Introduzione di Giovanni Mascherpa
Report di Davide Romagnoli, Giovanni Mascherpa, Stefano Protti
“Redefining Heaviness” è lo slogan che saluta l’avventore del Roadburn e ne riassume la sua identità. Identità andata mutando percettibilmente negli anni, passando dall’essere un raduno incentrato sul culto dello stoner/doom, nei primi anni 2000, per ricoprire quindi il ruolo di kermesse di metal estremo ad ampissimo respiro.
Giungendo, infine, a ciò che l’happening olandese è oggi, un’ardita sintesi di tutto ciò che può essere ‘heavy’, catturando il sentire della scena metal odierna, volentieri aperta a commistioni e mescolanze in altri tempi considerate orripilanti, eretiche, insensate; oggi invece si accetta un po’ di tutto, a volte con risultati che suscitano effettivamente perplessità, più spesso rendendo giustizia agli intenti di coloro che osano, non si fermano, guardano avanti, di lato, lontano e, perché no, anche indietro, perché il passato è un patrimonio da non dimenticare né buttare al macero.
Eccoci quindi a un’edizione 2025 che, ai primi annunci, può avere un po’ spiazzato chi, come chi scrive, ha comunque gusti più affini all’universo hard’n’heavy che non al resto del mondo musicale. Eppure, basta andare un attimo oltre le proprie ignoranze e preconcetti, per scoprire tutto un mondo di sperimentatori, manipolatori del caos, cantautori più o meno ombrosi, artisti venuti da lontano, progetti speciali, jazzisti d’avanguardia e altro ancora. Una babele nella quale è bello immergersi, un po’ per assaporare qualcosa che si conosce a menadito e non si vede l’ora di rivedere, un po’ per farsi ammaliare, stupire, disorientare. A volte pure respingere, perché no, un festival serve anche a questo, volendo.
L’assetto del festival, per chi non avesse dimestichezza con esso, è a più palchi, con due sale ampissime come il Main Stage del rinomato 013 Poppodium – sala concerti commovente, il non plus ultra sotto ogni punto di vista – e l’altrettanto vasto Terminal, posto a meno di dieci minuti a piedi dall’altro locale.
Seguono i due palchi collaterali a quelli appena menzionati, rispettivamente il Next Stage – esattamente accanto al Main – e l’Engine Room, separata solo da un telo dal Terminal, nella sua parte posteriore. Infine, i più raccolti Hall Of Fame e il il jazz club Paradox, quest’ultimo dedicato a un programma, come intuibile, di jazz imbastardito e sonorità più intime.
Una macchina oliata da quasi trent’anni di esperienza e un vissuto in perfetta osmosi con la città ospitante, la graziosa e calma Tilburg, permette di godersi le esibizioni in maniera che definire piacevole e comoda è un semplice eufemismo. I concerti si svolgono in un clima di grande attenzione, calore e rispetto da parte del pubblico, concentrato e partecipe, per nulla invadente. Gli orari sono rispettati praticamente al secondo, i suoni deliziosamente potenti, nitidi, senza sbavature, qualsiasi sia l’artista impegnato o lo stage di riferimento.
Non abbiamo rilevato alcuna coda né per bere né per mangiare, essendoci inoltre la possibilità di rifocillarsi nei numerosi locali fuori dal perimetro festivaliero. I prezzi di birra, alcolici e bibite sono effettivamente nient’affatto economici, tenuto anche conto del maggior costo della vita olandese, e si potrebbe migliorare qualcosa per avere almeno acqua disponibile a poco prezzo, ma stiamo parlando di problemi marginali.
Sul fronte prettamente musicale, erano annunciate parecchie esibizioni speciali, eventi che capitano soltanto al Roadburn e da nessun’altra parte o quasi. Parliamo della riproposizione integrale di alcuni album, sia di artisti affermati che emergenti, oppure di opere commissionate – da diversi anni una delle specialità del festival – set con scalette sui generis oppure gruppi che è raro vedere nel nostro continente.
Insomma, a parte la comprensibile perplessità da parte di chi preferirebbe un contesto più veracemente metallico, l’edizione 2025 si presentava assai golosa, per qualità e quantità, spalmata su quattro giorni intensissimi, baciati da bel tempo – a parte qualche limitata spruzzata di pioggia – temperature primaverili e una magia nell’aria che fin dal warm-up del mercoledì sera non ci ha mai lasciato. A voi allora il resoconto di questa lunga, inebriante, marcia, nelle mille derivazioni dell’Heaviness.
MERCOLEDÌ 16 APRILE
Ogni anno il Roadburn propone un warm-up gratuito, “The Spark”, che, svolgendosi all’interno di una delle sale del festival, il Next Stage, permette agli spettatori di acquisire dimestichezza con i luoghi delle esibizioni e soprattutto con le birre locali; è con questo spirito che ci accingiamo ad assistere il nostro primo concerto a Tilburg, testando la proverbiale capacità dei tecnici del suono adibiti alle hall del festival.
Ironico che siano proprio i RATTENBURCHT, quindi, ad usufruire di queste facilities, perché il trio olandese è solito proporre un raw black metal poco più che elementare, appena ravvivato dalla dualità growl/scream del chitarrista J. e della bassista Serpent Dweller, con una sezione ritmica primitiva, che ci fa rivalutare, in termini di raffinatezza e fantasia, le esibizioni dei Blasphemy.
L’abilità dei fonici in questo caso evita l’ovvio, ovvero che l’esibizione si risolva in una sorta di poltiglia insapore, ed il carattere raw/punk del concerto viene proposto nella sua genuinità, anche se la band, a nostro parere, potrebbe comunque affinare, almeno di poco, le proprie capacità tecniche. (Stefano Protti)
Fanno doppietta i THOU, inserendosi nel programma anche con un secondo concerto (alla fine saranno addirittura quattro, tra un secret show allo Skatepark e il ruolo di musicisti di complemento di Midwife in una sua esibizione), prima di suonare integralmente il loro cattivissimo “Umbilical” per intero nella serata di venerdì.
Il Next Stage è zeppo di gente quando attaccano a suonare, loro che negli anni si sono palesati spesso da queste parti e simboleggiano un po’ il tipico gruppo ‘da Roadburn’: pesanti, ferali, ruvidi, ma con quel qualcosa di poetico, intellettuale e tentatore che li rende malleabili anche per chi solitamente sta lontano da materiale così estremo.
Cappuccio della felpa in testa, Bryan Funck guida la sua ciurma a un esemplare assalto sludge/doom venato di qualche infiltrazione di blues andato a male, rievocando come meglio non si potrebbe oggigiorno i fasti del mitizzato ‘sound della Louisiana’. Negli anni, nella mole di uscite che li ha contraddistinti, i cinque hanno continuato a perseverare in una ricetta pressoché uguale a se stessa, solo affrontata così bene, con tale convinzione, da renderla inattaccabile.
E dal vivo le cose vanno alla stessa maniera: la prestazione è asfissiante, slabbrata ed energica come ci attenderemmo, passando in rassegna gli episodi più noti e malinconicamente brutali del repertorio, partendo da “Into The Marshlands”, per approdare a quello che è probabilmente il loro più noto cavallo di battaglia, “By Endurance We Conquer”.
Nonostante i volumi, il carico di malessere, le urla e la sporcizia di questi Eyehategod più moderni, c’è sempre un sentire afflitto più struggente a strisciare nell’ombra e a dare qualcosa di speciale a una loro esibizione. Un bel riscaldamento. (Giovanni Mascherpa)
GIOVEDÌ 17 APRILE
Il Roadburn è noto per le sue scelte eclettiche, quindi non stupisce che tocchi agli XIU XIU l’onore di aprire ufficialmente l’edizione 2025 del Festival. Chi scrive di questo concerto aveva perso di vista i percorsi tortuosi della compagine di rock sperimentale da almeno dieci anni, e sotto al palco del The Terminal è curioso di scoprire cosa si è perso nel frattempo, da “Always” (2012) in poi.
La formazione attuale comprende il fondatore Jamie Stewart accompagnato dalla fascinosa polistrumentista Angela Seo e dal settantenne ex Devo David Kendrick alla batteria, con una setlist focalizzata principalmente sugli estratti dell’ultimo album, “13” Frank Beltrame Italian Stiletto with Bison Horn Grips”, nel tradizionale mix di melodie orecchiabili, esperimenti di avanguardia e melodrammi psicotici per cui la band è nota sin dal debutto “Knife Play”.
Lo show è dominato dalle performance ritmiche del duo Seo/Kendrick, su cui Jamie Stewart innesta chitarre elettriche ed una performance vocale (e fisica) ricca di pathos che lo avvicina al più maturo Robert Smith.
