Introduzione e report a cura di Roberto Guerra
Fotografie copyright del Rock Fest Barcelona
Dopo una prima giornata rovente e ricca di momenti di esaltazione pura per qualsiasi ascoltatore affezionato ai mostri sacri dell’heavy metal, è il momento di proseguire con la seconda ondata di esibizioni in programma a questa quinta edizione del Rock Fest di Barcellona. La grandezza e lo spessore agli occhi del grande pubblico da parte delle band coinvolte la fanno leggermente meno da padrone, ma questo non è assolutamente indice di una eventuale qualità inferiore, anzi, potremmo quasi anticiparvi che, a giornata conclusa, il livello di emozione e coinvolgimento raggiungerà delle vette che molti non si sarebbero potuti aspettare, considerando anche il bill delle altre due giornate. Tuttavia è bene andare con ordine, perciò preferiamo augurarvi semplicemente buona lettura facendovi presente che, almeno per un giorno, il Sole e il caldo si riveleranno leggermente meno brutali e, inoltre, rammentandovi che in questa occasione sono gli Helloween la band cardine dell’evento, ancora impegnati nel loro Pumpkins United World Tour che tanto ha fatto discutere gli estimatori di tutto il mondo. Unica nota dolente della giornata, alcuni problemi sonori che hanno in parte minato le performance di alcune band presenti.
TYGERS OF PAN TANG
A ‘sto giro cominciamo facendo una capatina sotto al tendone che ospita il Rock Tent Stage, chiaramente più piccolo rispetto ai due palchi principali e decorato con numerose figure di provenienza simil fantasy, prontamente appese al soffitto al fine di rendere anche questo modesto spazio il più visivamente simpatico e suggestivo possibile. E sono i britannici Tygers Of Pan Tang a rappresentare il primo soddisfacente atto della giornata per tutti i defender presenti nella location a partire già dal primo pomeriggio. Con la recente “Only The Brave” inizia un concerto apparentemente meno pretenzioso rispetto ad altri, ma già dalle prime battute esaltante come pochi altri: non è un segreto che Robb Weir, unico membro originale ancora attivo nella lineup, e i suoi compagni meno attempati siano una garanzia indiscutibile se si tratta di performance live, ma nessuno poteva immaginarsi una mazzata metallica simile, ricca di estratti recenti così come di inni immortali del calibro di “Gangland”, “Suzie Smiled” e, soprattutto, la micidiale “Hellbound”, rese ed interpretate alla perfezione dal nostrano Jacopo Meille dietro al microfono; ogni singola esecuzione appare quasi perfetta così come l’impatto sonoro, ed è impossibile non sentirsi proiettati nel pieno del periodo in cui la NWOBHM era il genere predominante sulla piazza. Dopo la conclusione rappresentata dalle cover di “Tush” e “Love Potion #9”, rispettivamente di ZZ Top e The Clovers, possiamo dire che un inizio di giornata migliore non si poteva avere.
DARK FUNERAL
Mentre i Tygers sono impegnati a tenere una piccola lezione di heavy metal sotto il sopracitato tendone, spetta ai blackster svedesi Dark Funeral il compito di inaugurare i due grandi palchi all’aperto, con uno show in questo caso breve e, a parer nostro, relativamente poco idoneo al compito affidatogli: non è infatti necessaria l’opinione di chissà quale critico musicale per rendersi conto che uno spettacolo dalle forti tinte oscure e blasfeme come quello della band di Stoccolma avrebbe potuto rendere decisamente meglio su uno stage coperto come quello di cui si è parlato fino a poco fa o, piuttosto, a un orario più consono rispetto a un primo pomeriggio ancora così luminoso. Ciò nonostante la band, benché visibilmente accaldata sotto il proprio outfit a base, come di consueto, di borchie e pelle nera, ha voluto dare il meglio di sé con tutta la professionalità del caso, riuscendo a coinvolgere discretamente i presenti più affezionati alle più malefiche sonorità nordiche, che troveranno oggi il proprio cavallo di battaglia principale in Shagrath e compagni più tardi, quando il Sole sarà già calato. Passiamo oltre concedendo comunque un sentitissimo applauso ai Dark Funeral, che avranno sicuramente il loro bel da dire in una prossima eventuale discesa in terra italiana.
