In The Streams Of Inferno” e il relativamente recente comeback “Planet Satan”. La batteria elettronica, marchio di fabbrica da sempre della band, è furiosa e martellante, perfettamente allineata ai campionamenti registrati nell’intento di entrarci nel cervello e distruggerlo. Le tre asce non sbagliano un colpo e non rallentano un secondo, fino all’esplosione finale, poi un sipario bianco di luci e il silenzio. La malignità del black metal, l’ossessività dell’industrial, complessivamente una sintesi da brividi (Simone Vavalà).
DOMENICA 23 APRILE
Reduci dal nuovo “Heartless”, i quattro di Little Rock, riescono ad ottenere il palco principale e introducono, per molti, la giornata finale di Roadburn 2017. Avere dalla propria un album come “Foundations Of Burden” non è cosa da tutti, ma Brett Campbell soffre ancora troppo la mancanza di appropriato talento vocale in sede live per poter rendere la sua creatura affascinante come su disco. I PALLBEARER si candidano assolutamente come band fondamentale per il nuovo filone di memoria sabbathiana, ma se da disco riescono a trascinare l’ascoltatore in territori intriganti e fascinosi, dal vivo le stonature vocali sono ancora troppe per poter rendere giustizia a brani come “The Ghost That I Used To Be” o “Fear And Fury”, che dovrebbero già essere ampiamente sedimentati nella setlist. Un vero peccato, perché siamo al cospetto di musicisti genuini e con un gusto compositivo non indifferente (Davide Romagnoli). A susseguirsi sul main stage sono i francesi LES DISCRETS, portavoci del nuovo “Predateurs”. La band di Lione non affascina di certo tutti i presenti, oltre che per le sue tonalità lente e diradate, anche per una giornata fitta di nomi e sovrapposizioni di line-up. In ogni caso è sempre un piacere sentire risuonare ancora le trame di “Septembre Et Ses Dernières Pensées” come “Songs For Mountains”, “Chanson D’Automne”, “Le Feuilles De L’Olivier”, “L’Echappè” e “L’Envol Des Corbeaux”, che ricoprono quasi tutto il set. Un album che riesce a risultare, anche in questa occasione, ancora magnifico e pulsante (Davide Romagnoli). Oltre ai Magma è presente al festival anche un’altra formazione francese targata fine anni Sessanta. Seppur con la sua forma più moderna, i GONG riempiono di psichedelia forsennata e avvolgente la piccola folla presente all’Het Patronaat. Oltre ai brani del nuovo “Rejoice! I’m Dead” è un piacere risentire qualcosa dall’era Daevid Allen, come la trilogia “Radio Gnome”. Oggi nella band non è presente nessuno dei membri storici, ma poco importa, in effetti, se il tripudio fusion/psych/prog rock di queste performance riesce ad essere di questo calibro. Kavus Torabi, iraniano, riesce a trascinare con voce e chitarra tutti coloro che nella giornata di domenica necessitano di essere strafatti con la musica dei Seventies (Davide Romagnoli). Si torna allo 013 per uno dei concerti più attesi dell’intero evento. ULVER live al Roadburn: quale miglior connubio, sulla carta? Un festival che ha nella diversità e nella ricerca musicale i suoi tratti caratteristici, e una band che da ormai vent’anni riesce a stupire – o altrettanto spesso infastidire – il pubblico con le sue scelte musicali tutt’altro che scontate. Certo, chi dovesse guardare dall’esterno potrebbe sorridere strafottente a questa intersezione di imprevedibilità a tutti i costi e intellettualismo: un’accusa che viene mossa in pari misura tanto alla band norvegese quanto al Roadburn, soprattutto da parte di chi, in realtà, non vi si è mai recato. Ma talvolta dev’essere la sola musica a parlare, e in questo caso ci dice che la band di Kristoffer Rygg ha saputo trionfare e conquistare uno dei posti d’onore dell’intero festival; l’esibizione degli Ulver di questa sera si base sulla prima riproposizione live dell’ultimo e acclamato “The Assassination Of Julius Caesar”, che viene suonato per intero con solo qualche variazione nell’ordine dei brani e senza le voci femminili che caratterizzano alcuni episodi, e il risultato è semplicemente ammaliante. Dalle note dell’iniziale “Nemoralia” i Lupi Norvegesi ci trascinano in un vortice suadente fatto di suoni ricercati, stratificati e – soprattutto – pressoché interamente suonati dal vivo; ci sono chiaramente i campioni a cura di Jørn H. Sværen e Tore Ylwizaker, quest’ultimo sempre più alter ego perfetto del mastermind Rygg, ma rispetto a quanto qua e là, nell’album, risulta un po’ troppo patinato e plastificato, i brani dal vivo suonano freschi e genuini. Addirittura, la sensazione stagnante di un album di synth pop Anni ’80 uscito troppo in ritardo su tempi sparisce: a favore, semplicemente, di un ottimo lavoro. In brani come “So Falls The World”, complici anche degli spendidi visual, i ritmi diventano ipnotici, e ci si trova quasi d’incanto al gran finale di “Coming Home”, trasfigurata in una fuga drum’n’bass lunghissima e avvolgente. Difetti? Forse aver fatto sembrare fin troppo semplice la restituzione di un lavoro così complesso, ma è evidente come loro stessi, questa sera, si siano divertiti (Simone Vavalà).
