A cura di Maurizio “MorrizZ” Borghi
Foto di Francesco Castaldo
La terza edizione del Rock In Idro resterà per lungo tempo nelle polemiche, almeno per quanto riguarda l’organizzazione. L’evento, che sin dal nome dovrebbe albergare nell’oasi milanese dell’Idroscalo, è all’inizio “confermato” nella più ovvia location (trovate ancora le news, basta googlare o entrare negli archivi di Metalitalia.com), mentre successivamente, con scarso preavviso e a prevendite già iniziate, trasferito all’inferno di lamiera e cemento del Palasharp. L’organizzazione ha puntato il dito sulla giunta provinciale, mentre questa ha smentito immediatamente, per di più il fatto che resti confermato all’Idroscalo un evento del tutto simile (Nine Inch Nails e compagnia) fa sorgere dubbi più che leciti. La settimana prima del festival, in ogni caso, per lenire i sempre più asfissiati possessori di biglietto, una nuova comunicazione viene diramata a mezzo stampa. Citiamo due passi salienti: “Le previsioni prevedono un giornata di nuvoloso per domenica 14 ma con temperature miti tra i 28° la massima e 18° la minima, quindi il tanto temuto effetto forno del Palasharp sarà scongiurato e il festival, nonostante il forzato spostamento, sarà sicuramente un grande successo…”. Evidenziando l’ironia che lo stesso ufficio stampa pone sulla location, indicandola come “Palaforno”, è bene sottolineare come il meteo può sbagliare, infatti la temperatura ESTERNA al Palasharp si è stabilizzata ben al di sopra della tacca dei 30°. In ogni caso non è colpa di nessuno che abiti il globo terraqueo. Il peggio viene dopo: “i ventilatori industriali con getti di acqua vaporizzata rinfrescante sono stati installati all’interno della struttura mentre all’aperto vi aspettano ben 60 docce!!!”. Ci preme analizzare nel dettaglio la seguente frase, perché gli spettatori ancora in grado di connettere si sono trovati leggermente sbigottiti nel vedere che i ventilatori industriali erano in realtà due ventilatori da camera posti a lato palco del diametro di circa 50cm, e che le 60 docce erano in realtà una canna dell’acqua attaccata alla recinzione del palazzetto, con un numero imprecisato di fori (forse 60?). Beffe subite, non resta che concentrarsi sulla musica. A quanto pare la prima giornata ha mostrato un barlume di intelligenza del pubblico italiano, che ha preferito la salamella a Pete Doherty, lasciandolo da solo nel Palaforno (utilizzeremo d’ora in poi questo soprannome, come suggeritoci dall’ufficio stampa) durante la sua tiepida esibizione. Per quanto riguarda la domenica, ecco nel dettaglio quello che siamo riusciti a seguire, in quanto l’unico rappresentante del sito è rimasto a lungo in attesa per svolgere le interviste che leggerete in futuro su queste pagine, raggiungendo gli artisti con estrema difficoltà (anche con l’accompagnamento dei promoter locali). Un pessimo modo per iniziare la stagione estiva italiana…
ALL THAT REMAINS
(Premessa: i primi gruppi se ne sono andati mentre il sottoscritto intervistava i Gallows, già sudato dalla testa ai piedi). Sicuramente il gruppo più metal della giornata, gli alfieri della NWOAHM si presentano in perfetto orario davanti ad un pubblico esiguo ma già in palese difficoltà. Phil Labonte fronteggia il combo del Massachussets con maestria, dimostrandosi in stato di grazia per quanto riguarda la prova vocale. Il resto della band sembra sul punto di svenire da un momento all’altro, tanto che l’headbang del chitarrista Oli Herbert produce l’unico spostamento d’aria percepibile su un palco infernale. La piccola Jeanne Sagan, già di suo con una presenza scenica dimenticabile, è quella che sembra patire più di tutti il clima estremo, e in più di un’occasione viene schiacciata a terra da un basso mai così pesante tra le sue braccia. I suoni sono comunque ottimi, e sulle note di "Six" il pubblico si esalta lo stesso, trascinato dalla musica sino alle conclusive "Two Weeks" e "This Calling". Ovazione a fine concerto: un’accoglienza calorosissima (scusateci il gioco di parole) per gli All That Remains!
PARKWAY DRIVE
Chi scrive ha sentito i Parkway Drive dall’esterno del Palaforno, avendo dovuto attendere (contro la propria volontà) per quasi tutta la loro esibizione di oltrepassare le sbarre e di intervistare i BMTH.
