A cura di Andrea Raffaldini
La ventesima edizione del Roadburn Festival, stando alle parole dell’organizzatore Walter Hoeijmakers, ha superato ogni aspettativa in termini di consenso e partecipazione. I biglietti giornalieri e gli abbonamenti di tre e quattro giorni sono stati spazzati via, forse in modo più lento rispetto agli scorsi anni, ma quello che conta alla fine è il risultato. Tornare nella ridente cittadina di Tilburg è sempre un piacere, soprattutto nel rivederla invasa da orde di fan, metallari e non, che non hanno perso tempo nel prendere possesso di ogni pub adiacente alla venue. Il Roadburn quest’anno ha presentato una mostra dei migliori lavori del famoso Arik Roper, artista e illustratore che ha firmato le copertine di un sacco di dischi (Sleep, Sunn O))), Grand Magus, High On Fire e molti altri). Va detto che ormai lo 013 è al limite della capacità di contenimento, l’affluenza è talmente elevata che sarà difficile in futuro aumentare i biglietti senza pensare di ricorrere a spazi più grandi. Quest’anno, causa lavori urbani in corso, le bancarelle del merchandise ubicate normalmente nella via adiacente al locale, sono state tutte spostate all’interno dell’Area Stampa e ridotte, per ovvi motivi di spazio. Inoltre, abbiamo trovato meno italiani rispetto alle precedenti edizioni, ma lo zoccolo duro, le solite facce note degli affezionati, non sono mancate nemmeno in questa edizione numero venti.
SOLSTAFIR
Lo show che apre il Roadburn chiama in causa i Solstafir, impegnati in un evento molto spieciale e particolare. Sullo schermo dietro il palco viene infatti proiettato il film di culto Hrafninn Flýgur (When The Raven Flies) e la band islandese, durante la visione, suonerà dal vivo l’intera colonna sonora. Questo connubio di film/soundtrack dal vivo verrà ripetuto nei giorni seguenti dai Goblin di Claudio Simonetti con i due capolavori “Zombie” e “Suspiria”. Il film viene proiettato in lingua madre, fortunatamente con sottotitoli in lingua inglese, ed i Solstafir sono sincronizzati al secondo con le immagini. La musica epica, atmosferica e ricca del sound nordico si sposa alla perfezione con le scene del film, dalle più drammatiche ai momenti di battaglia. Il film, a dire il vero, dopo un po’ finisce per annoiare, regia e recitazione tutto possono dirsi tranne di essere inattaccabili, ma sulla musica nulla da dire. I momenti di pausa, in cui i dialoghi obbligano la band al silenzio, per fortuna non sono mai troppo lunghi e pur suonando pezzi esclusivamente strumentali, i Solstafir riescono a mantenere canalizzata l’attenzione dei presenti. Un’esibizione di questo tipo non è la migliore per far scorrere l’adrenalina all’inizio di un festival, ma nulla da eccepire sull’originalità della proposta. Un’ora e cinquanta di performance, di cui abbiamo perso gli ultimi minuti perché in concomitanza alla Green Room suonavano gli svedesi The Tower.
THE TOWER
Arriviamo di volata alla Green Room e la troviamo già piena zeppa di persone: caldo e aromi di sudore ci accompagneranno per tutto il concerto, ma d’altronde anche questo aspetto fa parte del festival! Appena entrati in scena, i The Tower dimostrano subito di che pasta sono fatti. La formazione svedese è autrice di un interessante retro-rock dalle forti tinte psichedeliche e pesantemente influenzato dagli anni Settanta. Proto-metal li hanno definiti, ma noi possiamo dire senza tanti dubbi di aver assistito semplicemente ad un bel concerto di rock duro. Forti del loro disco di debutto “Hic Abundant Leones”, i The Tower sparano uno dietro l’altro tutti i loro brani migliori, tra cui l’ipnotica “Exile”. I testi a sfondo esoterico donano un ulteriore alone di mistero attorno a questa giovane band, che non lesina energie per offrire un grande spettacolo dal vivo. Il cantante Erik sa fare il proprio mestiere, senza tanti fronzoli offre una performance di grande impatto, la sua voce spiritata ha un non so che di demoniaco ed attraente. Con “Moonstoned” il quartetto spara nelle casse riff sabbathiani, tempi lenti e linee vocali semplici, ma di facile assimilazione. Un concerto rivelazione per chi non ha mai sentito parlare dei The Tower.