LACUNA COIL
I cinque ormai ben affermati musicisti milanesi rappresentano l’unica band italiana dell’intero festival ed è per questo un vero e proprio obbligo parlarne in quest’articolo, anche perché la loro esibizione si è tenuta davanti a un numero più che rispettabile di estimatori, il che dimostra quanto, a prescindere dai gusti personali, l’Italia riesca ancora a far parlar bene di sé nel momento in cui si sdoganano le proprie realtà musicali. La scaletta è in fin dei conti quella che ci si può aspettare dai Lacuna Coil, con la tipica apertura con “Our Truth”, l’immancabile cover di “Enjoy The Silence” dei Depeche Mode, la conclusione con “Spellbound”, il tutto reso in modo senza dubbio lodevole dalla bella Cristina Scabbia e dai suoi soci adeguatamente coinvolti e in grado di trasmettere una discreta carica a tutti i presenti. Forse non sarà da annoverare tra i migliori show della giornata, ma, come detto poco più sopra, stiamo parlando di una band italiana che è riuscita a occupare ancora una volta una buona posizione su un importante palco di un festival europeo, e per questo il rispetto è più che dovuto.
ROSS THE BOSS
Manowarriors di tutto il mondo, questo è il vostro momento! Dopo l’ultima apparizione in territorio italiano, siamo nuovamente qui per parlare dell’iconico chitarrista originale della band che più di tutte ha definito i canoni dell’heavy metal più epico e irriducibile. Con la lunga e possente “Blood Of The Kings” salgono on stage Ross the Boss e compagni, facendo alzare le braccia al cielo a pressoché chiunque nel raggio di un tot di metri dal palco, prima di fare un ulteriore passo indietro con “Death Tone” e, successivamente, farci sgolare con “The Oath” e “Sign Of The Hammer”. Dopo un inizio così sfolgorante è evidente che tutta la band è perfettamente in giornata e, mentre Ross macina riff e pentatoniche sulla sua sei corde, Mike LePond e Marc Lopes si concedono numerosi sfoggi di tecnica strumentale e vocale, sempre con la ferrea e granitica presenza di Steve Bolognese dietro le pelli. Non mancano un paio di parentesi più o meno apprezzate dedicate al nuovo album “By Blood Sworn”, anche se le energie del pubblico sono tutte per i classici immortali dei Manowar, e non c’è da stupirsi considerando che stiamo parlando di inni come “Kill With Power”, “Blood Of My Enemies”, “Fighting The World” e così via, fino alla conclusione con l’accoppiata composta da “Battle Hymn” e “Hail And Kill”. Sappiamo bene tutti il forte valore commerciale di certe operazioni nostalgiche come quella portata avanti dal buon Ross negli ultimi tempi, ma è anche vero che passare un’ora ascoltando certe tracce non ha davvero prezzo per qualunque metallaro che si rispetti. Ora però vogliamo essere sinceri, esprimendo tutto il nostro desiderio di poter vedere i Manowar effettivi alla prossima edizione di questo stesso festival.
AXEL RUDI PELL
Ci spostiamo nuovamente in Europa per l’esibizione di un altro iconico chitarrista della scena rock/metal internazionale; il nuovo lavoro ad opera del mitico Axel Rudi Pell, intitolato “Knight’s Call”, è riuscito a convincere critica e pubblico per via della sua indiscutibile qualità compositiva e, dopo l’overture medievale utilizzata come intro, è proprio con le belle “The Wild And The Young” e “Wildest Dreams”, provenienti dal suddetto album, che si apre il concerto, seguite a ruota dalla lunga ed epica “Mystica”. Nonostante sia innegabile che gli album recenti del magico guitar hero teutonico siano delle opere di indiscutibile valore musicale che dovrebbero trovare posto nella collezione di ogni estimatore del genere, non possiamo non ammettere che, man mano che lo show prosegue, inizia a farsi sempre più incalzante il desiderio di sentire qualche traccia più classica e grintosa, che possa riportarci al primo o al secondo periodo della carriera di Axel, e forse è proprio questo l’unico difetto effettivo della sua esibizione: basti considerare che il momento più retrodatato toccato in questa occasione è rappresentato da una breve esecuzione di “Casbah” in medley con “The Masquerade Ball”; e sul momento la domanda che tutti ci siamo posti riguarda il fatto che ci avrebbe fatto piacere almeno sentirla per intero! Nonostante tutto, quando si hanno sul palco dei musicisti di cotale talento, tra cui il mostruoso vocalist Johnny Gioeli, intenti ad eseguire delle tracce comunque evocative ed emozionanti, non si può non promuovere lo show, passando sopra a quei due o tre sbadigli che purtroppo non sono mancati in quest’oretta più lunga del previsto.
