Introduzione a cura di Marco Gallarati
Report a cura di Marco Gallarati, Giacomo Slongo e Fabio Galli
Fotografie di Bianca Saviane
Dopo la primissima edizione svoltasi nel 2010 all’Estragon di Bologna e le successive tre tornate tenutesi al Live Music Club di Trezzo sull’Adda, sempre verso la metà di settembre, quasi a mo’ di evento di riapertura ufficiale della stagione concertistica autunno-inverno, il Rock Hard Festival Italia di questo terminante 2014 mantiene la sua collocazione logistica più consona modificando però quella temporale: ci si sposta circa di tre mesi sulla usuale tabella di marcia, facendo svolgere la manifestazione in pieno dicembre, poco prima delle feste di Natale e, soprattutto, nel bel mezzo di due concerti di notevole richiamo per l’audience milanese e non: tre giorni prima, al Fabrique, i Mastodon e tre giorni dopo, sempre a Trezzo, gli attesissimi Meshuggah. Difficile, quindi, azzardare un pronostico sulla riuscita del Rock Hard di quest’anno: il sabato è sì il giorno solitamente favorevole per questo tipo di happening all-day-long, ma certo il periodo di grosse spese – si voglia per la crisi, si voglia per l’imminente arrivo di Satan Klaus – non aiuta. Con il senno di poi, possiamo ben dire che le tenui speranze del pomeriggio, momento in cui l’affluenza è risultata essere scarsina, sono andate floridamente crescendo fino a tarda sera, quando per Vektor, Deicide e Coroner, i tre nomi più attesi all’appello, la calca nel locale è stata degna delle occasioni che contano. D’altronde, ci si trovava di fronte un bill di tutto rispetto, con probabilmente il pezzo-clou rappresentato dall’unica data europea dell’anno della thrash cultband americana Vektor, realmente e spasmodicamente attesa; e poi, come non essere attenti e presenti alla nuova calata dei pionieri svizzeri del techno-thrash, i Coroner? Oppure all’ennesima timbrata in fronte piazzataci dall’icona death metal Glen Benton e dai suoi Deicide? A dare fuoco alle polveri, inoltre, ecco un plotoncino di validi nomi dell’underground italiano ed estero del thrash e del death metal, per una manciata di ore di metallo decisamente improntato sull’estremo ma anche, a ben vedere, di una certa varietà stilistica. Senza assolutamente dimenticare – ci mancherebbe! – l’aftershow commemorativo dei Bulldozer, tornati al Rock Hard Festival per celebrare gli ormai superati trent’anni di carriera! Un bill dunque più contenuto, almeno nel numero, rispetto a quello degli anni passati, ma sicuramente dotato di un peso specifico-su-performance bello pesante. Riviviamo ora, con calma, nei nostri singoli trafiletti dedicati, la giornata trascorsa nell’accogliente Live Music Club!
ENDLESS PAIN
Aprono le danze i bresciani Endless Pain, band che può vantare un’ottima esperienza live ma una discografia che, pur risultando continua e carica di pubblicazioni di vario tipo, non ha mai pienamente convinto. Tre sono i full-length album alle spalle per i Nostri, che si apprestano ad uscire, fra qualche mese, con un nuovo lavoro, che succederà all’ormai lontano “Chronicles Of Death”, risalente al 2011. L’influenza teutonica sul thrash-death dei ragazzi continua a scemare con gli anni e oramai, ancor più dal vivo, è difficile riconoscere negli Endless Pain i classici stilemi della band thrash metal…anzi: tutto fa pensare che il futuro, per il Dolore Infinito, abbia e avrà i contorni di un pesante e massacrante macigno death metal. Il growl di Hate è possente e cavernoso, il riffing ci pare ormai orientato verso soluzioni care a Kataklysm, Morbid Angel e, in parte, Immolation, Suffocation e Malevolent Creation, piuttosto che ricalcare le orme di Sodom e Destruction…e la stessa presenza scenica è seria e compatta rispetto alla tipica attitudine casinista della thrash metalband – si vedranno più tardi, in merito, gli Hyades. La quarantina di minuti di performance è quindi risultata godibile e professionale sotto tutti gli aspetti, rovinata solo sul finale dalla sciagurata idea del frontman di chiedere un wall-of-death alla cinquantina di persone presenti in platea, partecipante sì ma anche solo educatamente interessata allo show: l’effetto è stato drammaticamente fantozziano, con temerari impegnati in false partenze appena accennate, tentativi di rincorsa andati a male e un attraversamento solitario della platea in diagonale degno del miglior Rag. Filini. Il tutto è terminato con un bel porcone di Hate, che assieme ai suoi compari ha lasciato lo stage ironicamente sconsolato. Bravi comunque, Endless Pain, ci siete piaciuti!