MINSK
Dopo il congedo dei The Tower ci spostiamo a vedere la seconda parte del concerto dei Minsk. Il mix tra proto-metal e doom proposto dalla formazione dell’Illinois è assolutamente devastante. I brani partono sempre in modo fin troppo calmo, doom per l’appunto, ricco di psichedelia che stordisce, fino ad esplodere in vere e proprie sfuriate con il cantato in screaming che arriva quasi a distruggere i timpani. Il pubblico gradisce e supporta la band, che da diversi anni era assente dai palchi del Roadburn. Le poche canzoni che siamo riusciti a vedere hanno comunque colpito a segno, i Minsk vantano una grande forma e carica dal vivo; peccato per una programmazione che, impietosa, finisce per far suonare in contemporanea troppe band interessanti.
SUBROSA
Il Patronaat è sempre una location molto suggestiva ed i concerti tenuti in questa venue hanno un non so che di magico. I violini delle SubRosa iniziano a intonare litanie stordenti, poi la band esplode in tutta la sua potenza. Il volume è altissimo, dalle prime file è difficile gustarsi a dovere la musica, almeno per le prime due canzoni, poi la resa sonora viene finalmente sistemata. “Ghost Of A Dead Empire” viene accolta calorosamente dai presenti, mentre le violiniste Sarah Pendleton e Kim Pack suonano e si muovono come se fossero possedute, in trance. C’è metal, doom, stoner, psichedelica e molto altro nella proposta della band americana, difficilmente classificabile grazie ad una musica molto personale e non proprio semplice da ascoltare. La band ha padronanza sul palco, comandata dalla “strega” Veronica Vernon alla voce e chitarra. “Borrowed Time, Borrowed Eyes” espande la mente come una buona canna, le chitarre acide e distorte e i violini infernali entrano in testa fino a mandare in pappa il cervello. Durante lo show spesso e volentieri veniamo avvolti da nubi di fumo di dubbia legalità (almeno in Italia) e vediamo persone lasciarsi trasportare dalla musica dei SubRosa danzando o addirittura fissando il pavimento per tutto il concerto. Un concerto assolutamente di prim’ordine che ha fatto tremare i muri del Patronaat, i SubRosa si sono dimostrati uno dei gruppi più interessanti e convincenti dal vivo di questa edizione del Roadburn.
SPIDERGAWD
Rimaniamo al Patronaat per lo show degli SpiderGawd, band norvegese nata come side project dei Motorpsycho. Per chi scrive, il quartetto nordico ha offerto una delle prestazioni più esaltanti ed incendiarie di tutto il festival grazie al loro rock’n’roll, che può ricordare per certi versi gli Hellacopters, e ad un’immagine assolutamente portentosa. Kenneth Kapstad alla batteria picchia come un forsennato, insieme alle potenti strofe che lasciano sempre spazio a ritornelli orecchiabili e capaci di caricare al massimo il folto pubblico presente. Il vocione ruvido di Per Borten si sposa alla perfezione con il rock duro della band, che senza tanti fronzoli ci spara in faccia litri di sudore ed energia a volume spropositato. Le finezze più strane che abbiamo sentito su disco qui vengono sacrificate, perché la band punta tutto sull’impatto e sulla carica adrenalinica della propria musica. La scaletta degli Spidergawd pesca i brani più dirompenti e con nostra grande soddisfazione ogni pezzo viene suonato senza segni di cedimento. In cinquanta minuti esatti, i norvegesi hanno saputo lasciare il segno, non solo perché borderline rispetto al sound generale delle formazioni presenti al Roadburn, ma per aver dimostrato soprattutto di saper svolgere il loro sporco lavoro dannatamente bene.
