A cura di Luca Pessina
L’olandese Roadburn è forse il festival di culto per eccellenza. Da sempre indoor, da sempre orientato su sonorità di nicchia (anche se, a onor del vero, ultimamente piuttosto trendy, pur nel loro piccolo), quasi sempre sold out nel giro di pochi minuti, causa la capacità ristretta dello 013 – il locale di Tilburg nel quale viene ospitato da qualche anno a questa parte – e la precisa volontà degli organizzatori di mantenerlo di dimensioni ridotte e appunto “per pochi”. Dopo inizi prettamente stoner/doom e psichedelici, l’evento si è avvicinato sempre più al mondo prettamente metal con il passare degli anni, soprattutto in seguito alla maggior popolarità ottenuta da scene trasversali come quelle “post” metal/hardcore e all’esplosione di band dal seguito altrettanto indefinibile come i vari Neurosis, Enslaved, Isis o Sunn O))), tutte invitate a prendervi parte in tempi più o meno recenti. Tuttavia, lo spirito originario del festival è rimasto grosso modo inalterato: un numero di gruppi per giorno mai eccessivo, esibizioni piuttosto lunghe rispetto alla media, un’atmosfera generalmente molto rilassata, volta a incentivare l’incontro fra musicisti e pubblico e a rendere la tre giorni un’esperienza tutto fuorchè caotica o stressante. Si viene al Roadburn per godersi la musica e per conoscere nuove persone, senza dover far fronte a code interminabili o doversi accontentare di esibizioni allestite in fretta e furia, dalla durata esigua o preparate senza sound-check. La cura per i dettagli e la succitata atmosfera “easy” rendono il Roadburn un evento imperdibile e lungamente atteso per ogni amante di un festival inteso come vera e propra rassegna musicale. Metalitalia.com è dunque lieta di presentarvi un resoconto dell’edizione appena trascorsa: ovviamente le band visionate sono state molte di più di quelle elencate di seguito, ma abbiamo preferito recensire soltanto quelle i cui show sono stati seguiti per intero o quasi, al fine di evitare di scrivere cose inesatte o non completamente accurate.
ALCEST
È il "post" black metal atmosferico degli Alcest il suono scelto dagli organizzatori per aprire il Roadburn 2011. La sala principale è già gremita di fan e semplici curiosi quando la band francese calca il grosso palco. Sappiamo già che, a livello di presenza scenica, non dobbiamo aspettarci molto; infatti, per tutto l’arco dello show, i nostri rimarranno praticamente immobili, preoccupandosi esclusivamente di suonare. La sola proposta, comunque, riesce a intrattenere a dovere, anche se rispetto allo show a cui assistemmo l’anno scorso, oggi notiamo un po’ di freddezza in più, forse causata dalle notevoli dimensioni del palco, che mal si presta ad ospitare un gruppo "timido" e dal suono intimista come quello degli Alcest. In ogni caso, composizioni come "Printemps Emeraude" e la vecchia "Le Secret" riescono ugualmente a far sognare a occhi aperti, fungendo da introduzione adeguata a questa nuova edizione del festival.
YEAR OF NO LIGHT
Gli Year Of No Light sono "di casa" al Roadburn, avendo pure registrato qui un live album pochi anni fa. Si vede che la band francese è molto attesa: la Green Room, in cui è situato il palco "medio", è letteralmente sul punto di esplodere quando riusciamo a entrarvi. Si fa fatica a muoversi e la sensazione di soffocamento viene ulteriormente amplificata dalla pesantezza estrema delle chitarre dei nostri, che dal vivo diventano ancora più impietose. La maggior parte dello show è strumentale e incentrata sul recente "Ausserwelt", cosa che lascia un po’ di amaro in bocca ai fan del vecchio materiale come il sottoscritto, che era ansioso di ascoltare una "Les Mains De L’Empereur" tratta dall’ottimo "Nord", mirabolante incrocio fra sludge, black metal e dark wave ottantiana. Tuttavia, non si può certo dire che i "post" metallers transalpini facciano una brutta figura… anzi! Il loro, alla fine dei conti, risulta comunque uno dei migliori concerti di questo Roadburn. Un’atmosfera speciale abbinata a un impatto davvero notevole.
