07/07/2018 - ROCK FEST BARCELONA 2018 – 3° giorno @ Parc de Can Zam - Barcellona (Spagna)

Pubblicato il 23/07/2018 da

Introduzione e report a cura di Roberto Guerra
Fotografie copyright del Rock Fest Barcelona

Questa quinta edizione del Rock Fest di Barcellona sta per giungere alla sua conclusione, dopo averci donato intere ore di assoluta libidine musicale con realtà più o meno storiche appartenenti al sacro pantheon degli Dei del rock e dell’heavy metal; anche per questo, alla terza e ultima giornata, spetta il gravoso compito di mettere il sigillo definitivo su un’edizione davvero ricca e stimolante al pari di pochi altri eventi in programma quest’estate. Nonostante l’apparente difficoltà di riuscire in una simile impresa, la succosa lineup ha tutte le carte in regola per ergersi allo stesso livello delle precedenti, soprattutto grazie a due colonne incrollabili della storia del rock europeo e americano, le quali rappresentano non solo gli headliner della giornata, ma anche gli ultimi atti di un’opera che verrà ricordata per sempre da tutti coloro che hanno deciso di presenziare. Prima di buttarci nuovamente sotto il sole cocente in compagnia dei Destruction, c’è il tempo per sedersi a bere un bicchiere di sangria in compagnia, pensando alle numerose emozioni che si andranno a provare nelle ore precedenti il ritorno a casa. Buona lettura!

 


DESTRUCTION
Giusto per non farsi mancare niente, controllando l’orologio ci accorgiamo che lo show iniziale di Schmier e soci sta tardando a cominciare, il che ci viene prontamente confermato dallo staff del festival, il quale ci riferisce che, per via di alcuni non meglio chiariti ritardi, le prime esibizioni sui palchi principali slitteranno leggermente di orario, nella speranza di tornare in pari con la tabella di marcia prevista accorciando leggermente alcune scalette. Non a caso sono solo nove i pezzi che gli iconici thrasher teutonici riescono a proporre sul Rock Stage questo caldo primo pomerigio, tra i quali non potevano mancare la iniziale “Curse The Gods”, le violente “Nailed To The Cross” e “Mad Butcher”, e “Total Desaster”. Nonostante il ritardo e il conseguente piccolo taglio allo show, i nostri tre ragazzoni non mancano un colpo e trasmettono tutta la carica necessaria ad affrontare nel migliore dei modi la giornata, in particolar modo con un’accoppiata conclusiva massacrante e sanguinaria a base di “Thrash Till Death” e “Bestial Invasion”. Come abbiamo detto anche alcuni giorni fa in occasione del Rock The Castle, a prescindere dalle numerose controversie che ruotano attorno al famigerato terzetto thrash, i loro concerti sono sempre un prelibato concentrato di violenza e adrenalina, ed è esattamente questo che vogliamo da loro, anche perché nessuna band dopo di loro picchierà altrettanto duro.


DARK TRANQUILLITY
Un altro nome che rappresenta una vera e propria garanzia se si parla di resa in sede live è quello della oscura band guidata da Mikael Stanne, ancora carica dopo l’uscita dell’ultimo album “Atoma” circa un paio di anni fa, il quale è riuscito in poco tempo a farsi riconoscere come uno dei migliori prodotti dalla band svedese negli ultimi dieci anni di carriera. L’inizio è affidato a “Encircled”, seguita da “Monochromatic Stains” e “Clearing Skies”, dopo le quali la scaletta si rivela un susseguirsi di momenti esaltanti che trovano il loro picco più elevato negli attimi finali, durante i quali ogni estimatore può quasi sentirsi proiettato indietro ai primi anni del nuovo millennio, quando gli album della band di Gothenburg scalavano le classifiche di tutto il mondo. Nonostante l’atmosfera soleggiata non si sposi proprio alla perfezione con la proposta altamente introspettiva e lugubre, per quanto grintosa, dei Dark Tranquillity, il sopracitato Mikael non fa sconti a nessuno scatenando tutta la sua proverbiale presenza scenica, nonché le sue incredibili doti interpretative. Lo show tenutosi al Live Club di Trezzo sull’Adda alcuni mesi fa rimane per il momento insuperabile per ovvie ragioni, ma anche in questa sede una delle melodic death metal band per antonomasia è riuscita a confermarsi una delle migliori in assoluto della giornata.