VIXEN
Una delle band più attese da una folta schiera di presenti é quella tutta al femminile delle Vixen, riunitesi circa sei anni fa, ma con ancora non moltissimi concerti in territorio europeo tenuti nel periodo recente. Sin dall’inizio, con la grintosa “Rev It Up”, i suoni appaiono curati in maniera decisamente approssimativa e privi della potenza necessaria a rendere al meglio delle tracce comunque piuttosto amate da molti appassionati delle sonorità old school; e come se non bastasse, poco dopo l’incipit, la sei corde della chitarrista Gina Stile smette del tutto di funzionare, costringendo la sola Janet Gardner a gestire l’intero guitar work per alcuni minuti. Fortunatamente, dopo tali problemi, lo show migliora e prende la giusta direzione per permettere alla band di esprimere tutto il suo potenziale, più o meno a partire dal triplice medley coi momenti salienti di “I Want You To Rock Me”, “Perfect Strangers” e “Come Together” e dalla cover di “I Don’t Need No Doctor” di Ray Charles. Impossibile non riconoscere l’immensa classe che queste splendide signore ancora conservano sul palco (vi risparmiamo le numerose battutine sul concetto di ‘milf’ volate durante e dopo lo show), così come la carica emotiva non indifferente trasmessa da classici indiscussi del rock al femminile tra cui “Love Is a Killer”, “Streets In Paradise” e la conclusiva “Edge Of A Broken Heart”, cantata a gran voce da un pubblico che ha scelto di non scoraggiarsi dopo i primi pezzi eseguiti un po’ alla bene e meglio. Senza dubbio un concerto imperfetto e a tratti un po’ sfortunato, ma comunque memorabile e più che sufficiente a farci desiderare di poter assistere a un concerto singolo con le Vixen in veste da headliner, senza quelle piccole magagne casuali incontrate inizialmente.
MAGO DE OZ
Chi mastica un po’ di spagnolo è bene che si prepari a dare sfoggio di tutto il fiato che ha in corpo con una delle band che ha consacrato il metal iberico in tutto il mondo, nonché una delle prime folk/power metal band di sempre. Facendo finta di non aver notato la canotta dei Black Veil Brides indossata dal batterista Jesús María Hernández Gil, che non ci riesce difficile credere abbia messo più per parodia che altro, conoscendo il personaggio, anche in questo caso l’equalizzazione sonora durante la iniziale “Maritornes” non si presenta esattamente nel migliore dei modi, risultando un po’ confusa e a tratti frastornante. Col procedere della scaletta il tutto si fa man mano più definito e il pubblico spagnolo si mostra visibilmente scatenato come in pochi altri momenti; e non ci risulta difficile crederlo, tenendo conto dell’incredibile supporto di cui i Mago De Oz godono in patria, e non solo. Per chi vi scrive, il momento più esaltante giunge con l’evocativa “Diabulus In Musica”, senza nulla togliere anche alle conclusive e immancabili “Gaia” e “Fiesta Pagana”, che è stato possibile gustare in una posizione comoda durante una più che meritata pausa prima della parte più attesa della giornata e, per qualcuno, dell’intero festival.
STRATOVARIUS
Abbiamo già menzionato più volte i problemi al comparto sonoro che in questa seconda giornata non hanno proprio voluto saperne di dare tregua alle band ma, come si suol dire, a tutto c’è un limite! Non c’è bisogno di spiegare in maniera particolare quanto sia frustrante assistere a un inizio concerto potenzialmente perfetto con un brano suggestivo come “Forever Free”, rovinato da dei volumi che sembrano quasi esser stati settati da delle scimmie in astinenza da banane. Da qui fino a più o meno metà concerto, lo show degli Stratovarius subirà continui cambiamenti all’equalizzazione sonora, discretamente riconoscibili anche da chi non è pratico di certe situazioni tecniche, tra cui un microfonaggio della cassa dell’ampli per chitarra avvenuto in corsa durante l’esecuzione della recente e bellissima “Dragons”. Inutile dire che anche la band appare piuttosto amareggiata e, a tratti, svogliata per via di questa problematica, arrivando così ad eseguire dei classici del power metal europeo, come “Kiss Of Judas”, “Paradise” e “Black Diamond”, come se si trattasse di un semplice compitino, cosa che ha lasciato un po’ interdetti numerosi fan della band finlandese presenti tra il pubblico, nonostante il tentativo di alcuni della band di ostentare indifferenza e divertimento, tra cui il sorridente Lauri Porra al basso. La conclusiva “Hunting High And Low” mette il sigillo su un concerto degli Stratovarius che preferiamo dimenticare per molteplici ragioni, e che ci porta a rimembrare gli emozionanti spettacoli cui Timo e compagni ci hanno più volte abituato in passato, augurandoci che questa sia solo un’occasione isolata. Inoltre, ciò dovrebbe fungere da monito per tutti quegli appassionati italiani che, ogni volta che a un live dalle nostre parti c’è un problema, prendono le difese dell’estero come se tutto fuori dai nostri confini fosse oro colato; ebbene, non è così e sarebbe meglio ricordarlo alla prossima occasione.