(Marco Gallarati)
SVART CROWN
Dopo averci impressionato positivamente lo scorso anno grazie al loro ultimo disco “Profane”, gli Svart Crown si confermano un talento su cui puntare anche in sede live, rendendosi protagonisti di una delle performance più violente e serrate dell’intero Rock Hard Festival. Spiace soltanto che buona parte del pubblico, inevitabilmente orientata verso sonorità sì estreme, ma classiche e tradizionali, abbia preferito starsene al bancone del bar o in prossimità dei vari stand; parliamo comunque dell’unica nota stonata in un insieme altrimenti grandioso. Il black/death evoluto e nero come la pece del quartetto d’Oltralpe, ipotetico anello di congiunzione fra la solennità dei Behemoth, l’approccio old-school dei Morbid Angel e quello sperimentale (fatto di dissonanze, riff obliqui e atmosfere ipnotiche) degli Ulcerate, ha scatenato un vero e proprio martirio all’interno del Live, sospinto nel suo incedere apocalittico dall’ottima prova dietro al microfono di JB Le Bail – spesso “doppiata” da quella del secondo chitarrista Clément Flandrois – e dall’impietosa sezione ritmica, sempre puntuale nel rimarcare i cambi di tempo e umore dei brani. Su tutti, ha brillato la maestosa e raggelante “In Utero: A Place Of Hatred And Threat”, che con i suoi giochi di riverberi e chiaroscuro, i suoi strappi in blast-beat e le sue linee melodiche malatissime è assurta rapidamente a manifesto dello Svart Crown-pensiero, formazione oggi più affiatata che mai e collocabile senza troppe esitazioni ai piani alti del circuito extreme metal europeo. Se ancora non li conoscete, segnatevi il loro nome da qualche parte.
(Giacomo Slongo)
HYADES
Dopo la parentesi quasi raffinata dei transalpini Svart Crown, veniamo ricatapultati ferocemente sul pianeta Terra dal thrash genuino e moshing-oriented degli Hyades, combo di Varese ormai quasi arrivato al ventesimo anno dalla sua fondazione. La folla, all’alba delle 18 in punto, comincia a farsi nutrita e, a tutti gli effetti, la prestazione dei Nostri è la prima della giornata che genera trasporto, pogo e attiva partecipazione. Brani quali “Pharmageddon”, “No Man’s Land”, “Alive But Dead” e soprattutto “Megamosh” riescono con scioltezza a disintorpidire le membra ancora assonnate dei tanti thrasher presenti che, aiutati dalla simpatia trascinante del frontman Marco Colombo – da segnalare i suoi bellissimi (!) pantaloncini neri aderenti quale elemento di spicco della scenografia della formazione -, si lasciano travolgere dalle sonorità dirette e (relativamente) poco complesse del quintetto, richiamanti più la Bay Area che la controparte di genere europea. Spettacolo in crescendo quello degli Hyades, baciato da suoni discreti ma non eccezionali e tenuto in piedi dalla piccantissima verve insita alla band, affiatata e coesa da tanti anni di militanza. Bravi intrattenitori, chiaramente non esattamente mostri d’originalità sonora, i ragazzi hanno chiuso con l’energica cover di “Fight For Your Right” dei Beastie Boys, che ha fatto cantare, come fin troppo prevedibile, anche chi non li aveva mai visti live. Anche loro promossi, dunque, e festival che ingrana finalmente la seconda marcia!
