Introduzione e report a cura di Roberto Guerra
Fotografie copyright del Rock Fest Barcelona
Eccoci qui a scrivere della prima giornata della quinta edizione del Rock Fest di Barcellona, un evento che, col passare degli anni, ha assunto un ruolo sempre più predominante all’interno del cuore di tutti quegli appassionati che, ogni estate, sentono il bisogno di caricarsi un bagaglio in spalla per dirigersi in una delle numerose location adibite all’organizzazione di un festival musicale di genere rock e metal a 360 gradi; inoltre, in questo specifico caso, l’evento gode anche di un bonus non da poco, poiché collocato in una delle città più visitate da migliaia di turisti ogni anno, il che rappresenta un ulteriore pretesto per scomodarsi da casa in vista di una bella scorpacciata di paella, sangria e metallo. Come di consueto, la line-up è in grado di accontentare pressoché chiunque, grazie alla presenza di numerose band dedite alle proposte musicali più disparate, ognuna col proprio valore all’interno della scena, da leggende affermate e ormai in via di scioglimento, a nuove realtà vogliose di scrivere il proprio nome nella Storia del genere. Questa prima giornata vede nei Judas Priest e nel mitico zio Ozzy i due pilastri principali, ma è importante non dimenticare che si tratta solo dei due atti finali di un pomeriggio che si preannuncia esplosivo e ‘caliente’, anche per via di una temperatura che darà ben poca tregua fino al tramonto del Sole. Detto questo, approfittiamo per ringraziare il festival, che ha deciso di ospitarci, e i numerosi estimatori presenti, grazie ai quali l’atmosfera che si è potuta respirare si è rivelata magica e ricca di momenti di esaltazione, come ogni anno. Buona lettura!
BORN IN EXILE
Spendiamo non troppe parole per la band che inaugura questa quinta edizione del festival, ovvero i prog metaller Born In Exile, band locale nonché decisamente poco conosciuta al difuori dei confini catalani e/o spagnoli. Non a caso è stata scelta una formazione proveniente dalla città in cui si svolge il festival per dare il via alle danze, e tra i presenti c’è anche qualcuno che inizia già in parte ad esaltarsi sotto il palco cantando insieme alla vocalist Kris Vega, la quale non perde occasione per incitare il pubblico in vista dei tre giorni di fuoco in arrivo. La brevissima scaletta dei Born In Exile prende dal loro unico full-length “Drizzle Of Cosmos” e si presenta in maniera tutto sommato gradevole, con alcuni spunti discretamente interessanti riconoscibili in tracce come “Revenant”, della quale, per chi fosse curioso, è stato recentemente rilasciato online un video ufficiale. Forse non è la band che avremmo scelto noi personalmente per occupare una posizione comunque importante come quella di opening act assoluto di un evento così atteso, ma tutto sommato possiamo dire che i ragazzi abbiano recitato bene la loro parte.
AMARANTHE
Proseguiamo con una delle band più apprezzate e, a parere di molti, più sopravvalutate degli ultimi anni per un discreto numero di ragioni; gli svedesi Amaranthe non hanno infatti bisogno di presentazioni, anche perché la loro proposta tamarra e sopra le righe ha ottenuto numerosi consensi negli anni da parte di una folta schiera di ascoltatori, di cui un discreto numero è qui presente al Rock Fest di Barcellona. Sin da subito l’esibizione appare relativamente minata da dei suoni decisamente non equalizzati a dovere, il che si può notare ancora di più quando si ha un numero così nutrito di elementi in base on stage, cosa di cui gli Amaranthe fanno uso smodato da sempre. Lo show si compone di estratti provenienti da tutti e quattro i loro album, tra cui le ovvie e mielose “Hunger” e “Amaranthine”, inframezzati da momenti in cui la bella vocalist Elize Ryd incita il pubblico insieme ai suoi soci dediti alle voci maschili; in generale la presenza scenica della band non si può certo mettere in discussione, a differenza della proposta musicale che, tralasciando i gusti singoli degli ascoltatori, in questa sede risulta penalizzata e a tratti un po’ plasticosa, così come, di conseguenza, l’intera esibizione. Passiamo oltre.