Al netto di un’esibizione che non vede momenti di debolezza, la scaletta si risolve frequentemente in picchi emozionali come l’ossessiva “Silver Platter”, il dark pop radiofonico di “Sleep Blvd”, un emozionante recupero da “Dear God I Hate Myself” (“Gray Death”) e la terrorizzante “The Real Chaos Cha Cha Cha”, con la voce di Angela Seo che, letteralmente affogata dentro un denso fluido noise, omaggia idealmente Yoko Ono.
Gli spettatori non sono del tutto impreparati (i Xiu Xiu sono già passati per Tilburg, in passato) ma la brutale seduta di psicoanalisi a cui vengono sottoposti li porta comunque a fronteggiare paure dimenticate, e a testare nuove angosce. Un inizio incoraggiante, insomma. (Stefano Protti)
Dopo l’introduzione tutta estroversa degli Xiu Xiu, riusciamo ad andare a scovare una band che non vedevamo l’ora di vedere nelle sue vesti live, soprattutto se presentanti un album di tutto rispetto: i GLASSING. Nonostante l’evidente tranquillità e la tendenza a virare verso toni più ‘soft’, “From The Other Side Of The Mirror” non è un album soft per niente.
E tutto sembra subito chiaro quando le prime note del post-hardcore degli americani fungono da esempio di ‘suoni fatti bene’ (grazie, Roadburn).
Le canzoni sono mature: certamente maggiore è l’enfasi sull’atmosfera e sul modo in cui gli strumenti rimbalzano l’uno sull’altro, ma la musica è comunque pesante, dinamica e incredibilmente emozionante; è anche incredibilmente stratificata, creando questa trama sonora vigorosa.
“As My Heart Rots”, dal vivo, vale il concerto: un brano che enfatizza la dissonanza e riesce comunque a riempire lo spazio con quanta più entropia sonora possibile. La sua natura intrinsecamente caotica non fa che accrescere il fascino emotivo della musica, diventando catartica per l’ascoltatore, ormai inserito nel festival già a pieno titolo. (Davide Romagnoli)
Si fanno leggermente attendere gli ORANSSI PAZUZU, ad inaugurare il Main Stage suonando l’ultimo album “Muuntautuja” del 2024. Un’ora di slot è larga rispetto alla durata di quel disco, ed è allora una lunga intro a riempire il vuoto, prima dell’ingresso dei cinque.
L’ultimo nato sottolinea il versante noise del loro stile, riducendo le arie più progressive, estese invece in “Mestarin Kynsi”. Il concerto del Roadburn è un’altra magistrale prova di classe e visionarietà per i finnici, davanti a una sala gremita ed entusiasta.
L’attuale assetto, con l’importante ausilio agli effetti del bassista Ontto e del chitarrista Ikon accanto al maestro del sounscape EviL, dà un’ancor maggior coralità all’insieme, mantenendo intatta l’aggressività che la band sa infondere live e la metodicità nel riproporre pari pari gli innumerevoli dettagli delle canzoni.
Per quanto si conosca il loro materiale, vi è sempre da stupirsi e restare di stucco dinnanzi a queste esplorazioni sonore, dove la perfetta fusione di musica, visual e cambi di colore e direzione delle luci sublimano un’esperienza sensoriale fuori dal comune.
Tra le enigmatiche dilatazioni della title-track e di “Ikikäärme”, le acide, viscerali esplosioni di “Voitelu” e “Valotus”, il concerto scorre torrenziale, sgargiante e apocalittico, ad incoronare gli Oranssi Pazuzu veri leader quali oggi sono. (Giovanni Mascherpa)
Sicurezza post-punk anche dal quartetto italo-americano (e ora pure franco, visto l’innesto del nuovo bassista, che ha preso lo slot di quello che un tempo fu di sir Pierpaolo Capovilla) dei BUNUEL: uno schiacciasassi che non fa sconti.
I suoni perfetti rendono giustizia ai noise di Iriondo (personaggio che ci ricorda che il Roadburn presenta connessioni anche con una band ‘big’ italiana come gli Afterhours, in cui suona la chitarra) e soprattutto all’impatto scenico del solito Eugene Robinson, ormai liberatosi dagli Oxbow e in forma pugilistica come non mai.
“High. Speed. Chase” è uno dei must assoluti del nuovo “Mansuetude”: tutti sono presi bene e a tutti viene un po’ voglia di urlare, insieme a Eugene, “Who wants to die?”, simulando un uppercut spaccamascella all’avversario di ring. (Davide Romagnoli).
ALORA CRUCIBLE ci serve da distensione e respiro, portando toni posati e rilassatezza in un oceano di rumore.
Ultimo progetto in ordine di tempo del vulcanico leader dei Kayo Dot, Toby Driver, i Nostri rappresentano un’emanazione strumentale assimilabile al suo operato da solista, solo in una versione ancora più astratta e priva di asperità.
Non c’è neanche la batteria in questo caso, per dire, e la musica è giocata su fragili, lunghi intrecci di tastiere, violino e chitarra, oppure il dulcimer, strumento raro a vedersi in questi contesti, riproposto a volte da alcuni ensemble di stampo folk.
Un concerto ‘non per tutti’, eppure ben lontano dall’essere noioso, dipingendo scenari d’estasi con il tipico tocco del musicista del Connecticut, aggraziato, cristallino, mai freddo o artificioso. A malincuore perdiamo l’ultima manciata di minuti per dirigerci al Main Stage, le impressioni offerte sono decisamente positive (Giovanni Mascherpa).
Sono stati lontani dalle scene circa otto anni, i KYLESA, probabilmente estenuati dai tour e una dimensione che, nonostante l’ottima qualità dei dischi e pure il tentativo di ammorbidirsi e rendersi più malleabili, li teneva confinati in un limbo.
Tra i primi gruppi ad essere annunciati per questa edizione, Laura Pleasants e Phillip Cope si presentano con due nuovi musicisti al loro fianco, una sola batteria – le due batterie erano un loro marchio di fabbrica – e un’attitudine chiaramente ‘back to the roots’. Il piglio è quello dei primi lavori (nessun brano da “Exhausting Fire, uno solo da “Ultraviolet”), uno sludge ruvido e urticante che poco concede ad orecchiabilità e toni sinuosi, quelli andati ad emergere già con “Static Tensions” e sempre più rilevanti nei lavori a seguire.
La Pleasants regge ancora benissimo il suo ruolo di leader, tra vocalizzi di carattere per nulla affaticati e il suo ficcante stile chitarristico; le interazioni con Cope sono brillanti come avremmo desiderato, così da sostenere bene il confronto con le esibizioni ammirate nell’ormai non vicino passato (si parla di 2011/12): ci sono foga, desiderio e personalità a guidare la band.
Un solo, essenziale, batterista toglie qualche filler ai brani, Cope non denota la stessa potenza vocale della collega, ma sono note di contorno, che non intaccano il valore della performance.
Il meglio per noi arriva negli episodi più caratteristici di “Static Tensions” (“Scapegoat”, “Said And Done”, “Unknown Awareness”), accolti non a caso da picchi di urla e boati dei presenti. Un set intenso, viscerale, che riporta lo sludge al centro del villaggio. (Giovanni Mascherpa)
Nonostante abbiano alle spalle un solo EP (…”An Invocation”) e un album (“Remnants Of The Vessel”) nella loro ancor breve carriera, il Terminal si presenta discretamente stipato per le FAETOOTH e il loro autodefinito ‘fairy doom’: etichettatura assai azzeccata e pertinente, per un trio di musiciste che riesce ad essere aderente a un filone, quello del doom/sludge con voce femminile, apportando solo lievi modifiche ai canoni di settore per potersi distinguere nell’affollamento di compagini doom al femminile.
Strumentalmente, il gruppo avanza greve e ossessivo, con un pizzico di candore e magia, mediando tra un approccio alla Windhand/Witch Mountain, e un’idea sonora più rotonda, tipo Pallbearer dei primi tempi. Infine c’è un dualismo vocale alternante con trasporto screaming black metal e gorgheggi suadenti, generando ambivalenza emozionale e un piglio da cantastorie plumbee che, in fondo, è la cifra distintiva del loro pensiero.
Nelle prime file si coglie che molti abbiano già piena dimestichezza col loro materiale, reagendo quindi con vivo entusiasmo ai pezzi proposti. Si va in crescendo, con le giovani ragazze americane a rimanere gioiosamente sovrastate da cotanto affetto. Bello vedere promesse dell’underground ricevere questo calore e gradevole a nostro avviso come le tre ragazze reagiscono, senza pose sostenute o altezzose, godendosi il momento appieno. Una bella sorpresa. (Giovanni Mascherpa)
Ci dirigiamo poi verso lo Skate Park, ormai già impostato come ‘luogo delle chicche’, per uno dei secret show che costellano il programma del festival.