La cantautrice EMMA RUTH RUNDLE arriva al Roadburn sull’onda del successo del suo ultimo disco solista “Marked for Death” e degli apprezzamenti ottenuti per il suo lavoro con i Marriages e i Red Sparowes. La Green Room si riempie del tutto per seguire il concerto della ragazza statunitense, che si presenta con la chitarra e senza il suo gruppo spalla per un set semi-acustico di rara sensibilità. Il Roadburn non è certo un festival nuovo a toni soffusi, ma con la Rundle entriamo in pieno territorio cantautorale, facendoci cullare dalla voce ora flebile, ora accesa e passionale della losangelina, che, senza troppe pause e dialoghi con il pubblico, riesce ad eseguire una discreta manciata di brani in un silenzio quasi assoluto. Una parentesi di sicuro effetto in una giornata per lo più dedicata a sonorità maggiormente rumorose (Luca Pessina). Nella sala grande tocca quindi agli HYPNOPAZUZU. Si tratta della seconda esibizione in assoluto per il particolare progetto partorito dalle menti di David Tibet (Current 93) e Youth (Killing Joke e un’infinità di lavori in veste di produttore), e quale miglior palcoscenico di questo? Mentre il resto della band – ben sei figuri tra tastiere, macchine, violino, batterie e percussioni, oltre a Youth al basso e pianoforte – è già sul palco ad accordare e creare un tappeto sonoro, il Maestro di Cerimonie tibet arriva in completo bianco, piedi nudi e sacchetto di plastica in mano, con quella sua tipica aria di chi è altrove, e cercherà di metterci in contatto con questo mondo lontano nel corso della serata. Che la band non sia particolarmente rodata, purtroppo, sembra una condanna senza possibilità di redenzione durante i primi due brani – peccato in particolare per l’iniziale “Your Eyes In The Skittle Hills”, tra i pezzi più evocativi del loro (per ora) unico album, cioè “Create Christ, Sailor Boy”; ma se l’età anagrafica di alcuni dei musicisti fa pensare a scarsa esperienza, ecco che quando i veterani smettono di cercarsi con lo sguardo per seguire i tempi o le cadenze comandate, il concerto decolla come una vera esperienza mistica: rispetto al tribalismo dei Killing Joke o alle sfaccettature più cupe e apocalittiche dei Current 93, il progetto Hypnopazuzu è fatto di rarefazioni quasi elettroniche, di evocazioni, di mantra che ricordano quasi una versione morbida ma insieme più ipnotica degli Swans. E man mano che l’esibizione procede, l’immersione nel mondo fatto di Magia (quella vera) offerta dalla band è totale; difficile non rimanere ammaliati dalle lunghe suite di vago gusto orientale, e quando il concerto finisce – con la riproposizione totale del loro album – immagini e suoni rimbalzano ancora a lungo dentro alle nostre teste. Forse il miglior concerto della giornata, sicuramente, per chi ha avuto pazienza di aspettare che la band trovasse il suo passo, la miglior scoperta (Simone Vavalà). Con i COME TO GRIEF torniamo infine ad avere a che fare con tipiche sonorità da Roadburn, ricongiungendoci con quello sludge/doom metal che un tempo rappresentava la spina dorsale del programma del festival olandese. I Grief, scioltisi definitivamente nel 2009, sono stati una band seminale del genere (nonostante non abbiano mai raccolto quanto effettivamente meritassero) e questa nuova incarnazione a nome Come To Grief, portata avanti dal chitarrista e membro fondatore Terry Savastano, rappresenta quanto di più vicino al nome storico ci sia oggi sulla piazza. La band di Boston ha di recente rilasciato un EP, ma il set si basa per buona parte sul repertorio storico targato Grief: i Nostri arrivano addirittura a proporre “Depression” dall’omonimo mini del 1992. Quadratissimi, sporchi e volutamente minimalisti, i quattro annegano i riff in oceani di feedback lancinanti, sfoderando una intensità e una miseria che con il passare dei minuti appaiono sempre più genuine. Siamo al cospetto di veri reietti che non hanno niente da perdere. Per chi scrive si tratta dell’ultimo concerto di questo Roadburn 2017 e il suddetto può essere anche visto come la chiusura di un cerchio: nonostante il cartellone dell’evento sia ogni anno sempre più variegato e nel complesso piuttosto lontano dallo spirito delle primissime edizioni, alla lunga non è difficile tornare alle origini e riscoprire il caro vecchio doom. Il Roadburn, nonostante tutto, sarà sempre (anche) sinonimo di band come i Come To Grief (Luca Pessina).