TANKARD
La prima band interamente al maschile dell’evento è anche la prima con un buon valore storico alle spalle, e ovviamente parliamo dei thrasher teutonici Tankard, i quali quest’anno spengono ben trentacinque candeline, come annunciato anche dal massiccio vocalist Andreas Geremia durante lo show. Dopo l’apertura con la recente “One Foot In The Grave”, la scaletta regala a tutti i presenti numerosi momenti divertenti, esaltanti e dal forte sapore alcolico, nonché vecchia scuola, fra cui le varie “The Morning After”, “Zombie Attack”, “Chemical Invasion”, senza tralasciare pezzi meno datati, tra cui spiccano “Rapid Fire”, “R.I.B.” e soprattutto “A Girl Called Cerveza” che, per ovvie ragioni, suscita particolarmente la simpatia del pubblico spagnolo (o catalano che dir si voglia). Gerre e soci si comportano sul palco con la peculiare comicità ed espansività che li contraddistingue da sempre, compreso il loro atteso lancio di birra sul pubblico assetato, ma non per questo meno voglioso di lanciarsi nel primo moshpit effettivo del festival, in particolar modo nella conclusiva e devastante “(Empty) Tankard”. Unica nota dolente dell’esibizione, un volume della chitarra decisamente troppo basso che, a tratti, ha alleggerito la potenza e la mazzata sonora che dovrebbero stare alla base di ogni buon concerto thrash.
ECLIPSE
Dirigiamoci nuovamente nelle fredde terre svedesi per il concerto degli hard rocker moderni Eclipse, altra band che ultimamente sta godendo di un’attenzione non indifferente da parte dei riflettori per via dei loro album di indiscutibile qualità, le cui tracce necessitano senza ombra di dubbio di una resa adeguata in sede live, cosa che sin dalla iniziale “Never Look Back” sembra non mancare affatto, grazie anche a dei suoni che si presentano da subito come i migliori della giornata, finora. La carica e l’emozione trasmesse da brani come “The Storm”, “The Downfall Of Eden” e la conclusiva “Runaways” non sono da trascurare, senza nulla togliere anche al momento acustico di “Battlegrounds”, per la quale il frontman Erik Martensson imbraccia la chitarra per dare il suo contributo su due fronti; tra l’altro egli è un discreto animale da palco e lo dimostra più volte durante l’intera ora a disposizione. A conti fatti, a esibizione conclusa, non si può non ammettere che il futuro dell’hard rock sembra essere decisamente in buone mani grazie a band come gli Eclipse, che per giunta non saranno certamente soli in questo gravoso compito; infatti, più tardi vedremo se i loro connazionali H.E.A.T si dimostreranno altrettanto meritevoli del nostro entusiasmo.
DEE SNIDER
Pochi frontmen possono vantare una presenza e un impatto anche solo accostabili a quelli del carismatico ex vocalist dei leggendari Twisted Sister, e anche per questo c’è una discreta attesa da parte dei presenti per assistere a un suo show in veste da solista. L’ingresso on stage viene accolto con un sonoro applauso anche se, almeno inizialmente, la voce di Dee appare leggermente sottotono e evidentemente bisognosa di un po’ di riscaldamento; la situazione migliora già con la seconda traccia “Tomorrow’s No Concern”, rilasciata di recente come singolo del nuovo album “For The Love Of Metal”, in uscita nei prossimi giorni, dal quale verranno eseguiti anche altri estratti in anteprima durante l’esibizione corrente. Chiaramente i presenti si scatenano principalmente in concomitanza di alcuni classici intramontabili dei Twisted Sister come “You Can’t Stop Rock’n Roll” e “Under The Blade”, anche se il meglio viene ovviamente riservato per le ovvie e immancabili “I Wanna Rock” e “We’re Not Gonna Take It”, che sarà possibile udire durante tutto l’arco del festival da parte di numerosi ascoltatori che evidentemente non riusciranno per giorni a togliersele dalla testa, il che è ulteriormente emblema di quanto certe canzoni siano impossibili da scrostare via dal sacro muro del rock. A livello di presenza scenica siamo su livelli ancora una volta inarrivabili, poiché il buon Dee alla sua veneranda età è ancora irraggiungibile se si tratta di intrattenere un pubblico con la sua fisicità e il suo modo di atteggiarsi sfrontato e nel contempo irresistibile ed esilarante; non mancano anche un piccolo sproloquio sul Sole e il suo tipico ‘cazziatone’ ai roadie del palco accanto, intenti a provare gli strumenti della band successiva, anche se decisamente più ironico e meno clamoroso della famosa volta avvenuta a questo stesso festival nel 2015.
URIAH HEEP
Il quartetto delle leggende di oggi inizia coi mitici Uriah Heep, che l’anno prossimo festeggeranno il cinquantesimo anniversario della formazione, il che si può in parte riconoscere nella lieve fatica che Bernie Shaw, Mick Box e compagni sembrano fare sin dall’inizio; ma considerando le tempistiche, si tratta di un dettaglio pressoché inevitabile, e per questo vogliamo sorvolare per poterci esprimere su un’ora di concerto con sicuramente qualche difetto, ma anche ricca di emozione e passione da parte di musicisti di indubbio talento e con un indiscutibile contributo storico alle spalle; tracce squisitamente anni ’70 come “Lady In Black” e “Easy Livin’” riescono ancora oggi ad apparire irresistibili, anche se in giro si sente ancora qualcuno che rimpiange la voce del compianto David Byron. Purtroppo è evidente che si tratta di una band con ancora non molti anni di carriera davanti, ma considerando la loro intatta capacità di coinvolgere gli estimatori nonostante alcuni lievi limiti, restiamo allegramente in attesa del nuovo album “Living The Dream”, atteso per settembre di quest’anno con, magari, un nuovo tour annesso con relative tappe anche in territorio italiano.