Dopo aver pubblicato il loro EP di debutto proprio nella settimana del festival, vediamo i TEARDRINKER, progetto che vede impegnati musicisti della scena olandese, tra cui Kim dei Vulva (duo sludge/garage), e ci piace pensare di aver visto ‘nascere’ una bella cosa. Questo quintetto di Rotterdam si è ispirato ai set del Roadburn dell’anno scorso, che li vide protagonisti a sorpresa, e ora torna come una band a pieno titolo: il loro mix incendiario di post-metal e furia virtuosa è un trionfo e la gente, vuoi per l’esclusività della contingenza, vuoi per la Trappe Isidor alla spina che viene spillata, è carica a molla. (Davide Romagnoli)
Stupefacente: non c’è altro modo di definire il set degli ENVY alle prese con uno dei loro album più significativi, “A Dead Sinking Story”. Il primo dei due set loro concessi sprigiona emozioni in misura quasi insostenibile, scatenando una potenza strumentale tanto travolgente quanto beata, un tripudio di note celestiali scagliateci addosso vorticosamente, spremendo il massimo dall’azione simbiotica delle tre chitarre.
Gli scuotimenti fisici ed emotivi di “A Dead Sinking Story” vengono resi con aderenza perfetta ai contenuti dell’album, magnificandone sia le componenti di bruciante aggressione, sia il concettuale intimismo, le atmosfere dimesse e malinconiche, un’uggiosità decantata in modo toccante dal cantante “Tetsuya Fukagawa”.
Genuinamente grati all’accoglienza, i sei giapponesi volano altissimi, coesi come pochi altri, praticamente un unico corpo e un’unica anima di screamo, shoegaze e un impatto metallico sensazionale. Difficile anche estrapolare dei picchi, perché si è rimasti follemente inebriati per tutta l’ora a disposizione, tra deflagrazioni nucleari – eppur gentilissime – e un’introspezione che a qualche animo più sensibile potrebbe aver fatto scappare qualche lacrimuccia.
Ci si guarda l’un altro come a voler confermare che sia tutto vero, non solo frutto della nostra immaginazione: ed è effettivamente così. Un concerto pazzesco. (Giovanni Mascherpa)
Kevin Martin, alias THE BUG, è un artista ben conosciuto della scena elettronica inglese, grazie alle numerose collaborazioni con Dylan Carson (The Bug Vs. Earth) e Justin Bradrick (The Curse Of Golden Vampire, God). Presente in numerose edizioni del festival, quest’anno presenta un ampio estratto dal doppio “Machine”, edito nel 2024 da Relapse.
Il lungo set è un excursus/omaggio alla musica industriale anni Novanta, tra droni stranianti, ritmi sincopati e soprattutto bassi, somministrati ad un volume tale da serrare ritmicamente le vie respiratorie e far tremare gli stomaci. I presenti attoniti si limitano, quando possibile, a scuotere ritmicamente la testa, o a fissare nel vuoto, eppure dopo alcuni minuti il significato di tanta marziale violenza inizia a sfuggire, mentre la noia mina l’efficacia di uno spettacolo durato quasi un’ora senza lasciare una traccia profonda nella memoria dei presenti. (Stefano Protti)
Infine scatta l’ignoranza: gli slot dedicati a metallari duri, puri, brutti e cattivi sono merce rara in questa attuale versione del festival.
Guardando alle edizioni pre-Covid e confrontandole a quelle attuali lo stacco è notevole, salvo appunto qualche mosca bianca come appunto i CONCRETE WINDS. Temibilissimi esponenti di un isterico thrash/death venato di grind, i tre di Helsinki hanno il loro bel daffare nel trovare gli equilibri giusti durante il soundcheck, mentre quando effettivamente partono le ostilità funziona tutto a dovere, scatenando rapidamente un discreto putiferio.
Per quanto non si segnalino copiose macellerie di corpi a bordo stage – non è quel tipo di audience – qualche facinoroso pare particolarmente su di giri, sobillato da una prova sopra le righe, sconsiderata ma mai caotica, come in studio del resto. Il terzetto sgozza tutto ciò che gli si presenta davanti, il gusto slayeriano delle composizioni – graditissimi gli sfoghi solisti della chitarra – fa breccia facilmente nella sala, tant’è che un tizio si prende così bene da saltare sul palco e buttarsi spavaldo per dell’insano stage diving. Peccato non vi sia tutta questa densità di persone a sostenerlo, così si fracassa – per fortuna senza danni – quasi immediatamente al suolo.
Un set più di routine – almeno secondo i nostri standard – di altri, quello dei Concrete Winds, ma adrenalinico e musicalmente soddisfacente. (Giovanni Mascherpa)
VENERDÌ 18 APRILE
Le opere commissionate appositamente per essere suonate al festival, in forma inedita, sono uno dei tratti salienti del Roadburn da diversi anni a questa parte.
Per quest’anno riusciamo a presenziare solo a una di queste, coinvolgenti due nomi poco noti al di fuori dei confini olandesi. THROWING BRICKS e ONTAARD viaggiano gli uni per gli altri in quel mare magnum del post-hardcore odierno ipercontaminato, tra black metal, crudezze hardcore vecchia maniera, influssi post-rock, tocchi d’atmosfera.
Già protagonisti assieme di un breve disco collaborativo lo scorso anno, “Oud Zeer”, per l’occasione si presentano con line-up allargate e mutevoli di brano in brano. “Something To Lose” rifulge allora per il suo ampissimo raggio d’azione stilistico, presentandosi dapprima come opera dagli sfolgoranti dettami di black metal moderno virato al ‘post-’, quindi cedendo a illusori isterismi di post-hardcore annerito, infine prendendo respiro e cerebralismo, proiettandosi in un mondo più astratto, vagando tra soundscape misteriosi, passaggi strascicati e partiture ariose.
Tanta carne al fuoco, ma anche capacità di dare sensatezza e vigore ai propri intendimenti: emerge la personalità dirompente e poliedrica della cantante degli Ontaard, con i suoi parlati che sanno di Suffocate For Fuck Sake, ma è tutto l’insieme a trasportarci in un regno di spumeggiante creatività, compromesso riuscito tra impeto nichilista, introspezione, desideri avanguardistici.
Un connubio ambizioso e, a conti fatti, riuscito, che speriamo possa concretizzarsi in un album a breve, come accaduto in passato con operazioni simili quali Waste Of Space Orchestra e Trounce (Giovanni Mascherpa).
Giusto il tempo (ma forse non abbastanza) per riprendersi da un concertone di questo calibro che riprendiamo la malinconia soffusa di cui è ricco il festival con il set di MIDWIFE e VYVA MELYNCONYA: l’heaven metal delle due amiche, connubio tra shoegaze e chamber pop, innesta nell’audience un sentore di paradiso, nascosto tra visual delle due, intente a stanare serpenti nel deserto americano, giocare con le falene e ritrarsi in varie pose in un super8 e pellicola.
La performance integrale di “Orbweaving”, l’album collaborativo di Madeline Johnston e Angel Diaz (così all’anagrafe), inserita come seconda tappa nel programma come parte della residenza artistica di Midwife al Roadburn di quest’anno, ha trasformato il palco in un altare di luce soffusa e introspezione, dove il dolore si è fuso con la speranza in un abbraccio sonoro avvolgente.
“Orbweaving”, pubblicato nel 2023, frutto di una sessione di registrazione nel deserto del New Mexico, è un intreccio di slowcore, shoegaze e ambient, con testi che esplorano temi come l’identità, la perdita e la rinascita. Brani come “Miss America” e “Hounds of Heaven” hanno risuonato con una potenza emotiva amplificata dalla presenza scenica delle due artiste, creando un’atmosfera sospesa tra sogno e realtà.
La performance è stata arricchita da visual minimalisti e luci soffuse, che hanno enfatizzato la delicatezza e la profondità delle composizioni. Il pubblico, immerso in un silenzio quasi reverenziale, è stato trasportato in un viaggio interiore, un po’ lo-fi, un po’ radical chic, un po’ momento esoterico, culminato con la titletrack “Orbweaving”, una suite di oltre dodici minuti che ha chiuso il set con una catarsi collettiva.
Pur presentando un livello di hipsteraggine estremo, esso si rivela però un altro concertone, superato solo dall’esibizione della Midwife con i Thou come support band, nell’esecuzione esclusiva di “No Depression in Heaven” dell’indomani (Davide Romagnoli).