UNLEASH THE ARCHERS
Per la seconda volta in questa edizione del festival ci spostiamo sotto al tendone, prendendo posizione di fronte al Rock Tent Stage in attesa dell’esibizione di una delle band più promettenti degli ultimi anni. I micidiali Unleash The Archers sono già riusciti a ritagliarsi un posto nel cuore di molti appassionati delle sonorità più veloci, epiche e tamarre, soprattutto dopo l’uscita dell’ultimo album intitolato “Apex”, considerato da buona parte di critica e pubblico il lavoro più maturo e completo prodotto dalla band canadese dalla formazione ad oggi. Il concerto inizia, esattamente come l’album, con la potente “Awakening”, seguita da estratti provenienti da tutta la sua ancora non particolarmente lunga carriera, sebbene la presenza delle varie “Test Your Metal”, “The Matriarch”e “Apex” renda evidente che la priorità sia stata data agli ultimi due lavori. L’accoglienza da parte dei presenti è piuttosto calorosa, in particolar modo per quella furia della natura che è la minuta e bella vocalist Brittney Slayes, la quale rappresenta un caso peculiare di voce femminile sfruttata come farebbero alcuni dei migliori cantanti power metal di sesso maschile, senza alcun utilizzo di elementi lirici e con un’estensione in grado di far inturgidire i genitali pressoché a chiunque. Salutiamo la band di Vancouver con l’apocalittica “Tonight We Ride”, augurandoci che il loro meritato successo possa aumentare esponenzialmente, fino magari a consacrarli tra le nuove avanguardie del genere proposto.


THE DEAD DAISIES
Un concerto decisamente meno tamarro e sopra le righe si sta svolgendo all’aperto, nel frattempo, con la recente creatura capitanata da David Lowy e composta attualmente da gente del calibro di Marco Mendoza, John Corabi, Deen Castronovo e Doug Aldrich, intenta a rappresentare il primo atto di grande hard rock di una giornata che trova in questo genere il proprio cavallo di battaglia. La classe dei musicisti in questione è cosa ben nota e la resa generale, sia che si tratti dei vari inediti o delle poche cover messe in scaletta, rende perfettamente giustizia alle cinque figure on stage e alle loro illustri carriere attuali e trascorse. Con solo dieci brani a comporre la setlist, pur non mancando momenti di goduria con le note “Dead And Gone”, “Rise Up” e “Long Way To Go”, avremmo preferito che la band avesse sacrificato le cover di “Bitch” dei Rolling Stones e “Midnight Moses” di Alex Harvey per proporre magari un paio di inediti in più, ma si tratta tutto sommato di una piccolezza soggettiva che assolutamente non mina una piacevole e rockeggiante esibizione a opera di uno dei progetti più interessanti nati negli ultimi anni.