COUGH
Proseguiamo sul sentiero delle distorsioni ultra sature andando a visionare gli americani Cough, una delle recenti scoperte della Relapse. Doom-sludge pesantissimo e venato di influenze southern in alcuni passaggi, che il pubblico accoglie a braccia aperte. Forte l’impatto della band, che, almeno dal vivo, fa leva su un’attitudine prettamente metal, con headbanging forsennato e continui incitamenti ai fan. Questo modo di porsi porta a scaldarsi e a entrare definitivamente nell’atmosfera da festival. Ci si lascia investire dalle mattonate del quartetto e ci si gode ogni singola nota, senza far troppo caso alle evidenti similitudini con i vari Electric Wizard e Cathedral.
TODAY IS THE DAY
Inspiegabilmente, i Today Is The Day propongono un set molto stringato (poco più di mezzora), pur avendo a disposizione il doppio del tempo. Ciò nonostante, tutti gli interrogativi passano in secondo piano non appena torna alla mente l’esecuzione della magnifica "Going To Hell", brano principe del concerto e manata in pieno volto che ci fa letteralmente godere. Steve Austin è un uomo di poche parole, non sappiamo se sia il suo consueto modo di fare o se sia semplicemente svogliato, tuttavia ciò indispettisce solo alcuni. È la musica a parlare e per noi questo basta e avanza. La "botta" è notevole, il pubblico è caldo e le principali "hit" del repertorio vengono suonate. Certo, si poteva fare qualcosa di più, ma la mezzora trascorsa in compagnia dei Today Is The Day è comunque di quelle da ricordare.
GODFLESH
“Streetcleaner” suonato per intero non è un evento da sottovalutare. I Godflesh si presentano al Roadburn dopo il grande successo sin qui riscosso nei (pochi) concerti post-reunion e decidono di fare le cose in grande, proponendo il loro seminale debut album per intero e le canzoni incluse nell’EP “Tiny Tears” (mai uscito ufficialmente, ma incluso come bonus nella ristampa dell’album). Sullo sfondo vengono trasmesse immagini richiamanti l’artwork del lavoro, mentre sul palco Justin Broadrick e G.C. Green sembrano quasi due puntini: sostanzialmente immobili, l’uno non troppo distante dall’altro, con attorno soltanto il minimo necessario per riproporre “live” il loro metal industriale (vale a dire una chitarra, un basso e un computer portatile). Non viene fatto alcun cenno al pubblico e non si ricorda una sola parola pronunciata al di fuori di quelle dei versi dei brani. I Godflesh sembrano quasi suonare per loro stessi: i pezzi di “Streetcleaner” scorrono uno dopo l’altro, diversi dalle versioni in studio esclusivamente per la voce più affannata di Broadrick e per qualche passaggio di chitarra un po’ più slabbrato. C’è poco da vedere e, infatti, chi non è propriamente fan del gruppo decide di sedersi o addirittura di andarsene. Gli altri restano in ascolto, quasi ipnotizzati. L’esperienza, in effetti, è piuttosto surreale: si tratta di un concerto, ma la natura della musica e l’approccio degli artisti in questo caso non permettono di lasciarsi più di tanto andare. Chi scrive apprezza comunque, perchè è un grande fan del disco, ma il pubblico è diviso. La freddezza è tanta, forse troppa. “Tanto vale ascoltarsi il CD”, dicono in molti. Insomma, come sempre, i Godflesh scuotono e dividono. Una volta lo facevano con i lavori in studio, ora con le loro esibizioni. Prendere o lasciare.