DIMMU BORGIR
Superata la delusione per lo show precedente e con la speranza che certe magagne tecniche non influiscano negativamente sulle esibizioni di chi verrà dopo, volgiamo lo sguardo al Rock Stage per l’ascesa on stage dei Dimmu Borgir e del loro carismatico frontman. Non staremo qui a fare sproloqui sui pezzi provenienti dal nuovo album “Eonian” che, non avendoci esaltato particolarmente su disco, anche dal vivo non sono riusciti propriamente a catturarci, per quanto l’esecuzione e l’atmosfera generale si presentino da subito suggestive e ben curate. Shagrath, indipendentemente dalle opinioni, può vantare da sempre una forza notevole sul palco, e la sua malefica voce riesce sempre a stimolare qualche brivido a chi in passato ha goduto anche solo una volta delle sue particolari ed elaborate composizioni. Poco da dire, l’unico effettivo difetto di quest’esibizione, un po’ come successo anche per Axel Rudi Pell precedentemente, è la scaletta: tralasciando “Puritania” dal controverso “Puritanical Euphoric Misanthropia”, “Progenies Of The Great Apocalypse” dal più che apprezzato “Death Cult Armageddon” e, ovviamente, la immancabile e diabolica “Mourning Palace” da quel capolavoro indiscusso che è ancora oggi “Enthrone Darkness Triumphant”, tutto il resto proviene ovviamente dal sopracitato ultimo album e dai due lavori precedenti che, per quanto non siano del tutto esenti da brani gradevoli e ben composti, non sono mai riusciti ad avvicinarsi ai livelli qualitativi raggiunti in passato. Un concerto dei Dimmu Borgir, indipendentemente da tutto, è sempre e comunque un bel vedere, ma è necessario mettere una pietra o due sopra quella svolta ormai consolidata dei loro live orientati sempre di più su ciò che è stato composto negli ultimi quindici anni, caratterizzati da un paio di brani anche maestosi a livello compositivo, ma pur sempre isolati all’interno di una parte di discografia che alla fine perderà sempre il confronto con la precedente.
HELLOWEEN
C’è chi dice che, allo stato attuale, gli Helloween dal vivo siano qualcosa che riesce quasi ad andare oltre la realtà, così come c’è stato anche chi si è espresso negativamente sulla particolare operazione di reunion che ha visto la più iconica power metal band della storia riunirsi a due delle loro colonne portanti del passato; purtroppo è inutile ribadire che le opinioni sono quello che sono, e talvolta è possibile che qualcuno decida di rimanere della sua idea, per quanto tutto sommato grossolana questa possa essere. Questo è il pensiero affiorato alla mente di chi vi scrive, il quale ancora ricorda le lacrime di gioia ed emozione piante durante lo show tenutosi ad Assago, negli attimi precedenti lo scoppio di “Halloween”; subito, quel bambino che tutti abbiamo dentro, torna a farsi vivo, mandando letteralmente in fiamme le ugole e i muscoli del collo di tutti coloro che erano in fermento di fronte al palco in attesa di scorgere le sette figure on stage. I suoni sono finalmente degni di un festival di questa caratura e, soprattutto, di una super band come quella che sta calcando il palco, con i due devastanti vocalist Michael Kiske e Andi Deris in formissima e intenti a duettare tra di loro, sorretti dal magistrale guitarwork di un trittico come pochi se ne possono trovare oggigiorno e da un comparto ritmico roccioso e incrollabile. Con “Dr Stein” il duetto procede, prima di permettere a Michael di esibirsi singolarmente su “I’m Alive” e, successivamente, a Andi di fare lo stesso con “Are You Metal?” e “Perfect Gentleman”, prima di lasciare finalmente il posto a quella leggenda che è Kai Hansen per il suo tipico medley a base di “Starlight”, “Ride The Sky”, “Judas” e “Heavy Metal (Is The Law)”. Molti si staranno chiedendo in cosa si differenzi questo concerto rispetto a quello sopracitato tenutosi dalle nostre parti: avendo meno tempo a disposizione, la band ha dovuto rinunciare ai siparietti dei due simpatici personaggi a cartone animato, proponendo invece uno show ancora più tirato, adrenalinico e del tutto privo di punti morti; inoltre, ben accolta l’idea di inserire in scaletta un paio di estratti tanto richiesti dai fan, tra cui la recentissima e sorprendente “Pumpkins United” che prende il nome dal progetto stesso, eseguita dopo “If I Could Fly” e resa alla