ICED EARTH
Ne abbiamo già parlato recentemente dopo la loro apparizione al Phenomenon di Fontaneto d’Agogna, dove l’iconica band americana ha tenuto quella che si può tranquillamente etichettare come una lezione di heavy metal, davanti a un numero purtroppo poco nutrito di presenti anche per via dell’eccessiva vicinanza con il Rock The Castle. Nella cornice odierna il pubblico schierato per il live degli Iced Earth rende decisamente più giustizia a Jon Schaffer e compagni, anche se durante la iniziale “Great Heathen Army” inizia nuovamente a farsi vivo lo spettro dei suoni imperfetti del giorno precedente, timore che fortunatamente non trova particolare fondamento durante l’intera durata dello show, nel corso del quale il sound si mantiene su livelli tutto sommato buoni fino alla conclusione. La scaletta non è altro che una versione accorciata di quella cui abbiamo avuto modo di assistere dalle nostre parti, dalla quale sono state purtroppo sacrificate tracce che, a parer nostro, sarebbe stato meglio lasciare al loro posto; fortunatamente i momenti in cui la grandezza degli Iced Earth si fa palpabile non mancano, in particolar modo con le classiche e immortali “Vengeance Is Mine”, “Angels Holocaust” e “The Hunter”. Anche la lunga e recente “Clear The Way”, che precede la conclusiva “Watching Over Me”, dal vivo riesce ad avere una forza incredibile, confermandosi nuovamente come il miglior estratto dell’ultimo album “Incorruptible”, anche grazie all’interpretazione sempre maiuscola a opera del poliedrico Stu Block dietro al microfono. L’ultimo atto al cento per cento heavy metal del festival termina qui, lasciando spazio a un’ultima parte quasi interamente dedicata all’hard rock e ad alcune proposte tipicamente spagnole, a parte una parentesi thrash a opera di un ‘noto signore biondo’ che vedremo più tardi. Continuate a leggere per saperne di più.

MOJINOS ESCOZIOS
Premettiamo che non abbiamo intenzione di spendere molte parole per la comunque simpatica band spagnola dal nome a tratti improbabile. I Mojinos Escozìos, un po’ come altre band del territorio, sono dediti a una proposta tendenzialmente comica e caratterizzata dall’abbinamento di testi prevalentemente demenziali con una base musicale hard & heavy piuttosto classica, il tutto amalgamato per ottenere una commistione che risulti divertente e senza particolari pretese alle orecchie dei presenti, o almeno, quelli con una buona padronanza della lingua spagnola. Come anche alcune realtà nostrane insegnano, la demenzialità non deve lasciar intendere che i musicisti coinvolti non siano preparati, anzi, spesso è tutto l’opposto, come anche in questo caso; rimane tuttavia il mistero del perché da queste parti anche una band simile può trovare spazio su un palco importante, mentre da noi il più delle volte il pubblico presente pare non superare il centinaio di unità, salvo casi isolati. Comunque, tralasciando questo discorso, per noi un’oretta di pausa con un sottofondo simpatico e gradevole, nulla di più. Passiamo oltre.


PHIL CAMPBELL AND THE BASTARD SONS
Dopo una intro irresistibile a base di “Highway Star” dei Deep Purple, salgono sul palco il buon Phil Campbell e i suoi Figli Bastardi, con l’iniziale accoppiata di inediti “Big Mouth” e “Welcome To Hell”, seguite dall’inevitabile boato per l’esecuzione delle due cover di “Rock Out” e “Going To Brazil” dei Motorhead. Come di consueto, lo show è un alternarsi di inediti e momenti nostalgici dedicati alla leggendaria band capitanata dal compianto Lemmy, ed è prevedibile che le energie del pubblico vengano investite principalmente in corrispondenza dei suddetti classici intramontabili e ben ancorati ai ricordi e ai sentimenti di ogni rocker esistente; inoltre, come chicca, la band ha ben pensato di inserire all’interno della setlist anche una riproposizione di un brano proveniente da un altro capitolo del repertorio del signor Kilminster, ovvero gli Hawkwind, in questo caso omaggiati con la loro nota “Silver Machine”, conosciuta purtroppo da una ben meno folta schiera di ascoltatori, notabile dalle facce un po’ perplesse di alcuni presenti. Su “Ace Of Spades” tutto il festival si lascia andare a un po’ di sano headbanging, mentre quella maledetta lacrimuccia si fa ulteriormente presente al pensiero di quella mostruosa icona che, a quasi tre anni dalla sua dipartita, ancora sembra essere tra di noi a picchiare sulle corde del suo basso Rickenbacker predicando la parola del grande rock’n roll; e il suo ex compagno di band riesce benissimo a onorarne la memoria ad ogni concerto. Tra l’altro più tardi ci sarà spazio anche per un altro membro della ‘Motorhead family’, seduto dietro le pelli durante il concerto degli Scorpions, ma ne parleremo più avanti.