(Marco Gallarati)
THE MONOLITH DEATHCULT
Il concerto dei The Monolith Deathcult, purtroppo, non può ricevere altra definizione che non sia quella di ‘ingiudicabile’. Il combo olandese, di ritorno in Italia dopo molto tempo, era certamente uno dei set più attesi e incuriosenti della giornata, in quanto, pur non essendo esploso commercialmente a livelli enormi, ha segnato, con i suoi ultimi due lavori di inediti, “Tetragrammaton” e “Trivmvirate”, un deciso passo in avanti in termini di apprezzamento mediatico e originalità stilistica. Il death metal tetragono, marziale e crudele della band è imbastardito in maniera invadente da effetti elettronici di vario genere, del tutto indivisibili dalla classica strumentazione metal anche in sede live, proprio per creare la stessa atmosfera straniante che possiedono i brani su disco. Ebbene, ai TMDC sono addirittura serviti quattro tentativi andati a vuoto per rendersi conto di come quella perquisizione effettuata alla dogana, durante la quale sono stati staccati i settaggi del computer addetto alla programmazione delle basi, abbia bellamente scombinato tutti i loro piani: non appena la base con il click del metronomo per il batterista partiva, infatti, ecco un gradevolissimo ‘tic-tic-tic’ ben udibile da tutti i presenti in sala, ahinoi. Carsten Altena, il tastierista addetto anche ai samples e al programming, dopo un altro paio di prove dall’esito tragico, effettuate durante lo show, ha saggiamente deciso di impacchettare tutto e abbandonare il palco, lasciando ai suoi quattro compari l’arduo compito di procedere con un’esibizione senza basi di sostegno e con i settaggi degli strumenti completamente a ramengo. Non abbiamo modo di sapere con sicurezza se la setlist, a causa di questo grave problema, sia stata accorciata e/o modificata – dai conciliaboli del quartetto fra un pezzo e l’altro, supponiamo di sì – ma fatto è stato che lo spettacolo degli oranje è uscito fuori drammaticamente compromesso. Basti pensare ad un brano quale “Human Wave Attack” senza elettronica per capire quanto castrata possa esser stata la performance dei The Monolith Deathcult, che comunque sono risultati ammirabili per impegno profuso e disponibilità a mostrarsi ‘nudi e crudi’ on stage. Alla fine, almeno “Wrath Of The Ba’ath” ha avuto il suo perché, anche in versione ‘sala prove’. Sfortunatissimi, dunque, e a questo punto…speriamo possano tornare presto!
(Marco Gallarati)
VEKTOR
Una cosa è certa: l’hype generatosi attorno ai Vektor non ha eguali nella scena thrash metal contemporanea. Ne abbiamo la definitiva conferma questa sera, subito dopo la sfortunata performance dei The Monolith Deathcult, quando il quartetto statunitense (residente a Philadelphia ma originario di Tempe, Arizona) irrompe senza troppi preamboli sul palco del Live Music Club, accolto dai calorosissimi applausi e dalle urla di incitamento della folla. In molti fra il pubblico sembrano essere venuti qui appositamente per loro e i Nostri – capelli lunghi, sneakers ai piedi e jeans attillati – non tardano ad accontentarli: “Cosmic Cortex”, tratta dall’ultimo “Outer Isolation”, esplode come una supernova impazzita dalle casse, snocciolando uno dopo l’altro tutti i trademark del Vektor-sound, visionario amalgama sonoro a base di Voivod, Coroner, Watchtower e Death del periodo post-“Human”. La voce acida, graffiante, non troppo dissimile da quella del compianto Chuck Schuldiner, del cantante/chitarrista David DiSanto è in effetti il primo elemento dell’insieme a spiccare, ma non passa molto tempo prima che le nostre orecchie – assieme a quelle di centinaia di thrasher in visibilio – vengano investite da uno sciame di riff ultra-tecnici e frenetici, impiantati su strutture articolatissime, strabordanti di cambi di tempo e dall’inconfondibile sapore progressivo. Fondamentale in questo contesto l’apporto della sezione ritmica, con il basso pulsante di Frank Chin e la batteria di Blake Anderson (un vero mostro a otto braccia dietro ai tamburi) a fare da contraltare alle evoluzioni prodigiose della coppia d’asce. Difficile trovare qualcosa di fuori posto nello show del four-piece a stelle e strisce: i cinquanta minuti a disposizione della band proseguono sull’eccellente falsariga dell’opener, scanditi da brani ormai entrati nella Storia del loro microcosmo di riferimento (“Asteroid” e la vorticosa “Destroying The Cosmos” in primis) e dai consensi unanimi della platea. Ottimi sotto ogni punto di vista!