THOU
Rimaniamo fissi al nostro posto nel Patronaat, perché dopo gli spassosissimi Spidergawd, tocca agli americani Thou far tremare i muri a forza di suoni distorti. “Free Will” e “Feral Faun” aprono le danze, lo sludge-doom della band si assesta su tempi lenti e quadrati, suonati a tutta potenza. La batteria, tanto semplice quanto marziale, si riduce a mero accompagnamento dei riff di chitarra. Sullo sfondo vengono proiettati svariati filmati, pieni di messe nere, quasi come se stessimo assistendo ad un film horror dei primi anni Settanta. Andy Gibbs e Matthew Thudium lentamente passano il plettro sulle loro chitarre, mentre il bassista Mitch Wells suona in un apparente stato di trance. Il cantato in screaming, quasi black metal, di Bryan Funck rende ancor più agghiaccianti queste lente litanie infernali. “Into The Marshlands” e “Immorality Dictates” non portano sostanziali variazioni nella proposta dei Thou, tanto che i brani finiscono inesorabilmente per assomigliarsi tutti. Il volume spropositato delle casse aiuta la band a stordire i presenti con il sound marcio e ripetitivo tenuto da inizio a fine concerto. “Ode To Physical Pain” chiude lo show della formazione proveniente dalla Louisiana che, a onor di cronaca, non ha deluso ma nemmeno eccessivamente esaltato.
EYEHATEGOD
Il mainstage è pieno zeppo in attesa di Jimmy Bower ed i suoi Eyehategod! La band di New Orleans, non appena messo piede sul palco, mette bene in chiaro l’intenzione di voler fare un concerto letale. Il periodo più buio e le ombre della droga hanno (pare) abbandonato il gruppo, tant’è che dal vivo la band suona compatta e senza particolari difficoltà. Mike Williams sta sul palco con la sua classica postura altalenante, sbilenca, sembra sempre sul punto di cadere, di rantolare per terra, ma lo scheletrico singer invece stupisce tutti con una performance potente e letale. Lo sludge fangoso e marcescente degli Eyehategod trova sfogo in cavalli di battaglia come “New Orleans Is The New Vietnam”, “30$ Bag” o “Dixie Whiskey”, tutte supportate degnamente dai presenti. Jimmy Bower sul palco sembra quello che più si diverte, mentre il nuovo batterista Aaron Hill non fa rimpiangere il purtroppo scomparso Joey LaCaze, grazie ad un drumming essenziale ma roccioso e preciso. I brani vengono macinati uno dietro l’altro, senza troppe pause nell’ora a disposizione. “Methamphetamine” arriva dritta allo stomaco, gli ottimi suoni del main stage ci permettono di apprezzare al meglio lo show degli Eyehategod, che non lesinano nemmeno una goccia di sudore. E’ un continuo accendersi di canne tra le prime file e, a dire il vero, la security non sembra nemmeno troppo preoccupata. Williams non si intrattiene con il pubblico, preferisce dar sfogo a tutte le sue energie urlando e lacerando i nostri timpani con dosi letali di metal di stampo sudista. Un concerto impeccabile e la conferma che gli Eyehategod stanno vivendo un momento molto positivo per la loro carriera.
GOATWHORE
La band di New Orleans sul palco si conferma un surrogato di potenza, attitudine metal, ignoranza e divertimento. Venom e Celtic Frost sono il loro pane quotidiano, le loro massime influenze in ambito musicale, e si sente! Assistiamo gasati ad un tributo al Metallo della vecchia scuola, con brani veloci e tirati, rabbiosi, grezzi e pieni di energia. “Carving Out The Eyes Of God” e “In Deathless Tradition” sono pesanti come rulli compressori, la piccola Green Room viene messa a dura prova da questi musicisti letteralmente assatanati. Sammy Duet vomita odio dalla sua voce mentre macina riff infernali ad alta velocità e tutto il pubblico va in delirio, la sala è piena zeppa, risulta difficile persino muoversi. Nell’ora a disposizione, gli americani snocciolano tutte le loro cartucce senza lasciare nessun superstite. Fortunatamente il pogo limitato permette comunque di gustarsi il concerto senza spiacevoli imprevisti. Nei Goatwhore non va cercata musica originale o una particolare personalità, ma vi assicuriamo che il loro concerto è stato in assoluto uno dei più divertenti dell’intera giornata. Dopo tanto sludge e psichedelia, quale modo migliore per chiudere la nostra serata a suon di heavy metal come Dio, o meglio Satana, comanda?