GALLOWS
Anticipati dall’incendiario “Grey Britain” (rece in arrivo) i Gallows sono il gruppo più pericoloso in scaletta la domenica. Un concentrato di punk e hardcore genuino e minaccioso, che trova l’incarnazione estetica nel frontman Frank Carter, rosso, ossuto e inchiostrato frontman che non le manda certo a dire: prima di gettarsi tra le prime file e cantare in mezzo al circle pit, asta in mano, e prima di distruggere il set e andarsene col medio alzato, facendo cadere il microfono, il cantante si è lanciato contro le persone di fede (“Don’t matter what’s your faith, when you’ll die you’ll rot in the fucking ground!”), il Papa (“Fuck the Pope”) e, giustamente, contro chi ha avuto l’idea di collocare al chiuso un festival estivo (“Fuck this… This is hotter than the fucking sun!”). Grinta a palate insomma, e una prova distruttiva da parte di ogni singolo membro del gruppo. Peccato solo per la voce di Carter, leggermente debole soprattutto se paragonata all’album. Li vogliamo in un club.
BRING ME THE HORIZON
Il posto più vicino ai tre “big” del Rock In Idro è occupato dai Bring Me The Horizon, realtà in ascesa graduale e costante. Di sicuro la band di Oli Sykes (che ci pare abbronzatissimo e “cresciutello” in altezza) non è abituata ai palchi dei festival, e forse non si trova del tutto a proprio agio di fronte ad un’audience così lontana dalle proprie abitudini. Il risultato finale riesce ad essere ad ogni modo convincente, con una prova vocale degna (spesso il tallone d’Achille degli inglesi) e dei suoni a volte confusi. Buona anche la performance del chitarrista temporaneo Jona Weinhofen (Bleeding Through e I Killed The Prom Queen), un perfetto sostituto per il dimissionario Curtis Ward. Il contesto è un locale oramai pieno, dove una birra appena spillata diventa calda e imbevibile durante l’esecuzione di “Chelsea Smile”. Non convincono il pubblico occasionale, ma siamo sicuri che i fan li accoglieranno a braccia aperte e in gran numero alla loro prossima venuta, prevista per novembre 2009.
LACUNA COIL
Una Cristina così bagnata gli Italiani non l’hanno mai vista, nemmeno nei loro sogni più spinti. L’esibizione del gruppo al Rock In Idro consegna i Lacuna Coil, lanciatissimi nelle classifiche mondiali con “Shallow Life”, direttamente al pubblico di casa loro, in una cornice finalmente ottimale (soprattutto se rapportata a situazioni infelici come quella del Frozen Rock). I Lacuna sembrano non sentire il clima e si presentano vestitissimi pur sotto i riflettori, gettandosi a capofitto in una scaletta che riassume in fila tutti i successi della loro carriera. L’ultimo album è rappresentato in maniera corposa da “I’m Not Afraid”, “Not Enough” ,”I Won’t Tell You” e il singolo “Spellbound”, tutte sostenute, come le le hit del passato (“Our Truth”, “Heaven’s A Lie”), da un pubblico che venera i milanesi in tutto e per tutto, cantando a squarciagola e battendo le mani. L’apice è segnato dalla conclusiva “Enjoy The Silence”, che si conferma la più amata dagli italiani e chiude l’esibizione in un entusiasmo oltre le più rosee previsioni. Vi siete fatti attendere, cari Lacuna Coil, ora tornate ad abbracciare il pubblico italiano diffusamente e in maniera capillare!
LIMP BIZKIT
Wes Borland aveva negato più volte un suo ritorno nei Limp Bizkit, soprattutto dopo il fallimentare “The Unquestionable Truth (Part 1)”, dove nemmeno Ross Robinson riuscì a salvare un gruppo alla deriva da risultati del tutto imbarazzanti. Seguirono progetti solisti trascurabili e, dopo un periodo infruttuoso alla corte del Reverendo (Marilyn Manson) ecco il ritorno alle origini (o il richiamo del portafogli?) in questo tour di estate 2009 che, a detta della band, fa da prologo alle registrazioni di un nuovo album. Dopo l’intro “Space Odissey” cala il sipario sul palco del Rock In Idro, ed è come se nulla fosse cambiato: Fred Durst ha il New Era rosso fuoco girato all’indietro (e degli orribili occhiali), Wes Borland è truccato come un alieno, Sam Rivers ha il basso coi led, John Otto ha la stessa faccia da simpaticone e DJ Lethal troneggia alla consolle, adornata dalla bandiera tricolore per l’occasione. Selezione perfetta quella dei Limp Bizkit, che accontenta davvero tutti con gli spensierati cavalli di battaglia della formazione: si balla con “Nookie” e “Rollin'” passando per “Faith”, e si alzano le mani con i brani più lenti come “Rearranged” e “Behind Blue Eyes”, giusto per accontentare anche le numerose ragazze che con lo sguardo non mollano Fred Durst per un secondo. La performance della band di Jacksonville è impeccabile, anche se non eccelsa: c’è qualche erroraccio qua e là, e c’è poca alchimia tra i componenti del gruppo, evidente nel siparietto di cover, dove Borland sembra suonare solo quando non deve, quasi per far dispetto a Durst. Non frega niente a nessuno in ogni caso, tutto i condannati nel forno crematorio vogliono solo scatenarsi a dispetto della temperatura prossima alla fusione del metallo, e il gioco è presto fatto: un’esibizione che lascia tutti soddisfatti, li aspettiamo col prossimo disco in studio.