SOILENT GREEN
Tutto quello che aveva latitato nello show dei Godflesh compare a vagonate in quello dei Soilent Green, formazione che di certo non va troppo per il sottile quando si esibisce live. Il death-grind dalle atmosfere sudiste del gruppo di New Orleans è quanto di più "caldo" e ignorante sia in programma oggi al Roadburn e non è un caso che per la prima volta dall’inizio del festival si assista a un bel po’ di pogo. Il quintetto questa sera è in forma e ci tiene a ben figurare, dato che non ha l’opportunità di suonare in Europa molto spesso. Come sempre, sono i brani di "Sewn Mouth Secrets" a fare la parte del leone: Louis Benjamin Falgoust II si "sbatte" correndo da una parte all’altra del palco, aizzando la folla e facendo headbanging persino mentre canta, e il resto della band lo segue a ruota, vomitando odio sottoforma della collaudatissima miscela di death metal, grindcore e sludge di cui i nostri sono alfieri sin dagli esordi. Davvero intensa la loro performance, che rinfranca gli animi in un’ultima carica all’arma bianca prima del meritato riposo.
WINTER
Autori nel lontano 1990 di un vero e proprio album di culto con "Into Darkness", i Winter sono da sempre stati un nome per pochissimi. Del resto, il loro death-doom metal non poteva proprio ambire a un successo più ampio: troppo lento, brutale ed esasperato per ingolosire le masse. Ma c’è chi per anni ha custodito nella sua collezione il suddetto album e ha continuato a sperare in una reunion per una performance live. Cosa che è avvenuta quest’anno, espressamente su invito degli organizzatori del Roadburn, a quanto pare anch’essi grandi fan della formazione newyorkese. Quando vediamo il trio sul palco principale quasi stentiamo a credere ai nostri occhi. Il bassista/cantante John Alman sembra appena uscito dal suo ufficio, con la camicia e i capelli corti, ma la voce è tutto sommato rimasta quella degli anni ’90: spietata e cavernosissima. Solo cinque tracce per la band, ma la notevole lunghezza di queste ultime riesce a coprire con facilità l’ora a disposizione. "Goden" e "Into Darkness" i pezzi che riscuotono maggior successo, ma, a ben vedere, è l’intero concerto a catturare, dato che le pause sono ridotte al minimo e il gruppo suona legando una traccia all’altra. A livello scenico, niente da segnalare, dato che i nostri si muovono di pochissimo dalle loro posizioni iniziali; fanno un certo effetto le immagini trasmesse sullo sfondo, richiamanti la grafica dell’album, ma a rimanere impressa è soprattutto la prestazione del trio, che peraltro ha in Joe Gonclaves un ottimo batterista. In definitiva, il come-back dei Winter si dimostra felice e appagante. La band a fine show appare molto emozionata e siamo convinti che sia tornata a casa col sorriso sulle labbra.
CORROSION OF CONFORMITY
Da qualche tempo i Corrosion Of Conformity se ne vanno in giro per gli Stati Uniti e per l’Europa a suonare i loro classici della primissima ora. Ridotti a trio, visto che Pepper Keenan non ha voluto partecipare alla reunion, gli americani sono sostanzialmente tornati a essere un gruppo speed-thrash, recuperando tutta quella urgenza e quella cattiveria rintracciabili in un album come "Animosity". Gli anni sono passati anche per loro, ma quando calcano il palco del Roadburn i nostri danno vita a un gran bel concerto. Ritmiche serrate, gran lavoro di chitarra solista e voci sì sgraziate, ma che fanno bene il loro lavoro, coinvolgendo un pubblico che di brano in brano sembra sempre più attirato dalla proposta. Al batterista Reed Mullin spetta poi il compito di introdurre i pezzi: scelta azzeccata, visto che il Nostro si dimostra personaggio dotato di grande simpatia e carisma. L’ora a disposizione dei Corrosion Of Conformity vola infatti via fra le tracce di "Animosity" lanciate a briglie sciolte e alcuni divertenti aneddoti. Piace soprattutto la maniera in cui il gruppo interpreta il materiale, spesso vicina alle sue radici hardcore. Pochi fronzoli, tanta passione e spontaneità. A oggi, una reunion che ha il suo perchè.