(Giacomo Slongo)
DEICIDE
Dal thrash metal progressivo e futuristico dei Vektor al death metal satanico e brutale dei Deicide il passo non è certo breve, ma francamente – dopo un’ora di musica cervellotica – una sana carneficina vecchio stampo è quello che ci vuole per riprendere contatto con la realtà. Glen Benton, Steve Asheim, Jack Owen e il finalmente assunto a tempo indeterminato Kevin Quirion si presentano sul palco alla loro maniera, senza particolari clamori e con il solo logo issato alle spalle del drum-kit a fungere da scenografia, partendo a razzo sulle note di “In The Minds Of Evil”, titletrack del disco uscito lo scorso anno per Century Media. Un brano già di per sé riuscito, ma che questa sera – merito dell’ottimo stato di salute dei quattro floridiani e di suoni semplicemente stellari – si trasforma seduta stante in un bulldozer, facendo scempi della folla con i suoi riff stoppati e le inconfondibili strofe “in rima” di Benton, come sempre portentoso e carismatico dietro al microfono. Fra tutti i cantanti appartenenti alla mitica scena statunitense di inizio anni ’90 (pensiamo ai vari John Tardy, David Vincent e Chris Barnes), il Nostro si conferma il più immune allo scorrere del tempo, sfoggiando un growling profondissimo e distruttivo che mette a serio repentaglio le fondamenta del locale di Trezzo sull’Adda. E il resto della truppa non è ovviamente da meno: se Asheim dietro la sua gigantesca batteria è un vero e proprio uragano, Owen e Quirion alle chitarre non stanno certo a guardare; soprattutto il secondo – impegnato anche alle backing vocals – è autore di una performance inattaccabile, che ridicolizza una volta per tutte le inopportune comparsate dell’ex Ralph Santolla, cacciato a ciabatte in faccia (sul serio, non per modo di dire) proprio qui in Italia. Come ormai sua consuetudine, il combo americano macina pezzi su pezzi senza guardare in faccia nessuno, dosando con estrema parsimonia le pause e concentrandosi in primis sull’annientamento dell’audience, la quale viene letteralmente subissata di mazzate in salsa satanic death metal. Piovono così dal cielo – anche se forse sarebbe più corretto dire “dagli inferi” – cavalli di battaglia del calibro di “When Satan Rules His World”, “Trifixion” e “Lunatic Of God’s Creation”, le cui riproposizioni coincidono con i momenti più esaltanti e adrenalinici (basandosi anche sull’intensità del pogo) di questo Rock Hard Festival 2014. Settanta minuti di performance e tutti a casa, i Deicide hanno vinto anche questa volta.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
In The Minds Of Evil
Thou Begone
Godkill
When Satan Rules His World
Serpents Of The Light
Children Of The Underworld
Conviction
Dead But Dreaming
Trifixion
Scars Of The Crucifix
Once Upon The Cross
Beyond Salvation
End The Wrath Of God
Lunatic Of God’s Creation
Sacrificial Suicide
Dead By Dawn
Homage for Satan
CORONER
Un gradito ritorno, quello dei Coroner, sulle assi del Live di Trezzo dopo la precedente apparizione avvenuta nel 2011, sempre in occasione del Rock Hard Festival. Presenti in formazione rimaneggiata a causa dell’abbandono di Marquis Marky alla batteria – degnamente sostituito dall’entrante Diego Rapacchietti – i Nostri si presentano sul palco puntalmente alle 22.45 accompagnati da un’ovazione dei presenti. Chi ha già visto in passato l’ensemble elvetico sa esattamente cosa attendersi dalle loro esibizioni dal vivo: al contrario di tante formazioni thrash d’annata che puntano tutto sull’impatto, i Coroner hanno sempre avuto un approccio più ragionato ed incline all’andatura progressiva delle loro ultime pubblicazioni. Niente headbanging sfrenati, spostamenti sul palco ridotti al minimo sindacale e giusto qualche scambio di battute tra una canzone e l’altra: cosa rende quindi così magica l’esibizione dei Coroner? Oltre all’assoluta bontà dei pezzi della loro discografia, i Coroner stupiscono per la classe innata e per la precisione con cui sciorinano una dietro l’altra le hit che a più di due decadi di distanza suonano ancora attualissime. I pezzi di “Grin” – l’episodio meno immediato della loro discografia – affascinano per atmosfera ed il loro incedere ipnotico, mentre spetta ai pezzi di “Mental Vortex” e “No More Color”, indiscussi capisaldi del movimento techno-thrash, il compito di aumentare a dismisura l’adrenalina dei fan più esagitati. Impossibile non notare l’esaltazione dei Vektor disposti a bordo palco, tanto che il loro bassista Frank Chin, probabilmente un po’ su di giri per ‘vari motivi’, durante “Internal Conflicts” accenna uno stage diving fra il pubblico, poi però rimesso in cantina per troppa indecisione. Senza nulla togliere agli altri pezzi in scaletta, l’apice dell’esibizione si raggiunge con “Semtex Revolution”, “Son Of Lilith” e con la doppietta “Read My Scars”-“Tunnel Of Pain”, tutti brani in cui emerge l’estro compositivo ed esecutivo di Ron Roice e Thomas Vetterli. Rispetto alla precedente edizione del Rock Hard Festival, i Coroner hanno rimosso dalla scaletta le cover di Jimi Hendrix e dei D.A.F. puntando esclusivamente sul loro materiale e mettendo in piedi una scaletta pressochè perfetta. Una lunga serie di flash-strobo preannuncia l’uscita di scena della formazione, che in men che non si dica ritorna poi sul palco riesumando la mitica “Reborn Through Hate”, dal primo “R.I.P”, e “Die By My Hand”, apripista del loro indiscusso capolavoro – per chi scrive – “No More Color”, acclamata a gran voce da tutti i presenti. Con dei suoni assolutamente perfetti accompagnati da un’ottima accoppiata visiva – luci d’effetto ed immagini a tema proiettate sullo sfondo – anche per questa edizione del Rock Hard Festival i Coroner hanno lasciato il loro marchio indelebile con una prova degna del loro nome che, a nostro avviso, bissa la precedente calata in quel di Trezzo. Attendiamo con grande trepidazione il ritorno discografico della formazione: inutile dirvi che le nostre aspettative sono decisamente elevate.