perfezione dal vivo, assolutamente degna della band che l’ha composta. Il commovente assolo di batteria eseguito all’unisono da Dani Loble insieme al compianto Ingo Schwichtenberg segna in un certo senso la fine della prima metà dell’esibizione, il cui seguito, dopo il secondo medley composto da “Livin’ Ain’t No Crime” e “A Little Time”, porta tutti a esplodere nel momento in cui si sentono i primi rintocchi di “March Of Time”, grande assente della parte precedente del tour; tutto questo prima dell’accoppiata “Sole Survivor” e “Power”, nonché della mazzata sui denti di “How Many Tears”, che ci sarebbe piaciuto sentire cantata interamente da Kai. Con “Eagle Fly Free” e la parte finale di “Keeper Of The Seven Keys”, tagliata per motivi di tempo, si giunge all’encore, composto ovviamente dalle immancabili “Future World” e “I Want Out”, dopo le quali ci accorgiamo di essere rimasti tutti completamente senza voce, ma in compenso con una sensazione magica e indescrivibile nel cuore per quella che, piaccia o non piaccia e con i recenti stravolgimenti, è riuscita a diventare una delle migliori live band del mondo, in cui niente sembra essere stato lasciato al caso e che ci auguriamo deciderà di proseguire su questa china, proponendo a Wacken, tra qualche giorno, uno spettacolo ancora più maestoso e producendo magari un nuovo album da annoverare ancora una volta nel grande Olimpo del metal europeo. Magici, gloriosi, i migliori!
ANNIHILATOR
La magistrale esibizione degli Helloween ha costretto Jeff Waters e compagni a ritardare di qualche minuto l’inizio del loro show, che con la iniziale “One To Kill” ci fa letteralmente vibrare i timpani per via di un impianto audio con dei volumi tarati a dir poco verso l’alto, ma fortunatamente equalizzati a regola d’arte, grazie ai quali l’headbanging e il moshpit sfrenato diventano da subito un’esigenza comune per gran parte dei presenti ancora non abbastanza stanchi. La scaletta di quelle macchine da guerra che rispondono al nome di Annihilator si potrebbe definire come breve e a dir poco intensa, con le varie e immancabili “King Of The Kill”, “W.T.Y.D.” e “Phantasmagoria” a stimolare l’adrenalina e l’esaltazione di tutti, senza ovviamente nulla togliere agli estratti del recente “For The Demented”, decisamente più convincenti dal vivo che su disco. Inoltre, era da gennaio 2015 che non veniva posta in scaletta la tamarrissima “Fiasco”, che Jeff ha ben pensato di proporci qui a Barcellona per la gioia delle nostre ossa già doloranti dopo tutta una giornata passata in piedi a nutrirci di metallo fuso. A tratti inspiegabile, invece, la scelta di terminare il concerto dopo “Alison Hell” con ancora più di cinque minuti buoni a disposizione, almeno secondo la tabella di marcia, durante i quali speravamo magari in una “Human Insecticide” che ci desse letteralmente il colpo di grazia prima di prendere le dovute distanze dal palco in modo da recuperare un po’ di energie, assistendo magari da una posizione comoda e pratica alla simpatica conclusione di giornata a opera dei Korpiklaani.
KORPIKLAANI
Come dicevamo, spendiamo qualche parola per concludere questa seconda parte del report parlando del breve e piacevole spettacolo folk dei Korpiklaani, i quali entrano on stage con la nota e classica “Wooden Pints”, che qualcuno si sarebbe aspettato di trovare verso la fine, durante la quale tutti coloro che, nonostante siano quasi le tre di notte, hanno deciso di rimanere all’interno dell’area concerti possono danzare bevendo l’ultima pinta di birra prima di ritirarsi. I concerti di Jonne Jarvela & Co., di cui ricordiamo essere in arrivo il nuovo disco “Kulkija”, edito sempre presso Nuclear Blast Records, alla fine si possono sempre riconoscere per quell’aura festaiola che li permea, anche se è bene sperare che i ragazzi siano abbastanza sobri da non sbagliare l’esecuzione dei pezzi – e chi c’era qualche anno fa a un loro live dalle nostre parti sa di cosa stiamo parlando. In questo caso il non molto tempo a disposizione scorre via liscio e, dopo la immancabile “Vodka”, finalmente possiamo andare a dormire rivolgendo un pensiero a ciò che abbiamo visto finora nei primi due giorni e, naturalmente, a ciò che vedremo nel terzo, quando sarà la storia del grande rock europeo e americano a farla da padrone.