SOBER
Per quanto questo nome potrebbe non dire niente alla maggior parte dei lettori, in verità questa alternative rock band proveniente da Madrid può vantare un’identità tutt’altro che da trascurare, con una carriera prossima al venticinquesimo compleanno e centinaia di migliaia di copie piazzate sul mercato. Anche in questo caso non vogliamo dilungarci troppo, considerando la discreta mole delle band successive, ma vogliamo comunque far presente che lo spettacolo messo in piedi dal frontman Carlos Escobedo, in questo caso con l’ausilio di una suggestiva orchestra, non si è rivelato affatto spiacevole e una chance all’ascolto della sua musica, una volta tornati a casa, non gliela nega nessuno. Inoltre, come dicevamo prima e come abbiamo avuto modo di notare anche durante le edizioni passate di questo festival, così come di altri in territorio iberico, è a tratti commovente che le realtà locali godano di un così sentito supporto; forse dovremmo pensare di prendere esempio.


STRYPER
Il primo dei quattro gradini finali della scala metallica che porta il nome di Rock Fest Barcelona 2018 è rappresentato dalla mitica band hard&heavy californiana, la cui carriera negli ultimi anni si è rivelata a dir poco prolifica al pari di alcuni loro colleghi, con degli ultimi album in grado di rivaleggiare coi classici usciti negli anni ’80. Tuttavia, all’infuori dell’iniziale “Yahweh” e di alcuni estratti dal recente e riuscito “God Damn Evil”, quasi tutta la setlist attuale attinge a piene mani dai suddetti lavori appartenenti alla prima parte della carriera dei fratelli Sweet e degli Stryper: da “All For One”, “Surrender” e “Soldiers Under Command” fino a numerose tracce provenienti da quel capolavoro indiscusso che è “To Hell With The Devil”, compresa la conclusiva title-track; purtroppo non è stato proposto nulla da “In God We Trust”, del quale, anche con solo un’ora a disposizione, non ci sarebbe dispiaciuto udire almeno un brano o due. Il sound degli Stryper, in particolar modo il solido guitar work a opera di Michael Sweet e Oz Fox, lascia ben poco spazio a eventuali dubbi o difetti, riuscendo a rendere al meglio quella che, anche senza aver ancora visto gli headliner, si conferma già un’ottima candidata al titolo di miglior esibizione della giornata, con la giusta dose di tecnica e grinta e con in più una spruzzata di simpatia on stage che non guasta. Immancabile il loro tipico lancio di Bibbie griffate col nome della band, mossa sicuramente un po’ pacchiana che avrà senz’altro fatto storcere il naso ad alcuni presenti non particolarmente tolleranti verso certi peculiari sfoggi di cristianità; inutile lamentarsi, dopotutto è da sempre che gli Stryper dividono il pubblico per via della loro essenza ‘luminosa’, e finché tengono dei concerti simili c’è ben poco su cui aver da ridire. Approfittiamo inoltre per fare gli auguri di compleanno al recentemente assunto bassista Perry Richardson, che compie gli anni il giorno stesso dello show di cui stiamo parlando.