I MESSA erano già stati adottati dal Roadburn per suonare integralmente “Close” nell’anno della sua uscita, il 2022. Lo schema si ripete per “The Spin”, fuori da una settimana quando si tiene il concerto olandese e già chiacchieratissimo, in Italia e non solo.
Si può dire che il gruppo veneto ‘abbia svoltato’, diventando materia di ascolto per una fetta di ascoltatori molto trasversale: non siamo quindi sorpresi né che possano esibirsi sul Main Stage, né che la sala sia piena e in spasmodica attesa. Il quartetto, rispetto ad altre esibizioni subito vibranti e incendiarie qui vissute, si presenta sobriamente e in punta di piedi.
Un corredo visuale minimale, con il solo bianco dell’oroboro (copertina dell’ultimo lavoro) su sfondo nero a spiccare sul fondale luminoso e i singoli musicisti ognuno fermo al suo posto, ben distanziato dagli altri, mettono un filo di distacco emotivo con chi è di fronte.
Un contegno che pare influenzare la musica: i Messa suonano bene e senza sbavature, eppure almeno per le prime tre canzoni l’assenza di una seconda chitarra e il modo molto asciutto con cui svolgono il loro compito frena leggermente la performance.
Come su disco, è da “Immolation” e i suoi tratti più elaborati e variopinti, per quanto elegantemente foschi, che il concerto sale di livello. Tastiere e tromba donano momenti inconsueti e il pathos generale ne giova, così che anche “The Dress” e la diretta “Revela” ci possano veramente esaltare, prima di una splendida chiusura sulle note di “Thicker Blood”.
Brava Sara nel ruolo di frontwoman, non particolarmente comunicativa ma ormai con un suo stile e portamento distintivo, mentre musicalmente è il solismo da hard rock anni ’70 di Alberto a dare quel qualcosa in più ai pezzi. Meno altisonanti di altri loro colleghi ammirati sul medesimo palco, ma pienamente all’altezza della situazione. (Giovanni Mascherpa)
Cosa altro si può raccontare degli ENVY, dopo averli visti il giorno prima alle prese con “Dead Sinking Story”, in uno dei migliori concerti dell’anno? Il secondo set li vede alle prese con una scaletta che pesca dai lavori più recenti (con particolare attenzione a “Eunoia”, 2024), con il sound della band che mostra la sua inflessione più gentile, figlia delle continue frequentazioni post-rock con gli scozzesi Mogwai, mentre Tetsuya Fukagawa indugia più frequentemente in performance di spoken poetry alternati al suo caratteristico scream.
La compattezza del gruppo rimane la medesima, ed è solo il repertorio più eterogeneo a rendere questo concerto leggermente inferiore a quello del giorno prima, ma stiamo comunque parlando di livelli ben oltre gli standard. (Stefano Protti)
“Qualche giorno fa ho ricevuto una mail da Spotify, si complimentava per i trentamila ascolti mensili dei miei dischi e mi inviava quindici sterline. Comprate i miei dischi, vi prego”.
Questo è Patrick Walker, dolente ed ironico, che ha appena appeso ad asciugare il suo cuore perennemente spezzato ad una corda di acustica e temporeggia, mentre decide quale brano pescare dal repertorio dei 40 WATT SUN, mostrando che qualsiasi vestito può star bene ad una canzone – o almeno, a quelle che ha scritto lui.
In un contesto intimo come quello del Jazz Club Paradox, “Carry Me Home” si spoglia così della sua pesante tunica doom e si muove solenne al ritmo desolato di arpeggi bronzei, dentro stanze che hanno visto più di un addio, “Poor Your Love” abbandona l’arrangiamento elettrico che in “Little Weight” sembrava creato da Billy Corgan e affianca l’autore, qualora ci fossero dei dubbi, alla sensibilità di Nick Drake, mentre “Because Of Toledo” è un toccante omaggio al folk pop scozzese dei The Blue Nile.
Durante le canzoni il pubblico sta intorno a lui, abbracciando idealmente quella voce limpida senza fiatare, ben consapevole del rispetto che si deve ad un artista del suo calibro (fra l’altro anche lui di casa, al Roadburn), sciogliendosi in qualche risata liberatoria solo durante gli abbondanti aneddoti tra un pezzo e l’altro.
Patrick Walker non è un performer metal o un cantautore, è ‘solo’ un compositore di canzoni, tra le migliori canzoni in cui possiate inciampare nella vostra vita affettiva, in un ipotetico podio, in compagnia di Jason Molina e Will Oldham. (Stefano Protti)
Difficile descrivere in poche parole il percorso artistico dei CAVE IN, impossibile farlo in modo imparziale, per chi scrive, senza lasciar trasparire il dispiacere per scelte artistiche incomprensibili che ne hanno minato la carriera (la scelta di pubblicare “Perfect Pitch Black” come successore del magnifico “Antenna”) e la rabbia per le tragedie personali che hanno funestato la formazione, su tutte la scomparsa di Caleb Scofield nel 2018.
Forse, tenuto conto di tutto ciò che fato e autolesionismo hanno messo in campo, ai Cave In si potrebbe adattare una citazione di De Andrè, affermando che “è appena giusto che la fortuna li aiuti”. In ogni caso, anche se “Jupiter” fosse stato il loro unico parto, noi li avremmo comunque amati senza condizioni, perché il disco, edito da Hydrahead venticinque anni fa, rappresenta il paradigma di un post-hardcore mutato ed espanso fino a contenere elementi metal, progressive e melodie cangianti.
Ascoltato oggi, il disco non ha perso nulla del suo fascino iniziale, ed è emozionante vedere Stephen Brodsky ed i suoi sul Main Stage a riproporre integralmente l’album in forma di suite, con i brani uniti insieme da brevi interludi che ricordano le olofonie dei Pink Floyd, con la title-track che anticipava allora i Mars Volta (con più leggerezza), e proseguendo fino allo strumentale “Decay And Delay” (dove si innesta una ripresa di “Dazed And Confused” dei Led Zeppelin) e “New Moon”, un commovente ibrido tra At The Drive In e Jeff Buckley che emoziona tutti i presenti. (Stefano Protti)
Non fai in tempo a vederli una volta che già è tempo di ritrovarseli davanti ancora: i THOU rimestano volentieri nel torbido e stavolta lo fanno affrontando il loro ultimo, spietato “Umbilical”. Tra i migliori album del 2024, una pubblicazione meno sfinente e più diretta da parte di una band ben più eclettica di quanto potrebbe far pensare – vedasi le collaborazioni con Emma Ruth Rundel e Midwife.
Un filmato sullo sfondo parla di luoghi comuni filosofici tra una canzone e l’altra, con un effetto straniante e nonsense, sbriciolati immancabilmente dal gruppo quando riprende a suonare. Diversi ospiti alla voce duettano con Funck, per “Narcissist’s Prayer”, “House Of Ideas”, “The Promise” e “Panic Stricken, I Flee” tra cui la cantautrice Silver Godling) perché tutto sia esattamente come in studio e con addosso ancora più odio e disgusto del solito.
Un crudele crescendo, quello dei Thou: entrando nelle sezioni più movimentate e meno paludose osserviamo qualche accenno di mosh e un headbanging sempre più furibondo da parte di molti. Il concerto si fa fisico, minaccioso, sembra che debba avvenire qualcosa di dolorosamente catastrofico e irreparabile da un momento all’altro. Sludge vero, dirompente, purissimo, per uno dei suoi migliori e valorosi esponenti. (Giovanni Mascherpa)
Immaginate che lo spirito rock’n’roll di Ian Curtis sia potuto sopravvivere al suo corpo, riuscendo a perdurare nell’epopea New Order, e avrete un’idea di quello che i BAMBARA riescono a mostrare sul palco.
Lontana dalla dolcezza notturna dei loro album (tra cui l’ottimo “Birthmarks” di recente uscita), la band inscena un selvaggio baccanale rockabilly venato di post-punk, dominato dal tono baritonale del cantante Reid Bateh, in un mix tra il giovane Nick Cave ed il suddetto leader dei Joy Division.
Quasi incapaci di domare la loro stessa vitalità, i Bambara esorcizzano ogni paura insita nel dark attraverso l’unico rituale possibile, un ballo selvaggio e liberatorio. Per chi scrive, una bella sorpresa. (Stefano Protti)
SMOTE, chi sono costoro? Il progetto frutto dell’inventiva del musicista inglese Danil Foggin ha sfornato una copiosa quantità di uscite nei solo cinque anni abbondanti di esistenza, tramite un linguaggio che parte dalla psichedelia più contorta e si espande al drone e alle avanguardie, frapponendo numerosi e alti scogli a una facile fruizione.