HOODED MENACE
La "minaccia incappucciata" va senza dubbio annoverata fra le migliori scoperte della sempre attenta Profound Lore Records. Il gruppo death-doom finlandese ha messo a segno un gran bel colpo con il suo ultimo full-length, "Never Cross The Dead", e questa sera ha finalmente la possibilità di proporre il suo pesantissimo sound davanti a un’audience degna di questo nome. La sala "media" è infatti piena di gente quando i quattro Hooded Menace (ovviamente incappucciati!) salgono sul palco. Sullo sfondo viene proiettato un curioso film (a occhio, di una trentina di anni fa) con protagonisti druidi e misteriose creature, cosa che contribuisce a rendere l’atmosfera ancora più surreale. Poi però, quando il frontman Oula Kerkelä sfodera il suo micidiale growl e il resto della band inizia ad allestire trame arcane e pesantissime, l’attenzione si sposta sul pubblico, che dà vita a una sessione di headbanging che ha dell’incredibile. Davanti a uno stile che può essere definito come il risultato di una jam fra Asphyx, primissimi My Dying Bride e Candlemass, decine di teste iniziano a ondeggiare avanti e indietro, a tratti lasciando stupita persino la formazione, che si compiace e interpreta i brani con ancor più foga. In circa tre quarti d’ora gli Hooded Menace passano in rassegna il meglio del loro repertorio con estrema efficacia, dimostrando che anche un gruppo inizialmente nato per essere un progetto da studio può rapidamente diventare una live band di tutto rispetto.
THE SECRET
Ultimissima band a esibirsi nella giornata di venerdì, i The Secret mandano tutti a dormire con una performance a dir poco feroce, che conferma quanto di buono sia stato detto su di loro negli ultimi tempi. I nostri si esibiscono sul palco minore, ma davanti a loro vi è una nutrita schiera di fan e curiosi ansiosi di gustarsi il materiale del fortunato "Solve Et Coagula" dal vivo. Proprio da quest’ultimo viene estratta la totalità dei pezzi proposti, tra cui spiccano la debordante "Antitalian" e la più composta "Bell Of Urgency". Marco Coslovich, al centro del palco, domina la scena, sputando odio con il suo screaming senza compromessi. Al suo fianco, il chitarrista Michael Bertoldini si danna l’anima nel riproporre il riffing e l’effettistica dell’album con estrema fedeltà, sporcando il tutto con ulteriore crudezza e urgenza. In concerto, i brani risultano infatti ancora più estremi e parossistici, spesso vicini come attitudine a stilemi prettamente grind. Il pubblico apprezza non poco e, anche se non si segnala nessun focolaio di pogo, l’impressione è che gli astanti siano decisamente colpiti dall’esibizione. Su tutto, lo dimostra il grande applauso tributato al momento dei saluti; quello dei The Secret è stato senz’altro uno degli show più intensi di questa edizione del Roadburn.
CANDLEMASS
Invitati a prendere parte al Roadburn 2010 con la lineup originale, per proporre per intero il capolavoro "Epicus Doomicus Metallicus", i Candlemass furono costretti ad annullare la loro apparizione a causa dell’ormai famigerato vulcano islandese, le cui ceneri immobilizzarono buona parte del traffico aereo europeo per circa una settimana. Per fortuna, l’organizzazione ha lasciato che la band recuperasse quest’anno, invitandola a proporre lo show esattamente come era stato concepito in principio. Quando arriviamo nella sala principale, il concerto è sul punto di iniziare e, francamente, ci stupisce constatare che i Candlemass abbiano deciso di partire con del materiale cantato dal frontman attuale, Robert Lowe. Brani come i classici "Mirror Mirror", "At the Gallows End" e la recente "Hammer Of Doom" vengono accolti assai calorosamente, anche se Lowe più volte si fa "beccare" a leggere i testi. I suoni sono molto potenti e definiti e il resto della band appare particolarmente carica e motivata. Scatenato soprattutto Leif Edling, che a quasi 50 anni sembra ancora un ragazzino sul palco (e, in generale, ben più in forma dei suoi colleghi). Il meglio, comunque, arriva come previsto con la parte dedicata al debut album. Johan Längqvist si presenta on stage in punta di piedi, ma bastano pochi minuti affinchè entri a pieno nella parte del frontman, muovendosi con disinvoltura e denotando una grande simpatia. Almeno sotto questo punto di vista, il confronto con Lowe viene vinto su tutta la linea: da un lato abbiamo infatti un omone con una gran voce, ma che si atteggia con delle mossette improponibili e che non sa nemmeno i testi a memoria; dall’altro una persona ben più spigliata, che evita un’attitudine pseudo-teatrale in favore di una maggior genuinità. In ogni caso, utti i brani di "Epicus…" vengono suonati dal gruppo con la stessa passione che aveva caratterizzato l’incipit dello show, tanto che questa "parentesi" finisce per rivelarsi uno dei momenti topici dell’intero Roadburn 2011, ineguagliata nemmeno dai successivi bis, durante i quali i due cantanti arrivano a duettare sul classico dei Blue Öyster Cult "Don’t Fear the Reaper" e sulla bella "Darkness In Paradise".