MEGADETH
Chi ha presenziato al Rock The Castle a Villafranca, o ha seguito il nostro report in diretta, ricorderà sicuramente l’esaltazione totale dopo quello che, volendo, si potrebbe annoverare tra i migliori show tenuti da MegaDave % Co. negli ultimi anni, sia per l’incredibile scaletta incentrata principalmente sui classici, sia per lo spettacolo generale dal retrogusto quasi old school. A questo giro il discorso è simile, con le differenze principali collocate ovviamente in una setlist più breve, per ragioni di tempo, e nella scenografia più in linea con quella utilizzata ultimamente dai Megadeth, compresa di maxischermo e filmati annessi colorati e suggestivi: l’inizio con “Hangar 18” e “The Threat Is Real”, i classici devastanti e inattesi come “The Conjuring”, “My Last Words” e “Take No Prisoners” e le varie e immancabili tracce ben note anche all’ascoltatore più occasionale: tutto reso benissimo grazie alla performance di quattro musicisti tra i migliori nel loro campo e a dei suoni potenti e ben equalizzati; eccezion fatta per il comparto vocale, già di per sé un po’ assente per via della fatica del buon Dave, che di certo non guadagna punti nel momento in cui si settano i volumi delle voci così in basso rispetto agli strumenti. A parte ciò, lo spettacolo dei Megadeth è esattamente quello che ci aspettavamo per questa occasione, sicuramente non all’altezza di quel massacro di appena una settimana fa dalle nostre parti, ma comunque settato su un livello dannatamente alto e che conferma nuovamente quanto una delle più geniali thrash metal band della storia abbia ancora tutte le carte in regola per esaltare e sorprendere gli estimatori di tutto il mondo. Dopo aver finito di scapocciare su “Peace Sells” e “Holy Wars…The Punishment Due” ci prepariamo al confronto che avverrà tra poco tra due vere e proprie icone dell’hard rock, in questo caso europeo e statunitense.


SCORPIONS
Quella che è forse, ad oggi, la più grande rock band europea, all’infuori dei mostri sacri britannici venuti ancora prima, si presenta on stage letteralmente col botto sulle note della recente “Going Out With A Bang”, proseguendo subito dopo con il trittico “Make It Real”, “The Zoo” e “Coast to Coast”. Alla faccia di chi lo dà per cotto a puntino per via dei suoi sessantanove anni di età, il vulcanico Rudolf Schenker inizia da subito a intrattenere il pubblico con le sue movenze, le sue chitarre dall’aspetto improbabile e la sua essenza da animale da palco, mentre Klaus Meine appare inizialmente un po’ più inattivo e con una voce ancora in fase di riscaldamento, anche se tutte le attenzioni sono per il sempre massiccio Mikkey Dee dietro le pelli, entrato in pianta stabile negli Scorpions meno di due anni fa in sostituzione di James Kottak, la cui presenza era evidentemente diventata un po’ troppo difficile da gestire. Nella lunga scaletta, oltre a numerosi inni, trovano posto persino un medley composto da ben quattro canzoni, un’apparizione on stage di Ingo Powitzer di supporto per l’esecuzione di “Delicate Dance” e, soprattutto, una cover di “Overkill” dei Motorhead suonata in compagnia di Phil Campbell, sulla quale tutto il pubblico si incendia arrivando persino ad accennare una sorta di piccolo moshpit, che funge da parentesi adrenalinica in uno spettacolo dove, come di consueto, non mancano certo le ballate: l’accoppiata “Send Me An Angel” e “Wind Of Change”, insieme alla toccante “Still Loving You”, rappresentano dei momenti in cui i più fortunati dovrebbero stringersi alla propria metà, intonando insieme le struggenti note vocali alzando successivamente le mani al cielo. Oltre alla sopracitata cover non sono comunque mancati i momenti grintosi, considerando l’immancabile presenza in scaletta di “Blackout”, “Big City Nights” e della conclusiva “Rock You Like a Hurricane”, che chiude un concerto sicuramente imperfetto ma comunque emozionante, e in grado ancora oggi, a distanza di molti anni, di farci sognare; passiamo sopra alle dichiarazioni di scioglimento poi smentite, ad alcuni affanni dovuti all’età e a qualche strafalcione di troppo di Matthias Jabs alla chitarra solista, pensando piuttosto al fatto che questi signori riescono ancora a suonare del grande rock, rappresentando un vero orgoglio per tutti noi estimatori europei. Ora sentiamo un po’ cos’hanno da dire gli americani…