I nostri chiudono il programma del venerdì mettendo in scena il pantagruelico ultimo lavoro “A Grand Stream”: lo fanno allargando gli effettivi disponibili, aggiungendo diversi musicisti loro amici, come John Perry dei GNOD e Adam Sykes dei Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs, per arrivare a una line-up a otto elementi.
Considerata una parziale sovrapposizione con i Thou, riusciamo ad assistere a una metà abbondante del set, per tre quarti d’ora che non lasciano indifferenti. Il colpo d’occhio è notevole: due batterie, tre chitarre, violino, postazioni utili a varie manipolazioni di rumore. L’apparenza suggerirebbe vibrazioni swansiane, puntualmente riverberate nella musica, sospesa tra mantra ossessivi, arabeschi ridondanti e sguardi a oriente richiamanti l’esotismo di un progetto come Neptunian Maximalism oppure il progressive più sperimentale.
Proseguendo il viaggio nelle viscere di “A Grand Strean” i volumi e i ritmi crescono tumultuosamente, saturando l’aria di elettricità: un climax esaltante, che nonostante la difficoltà di comprensione mantiene nelle vicinanze del palco un buon numero di persone, irretite da una proposta non prettamente metallica, eppure perfettamente in linea con quel ‘redefining heaviness’ che funge da tratto comune fra gli artisti in cartellone.
Il finale in turbolenta ascesa si avvicina realmente a certe esperienze ‘al limite’ offerte dalla creatura di Michael Gira e chiude come meglio non si potrebbe il secondo giorno del programma (Giovanni Mascherpa).
SABATO 19 APRILE
Il pomeriggio del sabato si apre in maniera altisonante, grazie ai DØDHEIMSGARD e al loro ultimo “Black Medium Current”: la creatura di Vicotnik ha prodotto due anni fa l’ennesimo capolavoro di una carriera con pochi eguali nel black metal e al Roadburn cerca di darne un’accurata rappresentazione live.
Per farlo si dota di quattro collaboratori esterni, avvalendosi di due cantanti – uomo e donna, con il primo impegnato anche al violino – e due manipolatori di suono, incappucciati e concentrati dietro le loro postazioni: non manca proprio nulla, per instillare nei presenti il caleidoscopio sonoro ed emotivo del disco del 2023.
Il cuore pulsante di questa formazione allargata rimane ovviamente il suo leader Vicotnik, interprete istrionico, per voce e movenze, un genio della composizione che sa indossare i panni del pazzoide attore teatrale/cantante. Il suo inquieto carisma, tra espressioni buffe e stralunate, una voce potente e plastica nel muoversi tra bruciante malvagità e tocchi fatati, il suo cercare il contatto con le prime file e quindi drappeggiarsi uno strano velo sulla testa, magnetizza le attenzioni, senza però nascondere, per fortuna. la qualità intrinseca della musica, torrenziale ed enigmatica, ripetuta con precisione certosina e impeto in questo pomeriggio olandese.
È uno spettacolo eccezionale quello portato in scena dai norvegesi, con le voci aggiuntive a integrarsi perfettamente a Vicotnik, mentre pure i momenti noise ed elettronici vengono resi con assoluta fedeltà. Fittissime e devastanti le parti più fedeli al verbo black metal, nonostante siano le fughe avanguardistiche e siderali, sottolineate da efficaci visual, a causare maggior meraviglia.
Le notturne, delicate note di “Requiem Aeternum”, pongono il sigillo a un’esibizione tra le più immaginifiche ed esaltanti dell’intero festival. (Giovanni Mascherpa)
Più volte si è parlato di STEVE VON TILL citando il fantasma di Mark Lanegan, e le affinità stilistiche sono evidenti, soprattutto se si esaminano le prime opere del leader dei Neurosis (su tutte “If I Should Fall To The Field”).
Negli anni recenti, tuttavia, la musica di Von Till si è discostata progressivamente dai suoi modelli originari, scegliendo percorsi più vicini all’avanguardia con gli esperimenti drone di Harvestman e la rarefazione insistente di “No Wilderness Deep Enough”.
Lo show odierno lo vede presentare in anteprima il nuovo “Alone In A World Of Wounds” con un accompagnamento minimale (violoncello, percussioni, pianoforte e sparuti arpeggi di acustica), in uno scenario che prende per mano David Sylvian e la matura pacatezza di lavori come “Blemish” per accompagnarlo nel deserto dei Giant Sand.
Le canzoni di Steve Von Till sanno come incatenare gli ascoltatori senza mai affrettare il passo, e l’impressione è che i nuovi pezzi (di cui si è avuta su Spotify qualche anticipazione, come con “Watch Them Fade”) rappresentino, in questo contesto, l’apice stilistico del cantautore. Certo, inutile negare quanto ci manchino i rimandi gotici di “A Sun That Never Sets”, oppure la violenza organizzata di “Souls At Zero”, ma Steve Von Till pare ormai oltre, in un territorio che ha come unico legame coi Neurosis il respiro esangue di “The Eye Of Every Storm”, ed è sempre emozionante sentire la sua voce profonda da narratore country muoversi sul palco (Stefano Protti).
Hall Of Fame è una sala relativamente piccola ma con uno stage privo di ristrettezza, ed è qui che sono chiamati a operare i GREY AURA, per farci apprezzare il loro ultimo “Zwart Vierkant: Slotstuk”.
Uscito a fine marzo, ha già provocato eccellenti vibrazioni in molti black metaller – e non solo – che hanno avuto modo di entrarci in contatto: le attese sono quindi abbastanza alte per la formazione di base a Utrecht, e i quattro non deludono affatto.
Se alla base del loro ultimo album ci sono presupposti intellettuali non proprio alla portata di tutti, con riferimenti alla pittura astratta, alle avanguardie e un’analisi psicologica assai cerebrale, i costrutti sonori si rivelano, ancora più che su disco, estremamente vibranti: merito di un’azione strumentale tanto febbrile, chirurgica e ipertecnica, quanto posseduta di grande concretezza.
La band pare suggerire una reinterpretazione in chiave black metal di un modo di pensare ed eseguire il metal estremo mutuato dal death metal più elaborato di scuola novantiana, oppure certe derive extreme metal del progressive metal moderno più contorto, senza dimenticare un’influenza più esplicita come quella dei Dødheimsgard visti poco fa.
Il quartetto concede nulla allo spettacolo, ma non denota sicuramente freddezza, tutt’altro. Eccellenti le prove strumentali di tutti quanti, personalmente ci hanno conquistato gli ondeggiamenti fuori dagli schemi del basso di Sylwin Cornielje e la prova vocale urticante ma con un tocco di teatralità di Ruben Wijlacker.
Il punto centrale del discorso rimane un riffing encomiabile per come tiene assieme complessità e affilatezza, dando a brani come “Een Uithangbord Van Wanhoop” e “De stem, Nu Als Zeeboezem” straordinaria spinta creativa e calore. Se “Zwart Vierkant: Slotstuk” si candida già adesso come uno dei dischi più importanti del 2025, ascoltarlo dal vivo ci conferma la solidità e il talento del quartetto. (Giovanni Mascherpa)
Altro giorno, altro giro di giostra: questa volta coi TEMPLE FANG (che ci eravamo persi al warm-up del festival del mercoledì), psichedelia brada lasciata a se stessa e alla ripetizione, al loop, all’estasi che ne consegue. Le transizioni fluide tra i brani e l’interazione tra i membri della band creano un’atmosfera quasi rituale, culminando in un’ovazione entusiasta, amplificata naturalmente dall’aura ‘esoterica’ (e dunque per ‘pochi eletti’) che aleggia automaticamente nello Skate Park.
L’epica suite “The River” di diciotto minuti basterebbe per l’intero concerto e forse fa venir voglia di ascoltarsi “Lifted From the Wind” (in uscita la settimana dopo il festival per Stickman Records). Altra perla ‘nascosta’ che ha fatto la felicità di molti, confermando ancora una volta la capacità dei Temple Fang di sorprendere e affascinare, consolidando il loro status di culto nella scena heavy psych europea. (Davide Romagnoli)
Abbiamo già parlato di “Odd Love”, il nuovo disco dei COILGUNS in sede di recensione, sottolineando lo sforzo della band svizzera di spostarsi verso territori più accessibili, pur mantenendo il proprio messaggio politico inalterato.
La scaletta dell’album, che il collettivo propone integralmente stasera, mette in luce la straordinaria capacità tecnica della band che, unita alla veemenza dell’esecuzione, avvicina i Coilguns al post-hardcore evoluto degli At The Drive In e dei Cave In, muovendosi tra refrain appiccicosi (“Generic Skincare”) e brani che andrebbero studiati a qualsiasi scuola di pogo (l’opening track “We Missed The Parade”, “Placeholders”), in un’atmosfera che rende convincenti anche i pezzi che su disco ci erano sembrati meno a fuoco (su tutti, la ballata “The Wind Than Wash The Pain”).