VIRUS
I norvegesi Virus hanno il compito di inaugurare la seconda giornata del Roadburn. “Stalkers” e “Chromium” sono due esempi dell’avant-garde metal con cui Czral e compagni catalizzano l’attenzione dei fan. Non si può certo dire che la band sia composta da animali da palcoscenico: Czral canta e suona la sua chitarra perennemente seduto su uno sgabello ed anche gli altri membri stanno immobili, quasi incuranti di tutto ciò che li circonda, sempre concentrati sulla loro musica. Lunghi momenti atmosferici alternati da svisate più serrate ed incalzanti si concretizzano in brani come “As Virulent” e “Syria”. La componente psichedelica non si rivela particolarmente fantasiosa, ma va dato atto ai Virus di saper conquistare ed incantare tutto il numeroso pubblico rinchiuso nel main stage. Sono le parti più veloci a coinvolgere, grazie alla buona qualità d’esecuzione ed all’estro di una band molto difficile da inquadrare in un singolo genere. ”Lost Peacocks” e “Rogue Fossil” concludono un concerto non sempre ad altissima intensità; non sono mancati momenti in cui l’attenzione è calata, ma la prova su palco dei Virus si merita sicuramente la promozione.
IVAR BJORNSON’S BARDSPEECH
Il piccolo Stage 01 è imballato e la gente si accalca anche nel corridoio prima della porta d’ingresso. Per cosa? Il mainman degli Enslaved altro non fa che cimentarsi in un noioso dj set in cui il tema dominante è la musica elettronica. Dal suo computer, Ivar il vichingo sciorina una serie di brani scialbi e la noia arriva a toccare livelli di pericolosità mortale. Solo il bancone del bar e la fresca birra ci trattengono dall’alzare i tacchi a velocità fotonica. Qualcuno l’avrà pure trovata una genialata, una performance unica e singolare, ma per alcuni altri si è trattato semplicemente di uno strazio. L’ambient di bassa lega tende ad addormentarci ed arriviamo stremati a fine show. Performance come queste si traducono in un grande e perentorio punto di domanda.
SVARTIDAUDI
Per risvegliarci dal torpore del precedente dj set, ci spostiamo nella Green Room per ricaricarci con gli Svartidaudi. La formazione black metal islandese è dedita a sonorità figlie di metà anni Novanta, quando il movimento della Nera Fiamma viveva il suo periodo di massimo splendore. ”The Perpetual Nothing” e “Psychoactive Sacraments” sono pregne di potenza e malvagità. Reminescenze dei Marduk più diretti e battaglieri colorano il sound degli islandesi, che si dimostrano grezzi e diretti, ma altrettanto veloci e letali. Le parti di batteria vengono eseguite in modo ferale, nervoso, ed insieme ai veloci riff di chitarra costruiscono un solido muro sonoro che impatta direttamente sui timpani degli ascoltatori. Un concerto senza infamia e senza lode: gli Svartidaudi non saranno i nuovi Messia maledetti, ma di certo sono riusciti nel compito di ricaricare le energie dei presenti con uno show di tutto rispetto.
SOLSTAFIR
Secondo concerto per i Solstafir che, a differenza della giornata precedente, questa volta propongono la loro classica setlist. “Dagmál”, “Lágnætti” e “Ótta” mandano la folla in delirio, questa volta non ci sono momenti morti e possiamo gustarci ogni secondo della splendida musica dei Solstafir, uno squisito mix di post metal, progressive e viking pieno di ingredienti diversi, ognuno dei quali bilanciato alla perfezione. Aðalbjörn “Addi” Tryggvason cura maniacalmente le sue parti di voce e chitarra e la band lo segue in modo compatto. “Rismàl” ci catapulta in una dimensione onirica, le linee vocali epiche e soavi sembrano evocare ere antiche e leggende di altri tempi, l’uso della lingua islandese dona un’ulteriore solennità al brano. Il tocco psichedelico dei Solstafir non manca di farsi sentire, anche dal vivo tutta la genialità di questi talentuosi musicisti emerge in tutta la sua bellezza. A chiudere lo show ci pensa la lunga “Goddess Of The Ages”, che per oltre dieci minuti riesce a mantenere gli occhi dei fan attaccati sulla band. Ancora maestosità, finezze prog ed un sound apocalittico vengono fuori a tutto volume dal potente impianto sonoro del Roadburn, lasciandoci in trance ed ammirazione nei confronti del geniale quartetto.