VOIVOD
Da consegnare ai posteri l’esibizione di sabato dei Voivod, che, a dire il vero, avevano già suonato la sera precedente, ottenendo un successo clamoroso. Doppio show per loro, insomma: il primo all’interno del Midi Theatre, teatro situato a pochi minuti a piedi dallo 013, e ora sul palco principale, per una doppietta che forse in molti non si aspettavano poter essere tanto esaltante. Guidati da uno Snake a dir poco scatenato, il leggendario gruppo canadese semina panico ed esaltazione fra le prime file, puntando, a ragione, su una scaletta incentrata su parecchi dei brani migliori della sua prima parte di carriera. "Ravenous Medicine", "Tornado" e "Ripping Headaches" sono solo alcune delle perle che il quartetto getta in pasto al pubblico: fucilate di thrash/progressive metal che i nostri interpretano con un entusiasmo contagioso, sintomo di una genuinità quasi palpabile. Sono sempre stati una band molto sfortunata e/o sottovalutata, ma qui al Roadburn i Voivod si tolgono infinite soddisfazioni. Il pubblico li segue e li incita come meritano e persino gli organizzatori per un attimo si dimenticano del loro dovere, lasciando tranquillamente che il gruppo si esibisca per qualche minuto in più del dovuto. Davanti a un tale successo, con band e audience uniti in un immenso moto di eccitazione, non sarebbe stato davvero il caso di interrompere lo show bruscamente.
UFOMAMMUT
"Eve" è stato votato miglior album del 2010 dagli utenti del forum del sito del Roadburn, così agli organizzatori è giustamente sembrato il caso di invitare il gruppo nostrano a proporlo per intero dal vivo. Probabilmente una grande soddisfazione per questi ragazzi, da sempre poco considerati o comunque non "famosi" quanto meriterebbero. Il Midi Theatre è letteralmente stra-pieno quando i nostri attaccano e il colpo d’occhio è effettivamente di quelli memorabili. La gente è estremamenente entusiasta, i musicisti molto concentrati e i suoni risultano di una definizione e di una pesantezza senza eguali in questa edizione del festival. Da non sottovalutare, inoltre, una serie di giochi di luce davvero ben riusciti, che, assieme a delle immagini molto suggestive trasmesse sullo sfondo, aiutano tutti a entrare meglio nell’atmosfera del lavoro. Per quanto ci riguarda, quello degli Ufomammut è un altro dei migliori show di questo Roadburn: di rado ci è capitato di ravvisare un trasporto simile a quello con cui gli Ufomammut interpretano la loro musica questa sera. Si viene investiti da ondate di sentimento e, nonostante la terribile severità della chitarra, la musica suona incredibilmente ancor più emozionale che su disco. È una "botta" in tutti i sensi e vengono i brividi anche solo a pensare che si tratti di qualcosa di difficilmente ripetibile. Tra suoni, luci e qualità nell’esecuzione, l’alchimia è praticamente perfetta. Ci resta solo da prendere posto e ascoltare: gli Ufomammut chiudono il Roadburn 2011 in grande stile.