Il cantante Louis Jucker si dimostra un performer di grande personalità, capace di saltellare su e giù dal palco, cantando, urlando ed intrattenendo il pubblico senza requie. In definitiva, un concerto che fotografa una band in pieno vigore, che spedisce convinti gli spettatori al banchetto del merchandising della loro Hummus Records e che fa ben sperare, per una loro possibile calata in Italia, ad agosto, insieme agli Envy (i Coilguns saranno gruppo di apertura per una porzione del tour europeo della band giapponese, anche se le date precise non sono ancora state rese note). (Stefano Protti)
I palchi minori meriterebbero un’immersione completa, per il senso di mistero che in molti casi suscitano nomi abbastanza esotici e dagli incroci stilistici non esattamente abituali. Attratti fatalmente da suoni più noti e nomi di maggior rilievo, fatichiamo ahinoi a trovare il tempo anche per qualche sfiziosità sui generis.
Al calar della sera o quasi, riusciamo a fare una bella eccezione e ci dirigiamo al Next Stage per le KUUNATIC. Si tratta di tre giovani ragazze nipponiche che suonano una musica atmosferica, mantrica e surreale, incrociante per sommi capi sonorità ritualistiche non lontane dai canti monacali delle loro terre, e formule stoner/doom vagamente più classiche.
Il ‘vagamente’ è una foglia di fico utile a coprire la nostra difficoltà a conferire una descrizione appropriata a cosa maneggino esattamente queste fanciulle: cantano tutte e tre, in modo quasi continuo, generando l’idea di essere in qualche tempio orientale ad assistere a una lunga, spossante cerimonia; impressione, questa, sottolineata dalle vesti tradizionali indossate per i live e il contegno abbastanza serioso delle musiciste.
I primi minuti, lo dobbiamo confessare, sono sfidanti, complice la decisione di iniziare con un brano assai astratto e con ritmi da dormiveglia. Per fortuna resistiamo, perché quando le tre mettono maggior brio ed enfasi, il connubio di influenze prende significato e l’ascolto si fa meno ostico. Inoltre le canzoni sono abbastanza variegate e tutto sommato più compatte di quanto ipotizzato in partenza, così che l’ora a disposizione, dopo le titubanze iniziali, scorre bene e soddisfa una platea attenta e addirittura partecipe per questa bizzarra creatura. Per la serie, ‘cose molto roadburniane’… (Giovanni Mascherpa)
Ancora presi bene dall’ultimo disco dei Lankum, e dalla loro esibizione dell’anno scorso sul Main Stage, non ci lasciamo sfuggire i due progetti paralleli: eppure, sia quello di Ian Lynch e i suoi ONE LEG ONE EYE, che si presenta come un minimalismo buono ma senza spunti, che quello di Radie Peat e i suoi ØXN, non riescono a entrarci pienamente nel cuore.
Certo, forse per le grandi aspettative che si avevano, soprattutto per un album come quello di questi ultimi, un piccolo gioiellino chiamato “Cyrm”, non riusciamo ad entrare fino in fondo in quello che comunque è un concerto che farebbe la felicità di molti. Che colpa ne abbiamo se, effettivamente, i livelli di esaltazione a cui ci abitua Roadburn alzano l’asticella al soffitto? E poi, soprattutto, quando parte “The Wife Of Michael Cleary”, una delle canzoni che più aspettavamo di sentire live, non siamo stati così ‘trascinati’ nel baratro di murder ballads e dark folk dove avremmo voluto sprofondare? Passiamo comunque per accaparrarci il vinile del disco al merch (passaggio d’obbligo) e ci accorgiamo che è finito. Non eravamo gli unici a sapere che era un grandissimo album. (Davide Romagnoli)
La vicinanza di Next e Main Stage ci fa passare da un mondo all’altro in pochissimi minuti, così salutate le tre ragazze giapponesi è il tempo di accogliere i ragazzi turchi trapiantati ad Amsterdam che rispondono al nome di ALTIN GÜN.
Il loro è il regno della psichedelia speziata, tra immancabili richiami all’Oriente dal quale provengono e influssi funk piuttosto marcati. La loro è un’esperienza visiva e sonora davvero intrigante, partendo da un set strumentale che mette in primo piano dei tamburi del folklore turco, passando per filmati che definire ‘psichedelici’ è un eufemismo e arrivando a un’emulsione sonora dai ritmi tambureggianti, a indurre una stramba associazione alle atmosfere favolistiche de “Le Mille e Una Notte”.
Ma proprio da un reame onirico paiono giungere questi musicisti, già affermati nel giro della psichedelia più contaminata. Dal vivo la loro proposta diventa più potente e affine in qualche maniera a palati normalmente usi a cadenze più urgenti.
Il tambureggiare quasi danzante mette un po’ tutti d’accordo, è difficile stare fermi: la finezza degli arrangiamenti nulla toglie all’immediatezza e alle tonalità multicolori che sanno trasmettere. La formazione ha normalmente un’attività live piuttosto intensa e si vede, nei sincronismi perfetti e nel sobrio, sicuro rapportarsi alla platea, per buon parte ben conscia di chi ha davanti e di quanto prodotto negli ultimi anni.
Sonorità così effettate e ‘viaggiose’ sono uno degli aspetti più popolari del festival e la versione morbida e abbastanza pacata degli Altin Gün fa perfettamente centro (Giovanni Mascherpa).
La cantautrice canadese ORA COGAN, per quanto possa essere comprensibilmente poco nota in contesti metal e limitrofi, è artista non così underground rispetto al grosso dei nomi in cartellone. Entrare in sala per il suo concerto non è semplicissimo, lo spazio si riempie in fretta, confermando la bontà di averla in orario serale sul Next Stage.
Le note calde e confortevoli della sua musica, radicata nel folk nordamericano, poeticamente ombrosa e variopinta, si spandono sinuose e brillanti, con un buon dinamismo in molti frangenti. La formazione a sei elementi, con due violini e una tastierista a garantire arrangiamenti stratificati e di varie tonalità, si fa apprezzare per la corposità che riesce a dare alle canzoni, mediando tra l’anima acustica ed elettrica.
L’artista canadese affronta un pubblico comunque un po’ diverso dai suoi normali standard con un largo sorriso e voce sicura, destreggiandosi benissimo tra parti vocali e chitarristiche. Nelle partiture più ariose e movimentate si scorgono influenze alternative e post-punk, avvicinandola a tutto quell’universo di sonorità contaminate nel quale molto metal odierno è finito per approdare.
Un concerto davvero riuscito, ben più scorrevole di altre artiste che magari partono da input simili, ma poi si dedicano a sonorità più raccolte e minimali. (Giovanni Mascherpa)
Ad entrare nel podio delle migliori performance ci sono senza dubbio i PAGENINETYNINE (PG99), da cui non ci aspettavamo chissà cosa, e invece ci regalano un tripudio di chitarre,bassi (almeno sette…) e due cantanti che si incontrano nel fare stage-diving in mezzo alla folla, mentre una funambolia post-hardcore ci culla a suon di sberle e pugno alzato.
La band, originaria della Virginia, porta sul palco di Tilburg un’energia travolgente, confermando il suo status di culto nella scena underground, con un set che è un concentrato di caos controllato, con brani come “In Love With An Apparition” e “Your Face Is A Rape Scene” capaci di scatenare il pubblico in un vortice di emozioni.
La performance evidenzia la capacità unica della band di fondere intensità emotiva e tecnica musicale, creando un’esperienza live immersiva, familiare, di un underground massificato per l’occasione sia su palco che sotto.
Il ritorno dei PG.99 al Roadburn non è stato solo un concerto, ma un vero e proprio evento culturale, che ha riunito fan di vecchia data e nuove generazioni sotto il segno della passione per la musica estrema e autentica. Un momento in grado di sottolineare ancora l’importanza del festival come piattaforma per la celebrazione e la riscoperta di band seminali della scena underground: a testimonianza di ciò, “Document#8”, forse pietra miliare della discografia della band, era già finito al merch prima del concerto. (Davide Romagnoli)
È un’accoglienza da veri headliner, quella goduta dai CHAT PILE, divenuti nel giro di due dischi uno dei nomi più chiacchierati in ambito metal, noise e sonorità alternative trasversali più in generale.