JUNIUS
Provenienti dagli Stati Uniti d’America, i Junius salgono sul palco e, ignorando il pubblico, attaccano a suonare. Il cantante, testa coperta da un nero cappuccio, non fa nulla per scaldare gli animi. “Birth Rites By Torchlight” rivela uno space rock contaminato da sonorità indie e post metal, molto suggestivo e, per l’appunto, spaziale. “All Shall Float” e “Dance On Blood” possiedono un sound cosmico ingigantito dal lavoro ai synth di Joseph E. Martinez, sempre perso nel suo mondo musicale, incurante di tutto il resto. Il concerto si svolge in modo lineare, senza particolari alti e bassi, l’intensità della performance si mantiene sempre a metà tra la componente di trance e quella più rock, priva di particolari guizzi o cambi di tensione. “Elisheva, I Love You” prosegue su sonorità space rock, ma con una veste più attuale, con il vocione pieno intento a recitare linee vocali poetiche e malinconiche. E’ la musica che parla, perché i Junius se ne stanno tranquilli a suonare sul palco proprio come se fossero in una sala prove. Dopo essersi congedati sulle note di “A Day Dark With Night”, il sentore generale è di soddisfazione, la formazione americana ha saputo far breccia grazie alla sua proposta originale e ben architettata.
FIELDS OF THE NEPHILIM
Idoli assoluti della giornata, i Fields Of The Nephilim vengono accolti sul palco da un tripudio di applausi. I maestri inglesi del dark/gothic rock attaccano subito con “Dawnrazor” e “Moonchild” e il loro sound ci catapulta nei gloriosi anni Ottanta, mentre le melodie richiamano alla nostra mente qualche estratto dei The Cure. Carl McCoy riesce in modo naturale, senza sforzo, a catalizzare su di sé l’attenzione, come una sorta di sciamano moderno in grado di incantare con la sua voce bassa e profonda. Le luci e l’atmosfera attorno al main stage si sposano magnificamente con la musica dei Fields Of The Nephilim, energici e perfetti nell’esecuzione di “Love Under Will”, “The Watchman” e “For Her Light”. A metà concerto lo stage è pericolosamente pieno, non si passa, non ci si muove, il calore è quasi insopportabile, ma McCoy e compagni riescono a far dimenticare tutto suonando le loro canzoni. Un concerto pieno di colori ed emozioni, che conferma l’ottimo stato di salute di una band che, dopo aver visto il successo a fine anni Ottanta, ha vissuto dei periodi altalenanti. Oggi però questi vecchi leoni del rock possiedono tutta la forza per ruggire ed incutere paura.
WARDRUNA
Tra i continui spostamenti che dobbiamo fare tra uno stage e l’altro, riusciamo a fermarci e vedere una manciata di minuti del concerto dei Wardruna. La formazione norvegese si presenta sul palco insieme a diversi coristi, flautista e violinista. L’ensemble dà vita ad un suggestivo concerto di musica folk, quasi ambient, che pesca dalle lontane tradizioni dell’antica Norvegia. Disinteressata a qualsiasi interazione con le persone che assistono allo spettacolo, la band snocciola uno dietro l’altro i brani proposti in scaletta. L’apporto di strumenti elettrici dà potenza al sound nella sua globalità e la bravura dei musicisti sta nel far convivere distorsioni e musica folk sullo stesso palco con risultati interessanti. I pochi minuti a cui abbiamo assistito si sono rivelati divertenti, la band possiede mestiere ed esperienza ed ha offerto uno spettacolo molto intenso.
LUCIFER
A vedere quanta gente si è appostata nello Stage 01 , si direbbe esserci molta aspettativa per il concerto dei Lucifer. L’ex The Oath Johanna Sadonis viene accolta con grandi applausi al suo ingresso. L’heavy doom metal proposto è figlio dei Black Sabbath, solo la voce della Sadonis riesce a dare un tocco personale al sound dei Lucifer. Quasi tutti i brani del loro primo ed unico disco vengono suonati e “Purple Pyramid”, “Sabbath” e “White Mountain” riscuotono l’approvazione del pubblico. Sul palco la band appare abbastanza compatta, si sentono diverse lievi imprecisioni, d’altro canto i berlinesi suonano insieme da poco ed hanno bisogno di tempo per conoscersi e carburare a dovere. Il concerto non delude, abbiamo potuto ascoltare buon musica suonata in modo discreto. Probabilmente i Lucifer non conquisteranno mai le arene, ma nelle piccole dimensioni riescono a dare il meglio ed a coinvolgere tutti i presenti.