Setlist:
Space Odyssey (intro)
My Generation
Livin’ It Up
Show Me What You Got
Break Stuff
Nookie
Rearranged
Eat You Alive
Rollin’
My Way
Faith
——-
Behind Blue Eyes
Take A Look Around
FAITH NO MORE
Il momento clou del Rock In Idro, quello dove la capienza del Pala-inceneritore risulta massima e temperatura ed umidità toccano soglie da sauna, tanto da rendere i 27° all’esterno una piacevole brezza montana, è sicuramente e giustamente al turno degli headliner. Assenti dai palchi italiani da più di dieci anni, i Faith No More decidono di riunirsi e di dominare l’estate dei festival europei con la line-up storica (Patton, Gould, Bordin, Bottum e Hudson – ovvero tutti tranne l’incorruttibile Jim Martin). L’attesa è spasmodica e il pubblico fremente, tanto da non considerare le condizioni climatiche impossibili. Il palco del è adornato con dei grandi teloni rossi, come fosse un teatro, e sulle note di "Reunited" dei Peaches & Herb fanno la comparsa i componenti del gruppo, tutti in abito da sera. Ultimo a calcare la scena ovviamente Mike Patton, che sfoggia un completo argentato e cangiante, e raggiunge l’asta del microfono fingendo di zoppicare e aggrappandosi ad un bastone da passeggio. Dopo il siparietto introduttivo si fa subito sul serio, e con "The Real Thing" si aprono le danze. Chi scrive è dichiaratamente scettico sulle motivazioni della reunion (lo testimonia il fatto che la band ha rifiutato di rilasciare interviste), ma non si fa problemi nel dichiarare che il concerto di oggi è forse una delle performance più esaltanti a cui si è assistito nel 2009: le esecuzioni perfette, la scaletta lodevole e il sostegno del pubblico fanno tanto, ma ciò che stupisce è la straordinaria alchimia che rende possibile uno scambio di energie e di emozioni tra la band, i suoi componenti, e il pubblico come unica enorme entità. Non c’è un frammento di canzone lasciato agli spettatori che non viene cantato a squarciagola, non c’è un passaggio ignorato o una canzone sacrificata, tutto è insolitamente, incredibilmente eccezionale. Nulla di questo sarebbe stato possibile, ovviamente, senza un frontman come Mike Patton, che sa essere pieno di stile e personalità ma al contempo sa trascinare e catalizzare l’attenzione come nessun altro, facendo sfoggio di un’ugola ancora potentissima e davvero versatile. La sobrietà della sua esibizione ha fatto disintossicare tutti i suoi fan da anni di esagerazioni sperimentali, e l’ha riconsegnato nella sua dimensione migliore, l’unica dove merita tutti gli allori affibbiatigli. Non ci ricordavamo, in ogni caso, che Mike sapesse parlare un italiano praticamente perfetto (ha vissuto a Bologna per parecchio tempo, durante il matrimonio con l’italianissima Titi Zuccatosta), è quindi quasi irreale vederlo stuzzicare l’audience con ironia o, meglio ancora, assistere ad un’ "Evidence" in versione italiana (cercatela su Youtube), vera e propria ciliegina sulla torta. Forse tantissimi dei presenti ci sono rimasti male per l’esclusione dalla setlist di "Diggin’ The Grave", ma è quasi un piacere questo sgambetto a tutti coloro che conoscono i FNM come "quelli della colonna sonora di Jack Frusciante"… andatevi a recuperare la discografia. Patton non è dio, ma, dannazione, la performance di stasera è stata impagabile, e ha tranquillamente sotterrato tutte le rimanenti del weekend.
Setlist:
Reunited (cover dei Peaches & Herb)
The Real Thing
From Out of Nowhere
Land of Sunshine
Caffeine
Evidence – in una inedita versione in italiano, secondo Mike Patton "un po’ Eros (Ramazzotti)"
Chinese Arithmetic
Poker Face – si, proprio un accenno della hit di Lady Gaga
Surprise You’re Dead
Easy
Ashes to Ashes
Midlife Crisis
Introduce Yourself
Gentle Art of Making Enemies
I Started a Joke
King for a Day…
Be Aggressive
Epic
——–
Chariots of Fire/ Stripsearch
We Care a Lot