Un hype giustificato da due album che, pur senza compiere rivoluzioni, riportano in auge il noise rock nel suo formato migliore, scattante, coinvolgente e sordidamente tentatore. Canzoni vere, fatte per entrare in testa e restarci. Non è un mistero che contribuisca a questo successo l’immagine trasandata, da redneck, di questi musicisti, che paiono prendersi ben poco sul serio e innestano un sentore di cazzaro e divertito nel loro modo di suonare e stare al mondo.
Il Main Stage è pieno zeppo quando si presentano e gli occhi cadono per forza di cose sul ciondolare del cantante Raygun Busch, una vita vissuta a piedi nudi e pancetta in bella mostra, come se stesse perennemente a tracannare birre sul prato di casa, incurante di tutto ciò che gli accade intorno. Via allora a una scaletta infarcita dei piccoli classici del genere messi in fila in “God’s Country” e “Cool World”, con predilezione per quest’ultimo, probabilmente ancora più a fuoco e debordante, anche se magari meno inventivo, del full-length d’esordio.
Se qualcuno avesse ancora dello scetticismo per la formazione dell’Okhlaoma, la prova del Roadburn lo polverizza totalmente: strumentalmente selvaggi e rigorosi come il genere richiede, i Chat Pile hanno nella personalità vocale del proprio leader un asso nella manica difficile da replicare. E lo sfruttano benissimo, davanti a un pubblico adorante e ripagato integralmente di tutta la propria passione (Giovanni Mascherpa).
DOMENICA 20 APRILE
Quanto rumore può fare il nulla? Se per caso questa domanda vi fosse mai sorta nella mente, a darci un’esaustiva risposta sono i giapponesi ENDON. Sembrano lontani i tempi di “Mama” e delle sue assassine scariche noise contaminate di death, black metal e grindocore. Successivamente gli Endon si sono attorcigliati su se stessi, concependo un paio d’album meno eclatanti, “Boys Meets Girl” e “Fall Of Spring”, seppur dignitosi.
Dal vivo, il senso di inconcludenza e inutilità si palesa invece fin dai primi istanti: due dei tre componenti se ne stanno ai lati ad armeggiare con effettistica varia, tesa, eccessiva e spezzettata. Nel mezzo, il cantante urla senza un apparente filo logico, mettendo assieme tra tutti e tre un’esibizione che forse solo i più famelici consumatori di noise totalmente destrutturato potrebbero apprezzare. Non succede praticamente nulla degno di nota per l’intero set. Vero che riescono ad immergerci in un immaginario disturbante e disagevole – tutto sommato, i visual dietro i musicisti appaiono ben studiati – però la sensazione è che tutto quel rumore vada a coprire, maldestramente, un tremendo vuoto di idee. Bocciatissimi. (Giovanni Mascherpa)
C’è un luogo comune che porta a considerare gli spettacoli acustici come un’occasione per presentare, in versioni più edulcorate, i brani del proprio repertorio. MICHAEL GIRA & KRISTOF HAHN, da anni nucleo pulsante e pensante degli Swans, non si piegano a questo concetto, ed impiegano i sessanta minuti messi loro a disposizione in un Next Stage gremito di appassionati e curiosi per fare una sorta di selezione all’ingresso, riversando a volumi inumani dalle casse un’introduzione desertica che omaggia i Giant Sand e alcuni anticipi del diciassettesimo album di inediti (“The Healers”, “I Am A Tower”), che trasportano il folk noir dei Death In June in un territorio noise.
Quella di Michael Gira è la voce di uno che grida nel deserto venuto dopo un’apocalisse nucleare, cianciando di amori perduti e ricordi, che solo momentaneamente si fa ammansire dalla dolcezza di una melodia gospel (la toccante versione di “It’s Coming, It’s Real”, da “Leaving Meaning”).
Mentre una piccola parte della platea abbandona fisiologicamente la sala cercando qualcosa di più potabile, il duo mette in scena uno spettacolo catartico, con Hahn che riempie ogni spazio vuoto tra feedback, effetti sonori e svisate di slide, e Gira che lo segue suonando ossessivamente la chitarra acustica in downstroke, rivelando il suo passato remoto nella nowave, chiudendo con un frammento per sola voce (“You Will Pay”), recitato con la sua stupenda ed inconfondibile voce da sermone. (Stefano Protti)
Una delle ‘artist in residence’ di questa edizione, MIDWIFE suona il suo terzo è ultimo concerto nel pomeriggio domenicale, presentando una selezione di canzoni del periodo 2017-2020.
Qui è da sola, a differenza delle altre due esibizioni, solo lei, la sua voce lievemente effettata e la chitarra elettrica. Un saggio di tenue minimalismo, il suo, musica celestiale e straniante. Chi scrive ha poca dimestichezza con il materiale di Madeline Johnston e bisogna ammettere che, almeno in una cornice così ridotta all’osso, è difficile provare vibrazioni particolari durante il set. L’assenza di altri strumenti a valorizzare le pacatissime atmosfere indotte dall’artista di Denver si fa sentire, lasciando fin troppi vuoti rispetto a come i brani erano stati inizialmente pensati e realizzati.
Midwife suona bene e ha una vocalità magnetica che rimane in testa, tuttavia in questa versione il suo stile è sembrato fin troppo pacato e avaro di sfumature cui aggrapparsi. Affascinante, certo, e nient’affatto ordinario, eppure non così incisivo come ci saremmo aspettati (Giovanni Mascherpa).
Tra le molteplici sfumature di ‘heaviness’ esplorate al Roadburn 2025, la performance di CINDER WELL rappresenta un momento di rara intensità emotiva: Amelia Baker, l’artista dietro il progetto, ha portato sul palco una miscela unica di folk tradizionale e sperimentazione sonora, creando un’atmosfera sospesa tra il sacro e il profano.
Originaria della California e successivamente trasferitasi in Irlanda, Baker ha assorbito le influenze del folk tradizionale irlandese, integrandole con le sue radici nella scena punk DIY americana: il risultato è una musica che evoca paesaggi marini e nebbiosi, con melodie che sembrano emergere direttamente dalla terra e dal mare. Il suo ultimo album, “Cadence”, ne è un esempio lampante, con brani che si dipanano come racconti antichi, sospesi nel tempo.
Durante il suo set al Roadburn, Cinder Well propone una selezione di brani tratti da “Cadence” e “No Summer”, tra cui “Two Heads, Grey Mare”, “Overgrown” e “No Summer”. La sua voce eterea, accompagnata da arrangiamenti minimali, cattura l’attenzione del pubblico, creando un’atmosfera di raccoglimento e introspezione. Il silenzio reverente della sala testimonia la potenza emotiva della sua esibizione.
Per Amelia Baker, esibirsi al Roadburn è stato un traguardo significativo: in passato, aveva suonato come busker tra le vie di Tilburg durante il festival; quest’anno, invece, è salita ufficialmente sul palco, realizzando un sogno a lungo coltivato. (Davide Romagnoli)
È l’ultima di cinquantasei date di tour europeo, quella del Roadburn, per TOBY DRIVER e i suoi musicisti. Assieme all’altro suo progetto Alora Crucible hanno toccato parecchi angoli del Vecchio Continente, affacciandosi nuovamente dalle nostre parti dopo qualche anno di assenza.
Un piccolo/grande eroe dell’underground, questo mite e gentile personaggio, mai baciato da vero successo ma sempre pronto a spendersi con tutta la sua anima per offrirci musica eterea, di grande finezza. Da solista, tocca corde molto intime e fragili, facendo scorrere emozioni in punta di piedi, suonando con destrezza ma cercando di non creare rotture, non alzare i toni, tenendosi misurato e composto.
Per una volta non c’è ressa in sala, nelle ore del tardo pomeriggio inizia ad esserci stanchezza e meno motivazione per presenziare attivamente ai concerti. Eppure Toby e la sua band non se ne curano, dando un saggio delle proprie abilità compositive, in composizioni eteree, quasi da musica da camera. Chitarre e tastiere, la voce maschile e quella della brava tastierista Ana Cristina Pérez Ochoa si intrecciano e si sciolgono in modo liberatorio, in un processo di purificazione dalle negatività e di ovattata estasi.
Solo sei canzoni per loro, passando in rassegna tutti i dischi editi in veste solista, dando ovviamente risalto all’ultimo “Raven, I Know That You Can Give Me Anything” e accomiatandosi con un estratto dal capolavoro “They Are The Shield”, “Gliph”. (Giovanni Mascherpa)
Le carriere di Messa e PONTE DEL DIAVOLO stanno percorrendo il medesimo sentiero, con una differita di cinque anni; così, mentre i veneti hanno mostrato, con uno show sul Main Stage, di essere una realtà consolidata nella scena metal, i torinesi, appena approdati alla Season Of Mist, si aprono alla curiosità del pubblico internazionale attraverso due concerti.