ENSLAVED
Chiusa la sfortunata parentesi del suo precedente set elettronico, Ivar Bjørnson torna sul palco principale del Roadburn con i suoi Enslaved. Dopo una lunga intro, la formazione norvegese parte subito in quarta con “Fusion of Sense and Earth”, sfuriata black metal violenta e veloce. L’energia scorre a fiumi e la resa sonora è semplicemente perfetta. Grutle Kjellson spinge al massimo la sua voce, quando gli Enslaved decidono di fare sul serio hanno ben pochi rivali! “Giants” rallenta la velocità d’esecuzione, le atmosfere epiche tornano protagoniste mentre i ripetitivi riff di chitarra cercano di incantare i presenti. La band è in gran forma, tutto il concerto si svolge ad altissimo livello. “Ethica Odini”, “Loke”, “Fenris” tributano i dovuti onori alla cultura vichinga, concept che da sempre è il marchio di fabbrica degli Enslaved. Durante la performance un continuo flusso di persone si precipita dentro il main stage, tanto che a metà concerto la grande sala si riempie ed all’ingresso si formano lunghe code di persone desiderose di ascoltare anche una manciata di minuti della performance. “Alfablot” e “Axioma” sono i brani conclusivi di questo primo show firmato Enslaved (la band suonerà anche il giorno seguente): dopo che i norvegesi si sono congedati, il senso di soddisfazione è grande, tutti i fan sono contenti di aver assistito ad un concerto da ricordare tra i migliori della giornata e dell’intero festival.
DEATH HAWKS
Terminato il concerto degli Enslaved, corriamo alla Green Room per vedere gli ultimi venti minuti di concerto dei Death Hawks. La band finlandese è autrice di uno space rock psichedelico che paga dazio ai leggendari Hawkwind. Riff energici, melodie, inserti ipnotici e cerebrali diventano un mix vincente in grado di catalizzare l’attenzione sulla band e sulla musica. I Death Hawks sul palco si divertono ed altrettanto si può dire per le numerose persone presenti, è davvero un peccato che una formazione così dirompente sia relegata a dover suonare in uno dei palchi più piccoli del festival. I pochi minuti a disposizione ci hanno permesso di ascoltare soltanto gli ultimi pezzi di uno show interessante, speriamo di rivederli presto in un contesto più grande e appropriato.
SKELETONWITCH
La seconda giornata del Roadburn 2015 per noi si chiude all’insegna del thrash/black metal più classico grazie allo show degli Skeletonwitch. “I Am of Death (Hell Has Arrived)” e “From a Cloudless Sky” aprono le danze a tutto volume. Gli americani spaccano, suonano veloci e con la giusta attitudine rozza ed ignorante che tanto piace ai metallari più intransigenti. Il concerto continua con “Burned from Bone” e “Upon Wings of Black”: il nuovo cantante Andy Horn si dimostra pienamente all’altezza del suo predecessore, dal vivo risulta pieno di energia e non lesina mai le forze. Dustin Boltjes alla batteria pesta come un forsennato, dimostrandosi una delle colonne portanti della band, il suo drumming ferale dà una marcia in più a brani come “Crushed Beyond Dust” o “Unending, Everliving”. Non c’è modo migliore per concludere questa intensa giornata di festival, gli Skeletonwitch hanno il merito di aver ricaricato le batterie del pubblico, un ultimo congedo a suon di birra e poi tutti a letto.
CLAUDIO SIMONETTI’S GOBLIN
Il terzo giorno del Roadburn viene aperto dagli italiani Goblin, che per l’occasione suoneranno l’intera colonna sonora del film “Dawn Of The Dead”, proiettato sullo schermo dietro al palco. La band capitanata dal tastierista Claudio Simonetti è amatissima a livello internazionale ed il main stage si riempirà durante la proiezione del film. Purtroppo la mancanza di sottotitoli renderà ostico, per chi non mastica l’inglese, capire tutti i dialoghi del capolavoro di Romero. I Goblin offrono una performance precisa al secondo, pulita e molto intensa, riescono a creare il giusto pathos, la giusta tensione emotiva durante le scene più forti del film. Le due ore di visione scorrono in un attimo, soltanto i momenti di pausa, quando la band non suona, vedono un calo di attenzione generale. A film terminato, grandi applausi congedano i Goblin, che torneranno per l’Afterbuner show a suonare la soundtrack di “Suspiria”, uno dei film più famosi del regista Dario Argento.