KISS
Per chi vi scrive questo è un momento dalla forte componente emotiva poiché, esattamente dieci anni fa ad Assago, un ragazzino di quindici anni presenziava al suo primo concerto serio, che vedeva come protagonisti proprio i Kiss in occasione del loro tour dedicato all’allora trentacinquesimo anniversario della formazione. Oggi, appunto dieci anni dopo, molto è cambiato ed è passata parecchia acqua sotto i ponti, eppure la passione per la grande musica live si è fatta sempre più presente, e per questo bisogna comunque ringraziare anche Gene Simmons e soci. E’ proprio lui ad annunciare l’ingresso on stage dei Kiss, che si presentano come di consueto sulla pedana, in questo caso sulle note di “Deuce”, cui seguono in rapida successione “Shout It Out Loud” e “I Was Made For Lovin’ You”, che ci saremmo aspettati di sentire più avanti. Purtroppo è innegabile che, sin da subito, si può notare senza particolare difficoltà la fatica di Paul Stanley a intonare le stesse canzoni che lo hanno reso famoso, commettendo così anche qualche stonatura e arrivando a malapena a toccare certe note, il che ha generato qualche polemica e, se da una parte possiamo anche capirlo, dall’altra bisogna ammettere che gli anni passano per tutti: a prescindere dal fatto che l’obbiettivo siano i soldi o qualsiasi altra gratifica, vedere dei signori prossimi alla settantina ancora reggere uno spettacolo simile, compreso di tutte quelle pratiche ormai ben note a tutti, non è certo una cosa di tutti i giorni: non mancano infatti i momenti in cui Gene sputa fuoco per poi farsi sollevare a mezz’aria facendo fuoriuscire il sangue finto dalla bocca, così come il famoso volo sul pubblico di Paul in corrispondenza di “Rock And Roll All Nite”. Siamo ben consci che si tratta in fin dei conti del solito show dell’iconica band americana dal volto truccato, ma, se si è davvero affezionati a questa musica e a queste figure, non si può non provare ancora un forte senso di emozione e nostalgia, soprattutto quando in scaletta troviamo inni come “Lick It Up”, “God Of Thunder”, “Psycho Circus” e “War Machine”. La conclusione non solo dello show dei Kiss ma, per quanto ci riguarda, di tutto il festival, giunge con la ovvia accoppiata di “Detroit Rock City” e “Black Diamond”, che mette il sigillo su un’esibizione su cui potremmo discutere per ore e che, senza dubbio, ha messo in evidenza i chiari limiti della band newyorkese; ma sapete che c’è? Va bene così, perché questi comunque sono i Kiss e suonano ancora del grande rock’n roll, semplice e senza fronzoli, e noi siamo contenti di aver nuovamente perso la voce insieme a loro (la poca che ci era rimasta dopo gli Helloween la sera prima).

Senza stare a dilungarci parlando del tributo agli Ac/Dc che si sta esibendo sul Fest Stage, non possiamo non notare che il Rock Fest Barcelona 2018 finisce così, facendoci capire che è giunto il momento di tornare a casa a fare numerosi sogni su ciò che abbiamo appena vissuto, dalle band fino all’ambiente stesso, sempre molto vivibile e piacevole. Torneremo ancora l’anno prossimo? Chi può dirlo, però è innegabile che la curiosità sia tanta, soprattutto nel momento in cui apprendiamo che la prossima edizione durerà non più tre, ma ben quattro giorni, signori! Per il momento da Metalitalia.com è tutto, hasta la vista amigos y hasta la vista Barcelona!

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