Il primo spettacolo è uno secret show allo Skate Park il sabato, occasione per misurarsi in un inedito clima da sala prove e senza alcuna distanza dagli spettatori con il repertorio dei loro primi EP, dove spicca la sensualità maligna di “Un Bacio A Mezzanotte” ed un brano inedito; ma è giocoforza il concerto ufficiale al Next Stage a convincere definitivamente delle potenzialità della band.
In questa occasione l’intera scaletta di “Fire Blades From The Tomb” viene appropriatamente sviscerata, per mostrarne la stretta parentela con l’occult rock della Black Widow (“Demone”, “Nocturnal Veil”) ed il doom (“Zero”), in uno show reso trascinante da una sezione ritmica formata da una batteria e due bassi, e dalla cantante Erba Del Diavolo, capace di ipnotizzare la platea con un contatto visivo continuo ed una notevole padronanza vocale.
Lo show si chiude con la versione di “The Weeping Song” di Nick Cave già presente in coda all’album, in un duetto con Davide Straccione degli Shores Of Null; per chi scrive, con questo concerto i Ponte Del Diavolo hanno mostrato il miglior biglietto da visita possibile al mondo. (Stefano Protti)
Altra prestazione clamorosa è quella che ci sbattono in faccia altri baldi giapponesi come gli scatenati BO NINGEN: provenienza Estremo Oriente, attuale localizzazione Londra, tant’è che se si vive da quelle parti non è raro imbattersi in questi dioscuri della psichedelia moderna.
Ciclicamente vengono a fare un salto a Tilburg e questa volta passano in rassegna nella sua interezza l’album “Line The Wall” del 2012. Come non di rado accade per chi impegnato in ambito rock psichedelico – in questo caso molto sperimentale, effettato, contaminato di krautrock – dal vivo volumi e bizzarria deflagrano con particolare successo, rendendo le cose ben più heavy di quanto accade su disco.
Coi Bo Ningen la situazione diviene subito elettrizzante, con l’accoppiata di “Saku”-“Henkan” a scandire un clima immediatamente delirante, sia sopra che sotto il palco. Dire che il cantante/bassista Taigen Kawabe manifesti entusiasmo, ci pare una descrizione per nulla esaustiva: è totalmente posseduto dalla musica e i suoi compagni non sono poi tanto dietro di lui in tal senso.
Si rimane interdetti, in senso positivo, di fronte a una tale pirotecnica prova di forza, culminata nella suite finale “Natsu No Nioi” di oltre un quarto d’ora, che come da abitudini psichedeliche viene disseminata di improvvisazioni, incisi, fughe in avanti, mentre gli strumenti e i musicisti sembrano sul punto di andare totalmente fuori controllo. C’è anche chi approda in sala, arrivando da altri concerti, e rimane travolto da questo colpo di coda, rammaricandosi di essere stato altrove nel frattempo.
Uno degli show più riusciti di questa edizione. (Giovanni Mascherpa)
Finora nome di seconda fascia della scena post-metal continentale, i belgi POTHAMUS provano a darsi slancio con uno slot importante, al crepuscolo del festival. Nonostante le presenze allo 013 inizino a ridursi e la pioggia all’esterno sembri ricordarci che il ritorno alla realtà di tutti i giorni si avvicina, al Next Stage ci sono ancora discreti numeri.
Il terzetto suona integralmente il suo secondo album “Abur”, edito a febbraio di quest’anno per Pelagic: quanto espongono questi ragazzi non è il ‘solito’ post-metal figlio di The Ocean, Cult Of Luna o AmenRa, tenendosi piuttosto verso una sorta di sludge moderno, levigato, sì vicino al taglio ‘post-’ dei nomi citati, nelle chitarre e nel sentire densamente plumbeo, ma che prende una piega tribale, di musica d’atmosfera non per forza così pressante e metallica.
Un mondo di suoni sperimentali ma in fondo abbastanza stringati e dritti al punto nel risultato finale. Metal ombroso, quasi un greve mantra che potrebbe richiamare il taglio lisergico e di perdizione del mondo stoner, filtrato dall’ottica del post-metal: ne esce uno strano e affascinante ibrido.
Si esce un poco dalle convenzioni, la prova vocale è a sua volta più incline a dei puliti affini al prog moderno che non a voci sporche e ruggenti, le ritmiche solo a sprazzi riportano alle mente crescendo ed esplosioni ‘alla Cult Of Luna’ e il concerto tutto rifulge di una relativa freschezza. Non ci sbilanciamo oltre, non stiamo parlando di una ‘next big thing’ del settore, certamente si spiega alla luce di questa prestazione l’averli messi in questo slot, senza che magari avessero il pedigree di altri nomi in cartellone. (Giovanni Mascherpa).
Impossibile (o quasi) perdersi il secret show di Uniform e THOU (prima uno, poi l’altro), con questi ultimi che ormai sono diventati un vero meme per i concerti ‘aggiunti’ al Roadburn: ahinoi, purtroppo non riusciamo a vedere i primi e ci accontentiamo dei secondi, tanto onnipresenti quanto onnipotenti.
Una sicurezza che, forse, in una dimensione come questa, assume una valenza ancora più connotante, attraverso magliette sudate, foto post-concerto con molti degli artisti che hanno suonato al festival e con Walter, l’organizzatore: tutti riuniti in una manifestazione dello spirito del festival. Un giro di brindisi a tutti, ancora a suon di Trappe Isidor e sberle sludge.
La scaletta è ancora una volta differente, ma la forma rimane invariata; segnaliamo però l’interessante scelta di alcune cover dei Pygmy Lush, presenti nella kermesse ma purtroppo sfuggiti a causa delle sovrapposizioni, e una dei Cower, band di culto semi-sconosciuta.
Lo spirito degli americani per ‘l’esclusività’ sembra non avere confini: il tutto contribuisce, insieme a degli altri brani dei primi lavori suonati allo Skate Park, a rendere davvero memorabile l’esibizione, forse ricordandoci che, nonostante gli altri tre contesti dove hanno suonato in questi giorni, forse è quella situazione vis-a-vis che rende del tutto giustizia a un nome, ormai di culto, come quello dei Thou, ormai padrini assoluti di questo festival. (Davide Romagnoli)
Siamo ormai giunti alla fine, stanchi e contenti. I saluti ce li danno gli HAUNTED PLASMA, per un’altra sonora botta di psichedelia metallica cosparsa di elettronica. Guardando chi sale sul palco, intuiamo che potrebbe già essersi interrotta la collaborazione con Kvohst (Grave Pleasures, Hexvessel), inconfondibile voce nel debutto “I”. Al suo posto una cantante donna, di cui non riconosciamo l’identità, efficace nel sostituire un interprete così distintivo come chi l’ha preceduta.
Se “I” si era installato tra le pubblicazioni metal ‘contaminate’ più autorevoli e accattivanti del 2024, la prova live conferma le qualità di questa nuova creatura di Juho Vanhanen, chitarrista/cantante e mente degli Oranssi Pazuzu. Per molti aspetti il concerto ricorda proprio quello della sua creatura più nota, svoltosi tre giorni prima: visual immersivi, luci che rendono leggermente sfuggenti le figure dei musicisti, una coltre di suono spessa, mutevole, ritmi ipnotici e, in questo caso, una vocalità mesmerizzante.
La musica più che colpire duro pare galleggiare incorporea su di noi, facendo viaggiare l’immaginazione senza divenire chissà quanto astratta. I brani dell’album vengono suonati fedelmente, il corredo di effetti e la patina elettronica resi bene sotto ogni punto di vista. Forse per la nostra stanchezza, riceviamo minore ‘botta’ rispetto ad altre band che hanno messo a ferro e fuoco lo 013 con la loro colorata psichedelia, ma si tratta di un’impressione non così definita e netta.
Gli Haunted Plasma ad ogni modo convincono e al termine resta solo il tempo per una foto di rito spalle al palco, con i compagni di viaggio, e la promessa fatta a se stessi di ritornare per la prossima edizione. Perchè, che se sia venuti qui per la prima volta, come nel caso di chi scrive, o si sia al contrario dei frequentatori abituali, è difficile non restare incantati dal fascino magnetico di questa manifestazione.
Per la qualità delle esibizioni, il contesto organizzativo impeccabile, l’atmosfera elettrica e appassionata, è difficile trovare qualcosa di paragonabile a quello che abbiamo vissuto in questa frenetica settimana a Tilburg.
L’invito è di provare l’esperienza, almeno una volta nella vita, per capire cosa sia effettivamente il Roadburn. Difficile che non tocchi il cuore. (Giovanni Mascherpa)