DEATH PENALTY
In concomitanza con il concerto dei Goblin, riusciamo ad assistere alla prima parte del concerto dei Death Penalty. La band offre un heavy doom molto classico, senza particolare innovazione, ma diretto ed efficace. Dopo la prima canzone, un problema tecnico causa una pausa forzata, la giovane cantante della band sembra quasi timida sul palco e non riesce ad intrattenere il pubblico. Fortunatamente, in pochi minuti il concerto può ripartire, ma le canzoni eseguite alla lunga suonano monotone, una uguale all’altra. I Death Penalty non possiedono una padronanza del palco tale da riuscire a coinvolgere i presenti, per questo lo show (almeno la parte che siamo riusciti a vedere) si rivela noioso.
ACID WITCH
Doom psichedelico con influenze stoner, questa è la musica proposta dagli Acid Witch. La band americana sulle note di “Cauldron Cave” e “Witchfynder Finder” sfoggia tutta la magnificenza di una musica che entra nel cervello e disattiva tutti i neuroni. Il cantato in screaming dona ulteriore enfasi ai pezzi, mentre un muro sonoro viene costruito dagli imponenti riff di chitarra pieni di muscoli e tanta energia. “The Black Witch”, “Evil” e “Witchblood Cult” sono particolarmente apprezzate dal pubblico, che non manca mai di dare supporto alla band. Il batterista non si abbandona mai a virtuosismi, la sua performance è votata a sostenere le canzoni che si mantengono su tempi costanti e capaci di entrare dritti in testa. Con “Sabbath Of The Undead” gli Acid Witch si congedano, il concerto non verrà ricordato negli annali del Roadburn, ma gli americani hanno comunque offerto una discreta prestazione.
ENSLAVED
Prima di catapultarci a vedere il concerto dei The Heads, riusciamo ad assistere a parte del secondo concerto tenuto dagli Enslaved. Oltre a cambiare scaletta ed a proporre brani come “Thurisaz Dreaming” e “Building With Fire”, i norvegesi chiamano sul palco una serie di ospiti speciali. Su “Daylight” troviamo Kvitrafn dei Wardruna (presente anche su “Convoys To Nothingness”) e Aðalbjörn Tryggvason dei Solstafir. Gran finale con la cover di “Immigrant Song” dei Led Zeppelin insieme a Menno Gootjes dei Focus. Breve ma intenso, lo show degli Enslaved non ha deluso ancora una volta.
THE HEADS
Gli inglesi The Heads sul palco spaccano, il loro rock psichedelico dalle tinte Hawkwind si rivela infatti perfetto per essere suonato dal vivo. “Quad” e “Could Be” ipnotizzano grazie alle chitarre dal sound acido e penetrante, ed anche nei momenti più lenti ed atmosferici (“Cardinal Fuzz”) la band punta sulla forza e sull’impatto sonoro. Si vede che i Nostri suonano insieme sin dal 1990, esperienza ed affiatamento non mancano, il concerto non mostra punti deboli. C’è un che di epico nelle linee vocali, a conferma della moltitudine di influenze che dà vita ad una proposta molto personale ed originale. Uno dei punti di forza del Roadburn è la possibilità di vedere dal vivo formazioni anche “piccole”, che difficilmente passeranno in Italia, ma che sorprendono dimostrandosi veramente geniali.
ZOMBI
Il gruppo americano si può definire come una sorta di Goblin, ma votati a sonorità più space, cosmiche. A dire il vero manca la genialità ed il tocco che ha reso celebre la band di Simonetti, in questo caso i pezzi si somigliano troppo l’uno con l’altro e l’ascolto finisce irrimediabilmente per annoiare. Dopo una quindicina di minuti preferiamo dirigerci alla Green Room per assistere al concerto dei Sammal. Gli Zombi ci hanno un po’ deluso.
SAMMAL
I Sammal sono un gruppo prog le cui basi vanno cercate nella grande musica degli anni Settanta. Dopo la prima lunghissima canzone interamente strumentale, questi talentuosi musicisti ci regalano brani melodici che ci ricordano i migliori Kaipa. Le composizioni sono varie, mai troppo virtuose, e le melodie rimangono in testa sin dal primo ascolto. Non c’è davvero modo migliore per concludere questa ventesima edizione del Roadburn, i Sammal hanno dimostrato tutto il loro valore, un’ottima padronanza del palco e soprattutto grande estro nel riproporre dal vivo la loro musica.