ACCEPT
Un’altra band di cui è pressoché impossibile stancarsi é quella capitanata da Wolf Hoffmann e Peter Baltes, che negli ultimi anni hanno dimostrato di poter produrre ancora degli album di qualità indiscutibile, abbinati ovviamente a dei live pazzeschi e ricchi di spunti che bisognerebbe incidere sulle sacre tavole raffiguranti le regole per tenere un concerto heavy metal con tutti i crismi. Anche stavolta, nonostante la sola oretta a disposizione, le premesse sono ottime sin dalla iniziale “Die By The Sword”, così come i suoni che si presentano ottimali e ben definiti, con un Mark Tornillo in perfetta forma dietro al microfono, in grado di interpretare alla perfezione le tracce più recenti come “Pandemic” e “Teutonic Terror”, tanto quanto le più classiche “Restless And Wild”, “Princess Of The Dawn” e “Fast As A Shark”. Dopo la tipica conclusione con “Balls To The Wall” l’esaltazione e l’adrenalina sono ancora in circolo in tutti i presenti, i quali iniziano giustamente a prendere coscienza che chi verrà dopo dovrà impegnarsi al meglio per potersi avvicinare alla macchina da guerra degli Accept, cui volendo si potrebbe fare l’unica critica di tenere spesso degli show molto simili tra loro; ma si tratta davvero di un difetto? A parer nostro no, anche perché se tutte le volte il risultato è questo, c’è solo di che godere ed essere entusiasti. Ora prepariamoci per fare un ulteriore tuffo indietro a quelli che sono due dei semi principali da cui è germogliato quel magnifico albero chiamato heavy metal.
JUDAS PRIEST
Un palco fiammeggiante e un focoso ingresso on stage con la recentissima “Firepower” sono i primi elementi dello show di quella che è probabilmente la band più rappresentativa di tutto ciò che è heavy metal, finalmente con un orario e una durata di spettacolo degni del nome dei Judas Priest, a differenza della loro recente e a tratti limitata apparizione in territorio italiano. Ci sono state molte polemiche riguardo l’attuale formazione della band, con due chitarristi decisamente più giovani rispetto a Halford & Co., ma è innegabile che a livello di performance la band ci abbia guadagnato non poco per ovvie ragioni, poiché Richie Faulkner e Andy Sneap sono indubbiamente due assi con in mano la sei corde, e la loro grinta permette chiaramente di dare una bella spinta ai Nostri in sede live, anche se a livello affettivo si sente la mancanza di chi li ha preceduti; ma ne riparleremo a breve. Gli estratti del nuovo album dal vivo rendono magnificamente, ma è impossibile non soffermarsi sulla piega quasi inaspettata che prende a un certo punto la scaletta, basata in buona parte su un periodo trascurato da alcuni, ma amato follemente da altri, come quello della seconda metà degli anni ’70: “Sinner”, “The Ripper” e “Saints In Hell” rappresentano solo alcuni dei momenti squisitamente amarcord dell’esibizione, che raggiunge il suo apice con la fantastica “Tyrant”, sulla quale letteralmente esplode l’intero pubblico. Anche il periodo anni ’80 non viene trascurato ovviamente, con alcuni estratti prevedibili e altri inattesi ma molto graditi, quali “Grinder”, “Bloodstone” e “Freewheel Burning”, anche se il boato più grande sembra giungere per le immancabili “Hellbent For Leather” e “Painkiller”. Non a caso abbiamo usato il termine ‘sembra’ poiché, all’ingresso on stage del mitico Glenn Tipton in concomitanza dell’encore, è impossibile non trattenere l’emozione se non addirittura, in alcuni casi, le lacrime, per quello che a tutti gli effetti si può considerare il più anziano tra i chitarristi prevalentemente metal, il quale subito ci fa gridare con le corna al cielo all’attacco del riff iniziale di “Metal Gods”, che con tre chitarre sul palco sembra guadagnare ancora più potenza; allo stesso modo le successive e conclusive “Breaking The Law” e “Living After Midnight”. A concerto concluso, prima di dedicarci allo zio Ozzy, possiamo solo inchinarci dinnanzi ai Judas Priest; c’è chi dice che dal vivo sembrano diventati un po’ molli, o che Halford sembra non farcela più, ma la verità è che questi signori hanno ancora una grinta e una carica invidiabili, a prescindere dai paragoni con ciò che sono stati una volta, ed è bene non dimenticarsi che se siamo metallari sarà sempre anche grazie a loro.