(Fabio Galli)
Setlist:
Golden Cashmere Sleeper, Part 1
Divine Step (Conspectu Mortis)
Serpent Moves
Internal Conflicts
D.O.A.
Son Of Lilith
Read My Scars
Tunnel Of Pain
Semtex Revolution
Status: Still Thinking
Metamorphosis
Masked Jackal
Grin (Nails Hurt)
Encore:
Reborn Through Hate
Die By My Hand
BULLDOZER
Dopo più di otto ore di metallo estremo, dopo le mazzate al fulmicotone di Vektor e Deicide e dopo lo show-caterpillar dei Coroner, non tutti i presenti tengono duro fino alle 00.45 per l’aftershow dei nostri Bulldozer; nonostante ciò, l’affluenza per celebrare il trentennale di questo orgoglio tricolore si mantiene positiva. Oltre ai trent’anni d’attività, sul piatto, da presentare, ci sono anche la biografia ufficiale del gruppo e lo split-CD natalizio, intitolato “Jingle Hells”, edito con gli amici e coevi Death SS. La band quindi, per l’occasione, mette in piedi un set breve – poco più di quarantacinque minuti – ma incisivo e carico di ospitate di lusso. Come previsto, non viene eseguito nessun estratto da “Unexpected Fate”, il disco del ritorno sulle scene, bensì solo materiale risalente agli Eighties, tratto dai vari “The Day Of Wrath”, “Neurodeliri”, “The Final Separation” e “IX”. L’entrata in scena di AC Wild e della band tutta è affidata all’intro “The Exorcism”, durante il quale AC, dal suo pulpito insanguinato, ‘libera’ una sorella indemoniata e invasata, per poi lanciarsi in un’esagitata “Cut-Throat”, seguita da “The Great Deceiver”. I suoni non sono eccezionali e i Nostri non spaccano tutto come avevano fatto durante la loro ultima partecipazione al Rock Hard Festival, ma la serata è sul finire e quindi basta divertirsi e scapocciare un po’ con lo speed-thrash sparato dei milanesi. Per l’esecuzione di “Whisky Time” viene chiamato sul palco Flegias dei Necrodeath a duettare con AC sul ritornello del pezzo e ingollare del sano Jack nei gargarozzi di tutta la band, che sentitamente ringrazia. Andy Panigada, spruzzato di sangue (finto) sul viso, e i fidi Death Mechanism di supporto sorreggono bene la performance, come al solito condotta per mano, col suo savoir faire meneghino e decisamente retrò, da un Wild ciarliero e divertito. Il finale di concerto è affidato al bis dell’immortale “The Derby”, ma il clou arriva poco prima, quando vengono proposte di fila le cover di “Murder Angels” dei Death SS e di “Welcome To Hell” e “Countess Bathory” dei Venom: per la prima salgono sul palco le due performer femminili dei Death SS, la cantante Steva La Cinghiala e la ‘ballerina’ Martyna Smith, che allietano orecchie e occhi della platea con un vigoroso, blasfemo e sensuale entertainment; per la seconda, AC introduce on stage il fondatore dei Venom Mantas, prima di prendere in mano il basso per l’esecuzione del brano in un’epica versione a tre chitarre e due bassi! Infine, al culmine del trip, “Countess Bathory”, portata a termine con tutta la ciurma al completo e con un Mantas decisamente su di giri. Degna e scanzonata chiusura per un Rock Hard Festival 2014 che forse non ha avuto il successo sperato e che sicuramente non ha ripetuto l’ottimo esito di un anno fa, e che però, ad ogni modo, ha regalato delle performance di alto livello, qualche imprevisto e del tempo trascorso in buona compagnia e con la musica che più ci piace. Ora dritti alla sesta edizione!
(Marco Gallarati)