OZZY OSBOURNE
Dopo la band che ha reso il metal quello che conosciamo, passiamo allo show del vocalist di quella che viene da molti considerata la prima metal band della storia. Dopo una intro cinematica con numerose immagini provenienti dal passato dell’iconico frontman, lo spettacolo inizia col riff della mitica “Bark At The Moon” ad opera di quel micidiale chitarrista che è Zakk Wilde, che a tratti durante lo show riuscirà quasi a rubare la scena al buon Ozzy con la sua sei corde e la sua presenza coinvolgente; l’accoglienza del pubblico è assolutamente calorosa e con le successive “Mr Crowley” e “I Don’t Know” la situazione non può che migliorare ulteriormente. L’intero concerto ripercorre un po’ tutta la carriera di Ozzy, con numerosi brani suoi personali, comprese “Shot In The Dark” e “Suicide Solution”, e un paio di estratti dai tempi dei Black Sabbath, tra le quali spicca senz’ombra di dubbio “War Pigs”, che precede anche il lunghissimo solo di chitarra del sopracitato Zakk, basato in parte sugli assoli di alcuni iconici pezzi del Madman e poi concluso con una sfuriata con lo strumento posizionato dietro la testa ed eseguita nello spazio tra il palco e le transenne, davanti a un pubblico incredulo e visibilmente elettrizzato. Anche la batteria ha modo di ritagliarsi un suo spazio prima del ritorno dello ‘zio’ on stage, che evidentemente aveva bisogno di riprendere un po’ di fiato, il che ha fatto storcere il naso a diversi presenti; ma è implicito che gliela si deve perdonare una piccolezza simile, soprattutto tenendo conto dei suoi settant’anni e del fatto che non è propriamente un segreto che dal vivo le sue singole performance, a livello tecnico, non siano proprio le migliori in assoluto. Con il trittico “Crazy Train”, “Mama, I’m Coming Home” e “Paranoid” si conclude un altro concerto durante il quale non sono mancate le lacrime, al pensiero di quanto sia vicino il momento in cui bisognerà dire addio al più iconico e controverso tra tutti i cantanti del nostro genere preferito, il quale è vero che non può tecnicamente competere con svariati suoi colleghi…ma sapete che c’è? Ozzy è Ozzy e, a prescindere da tutto, non si tocca! Ci auguriamo di poterlo salutare un’ultima volta prima del suo ritiro, soprattutto quando i suoi concerti, seppur coi loro difetti, si rivelano essere così superlativi.
H.E.A.T.
A concludere la giornata, come band successiva agli headliner, troviamo un’altra realtà svedese di genere prevalentemente hard rock molto in vista di questi tempi. Lo spettacolo degli H.E.A.T. inizia con una intro a base di “The Heat Is On” di Glenn Frey e subito dopo con uno scoppio che anticipa l’attacco di “Bastard Of Society”, sin dalla quale appare chiaro che, nonostante la posizione forse un po’ scomoda, la band ha tutta l’intenzione di congedare parte dei presenti nel migliore dei modi, grazie a una scaletta adrenalinica e nel contempo toccante e, a tratti, ricca di richiami ad artisti del passato: segnaliamo ad esempio l’esecuzione di “Beg Beg Beg” abbellita con estratti delle iconiche “Whole Lotta Rosie” e “Piece Of My Heart”, rispettivamente degli AC/DC ed Erma Franklin. Poco da dire, Erik Gronwall e compagni sono decisamente in forma e, con un po’ di stanchezza addosso, potremmo definire quella attuale come una delle esibizioni più convincenti e, volendo, sorprendenti della giornata; purtroppo l’orario e la fatica dopo così tante ore passate a scatenarsi sotto il palco hanno reso un po’ difficile godere in concomitanza delle varie “Heartbreaker”, “Tearing Down The Walls” e “Inferno”, il cui titolo rende alla perfezione la sensazione che si prova a passare tanto tempo col Sole a picchiarci sulle spalle; ma per la grande musica si fa questo ed altro! Finalmente è il momento di ritirarsi, qualcuno rimarrà nell’area palchi per fare una scorpacciata nostalgica in compagnia di Abbath e del suo tributo ai Motorhead chiamato Bombers, ma noi personalmente preferiamo andare a dormire in modo da essere carichi la mattina successiva. Anche perché, domani, siamo già pronti a godere con gli Helloween!