TURBONEGRO
Scattato giù dall’auto dopo otto ore lavorative e un’oretta di frustrazione cortesemente offerta dalla tangenziale est di milano, chi scrive arriva alla prima edizione del Rock in Idro giusto giusto per assistere alla performance dei Turbonegro, gli animali da party più brutti, gay e sfacciati sul pianeta terra. Dal vivo la reunion di questa sorta di Village People del rock n’ roll funziona, e anche alla grande: il loro cattivo gusto a livello caricaturiale li ha giustamente consacrati al ruolo di icone del rock contemporaneo, e non è difficile trovare tra il pubblico le caratteristiche giacche di jeans con impresso il cappello da poliziotto e la scritta ‘Turbojugend’ e il nome della città di appartenenza (ne ho intravista pure una targata Napoli!). Largo spazio alle hit di “Party Animals” con “Blow Me Like The Wind” sugli scudi, un inno alla fellatio reso anor più esplicito dal singer che non tarda a spiegarne il significato, saltellando e incitando i fan, fiero della sua trippa molliccia che si porta in giro per lo stage. Happy Tom, ovvero il matto marinaio, è protagonista della più datata “The Sailorman”, e mentre viene snocciolata una scaletta davvero completa il combo non manca di stupire anche con vere e proprie pacchianate: i due cannoni pirateschi ai lati del palco cominciano a sparare banconote con i volti del gruppo, e in un secondo momento una felice coriandolata color oro. Ad un certo punto piovono dal palco anche centinaia di variopinti palloncini che faranno divertire i rocker nostrani fino alla fine dell’act. Prestazione decisamente ottima e come al solito sopra le righe, ancora lontana dalla professionalità che si poteva sospettare dopo la reunion del gruppo. Certo non sono selvaggi come una volta (quando il singer si infilava dei bei candelotti fumogeni su per il deretano) ma restano ancora autentici.
PENNYWISE
Non saremmo in Italia se nella scaletta di un festival non saltasse qualche big. In quest’ultimo caso almeno non si è trattato di un headliner (anche se potremmo tranquillamente parlare di co-headliner), sta di fatto che gli attesissimi Transplants di Travis Barker e Tim Armstrong e i pop punker più famosi al globo Good Charlotte saltano a pie’ pari la data (per i secondi forse un vantaggio, la sassaiola era quasi certa). Abilmente l’organizzazione ha però trovato un rimpiazzo adatto, rappresentato dai californiani Pennywise, alfieri dell’hardcore melodico e da anni sulla cresta dell’onda grazie al fedele supporto dei fan. Sfortunatamente non era serata nemmeno per loro, visti i suoni indegni e i volumi ridicoli coi quali hanno ripercorso dieci anni di repertorio. Di certo sul palco, con short e cappellino da baseball sempre sul capo, questi surfer cercano di dare il meglio anche a livello di fisicità, ma gli anni si fanno sentire e anche se il pubblico li sostiene per le hit maggiori (“Same Old Story” su tutte) la performance resta per tutta la durata dello show sul limite della sufficienza.
THE HIVES
Attesi da tutti e soprattutto da chi scrive, nessuna aspettativa viene tradita: i The Hives se la suonano. Il caldo torrido assente per la maggior parte di agosto fa visita all’Idroscalo ma non impedisce ai nordici di presentarsi con la loro caratteristica divisa: elegante giacca bianca con camicia nera e cravattino bianco. Il caschetto del frontman non esita a dimenarsi dall’inizio alla fine nella sua tarantolata e sconnessa danza, facendo scuotere le teste e generando unanimi approvazioni. Sopra le righe il chitarrista, che sottolinea anch’egli ogni passaggio dimenandosi come un ossesso. Il gruppo gioca abilmente col pubblico e risulta anche sinceramente simpatico, le trovate sceniche sono coinvolgenti (il “fermo immagine” che li ha visti immobili per un minuto pieno è sicuramente da menzionare) e il calar del sole sicuramente ha giovato alla performance del combo, che anche se priva di effetti scenici riesce a coinvolgere appieno solo con il nome scritto in corsivo su neon rosso fuoco dietro il palco. Unica pecca è la scelta della scaletta, che lascia per ultimi pezzi meno noti giocandosi troppo presto hit a colpo sicuro. Davvero niente male.
THE OFFSPRING
Eccoci arrivati al main event, che fa riempire, ma non del tutto, il prato dell’idroscalo. Inevitabile considerare come il gruppo in questione abbia spaccato il pubblico, diviso tra nostalgici della vecchia guardia (sicuramente un modo di dire, perché anagraficamente si parla sempre di ragazzi tra i 25 e i 30), in visibilio per le hit del capolavoro “Smash”, e i fan più giovani, che inneggiano ai successi più recenti e demenziali come “Pretty Fly (for a white guy)”. Il sottoscritto non partecipa a questa faida, ma non può fare a meno di notare quanto i fan passino sopra alla scarsa esecuzione dei brani, coinvolti appieno e livello emotivo dalla colonna sonora delle loro scorribande iceali. L’entrata in scena è di quelle che neppure all’oratorio si possono accettare: la chitarra è completamente muta e a nulla serve il primo cambio strumento, Dexter Holland si ritrova imbolsito a cantare l’opener accompagnato dalla sezione ritmica. “Shit Can Happen” direbbe qualcuno, gli inconvenienti capitano, ma un’ora di anonimato non può essere ignorata: sebbene come già detto la stragrande maggioranza dei presenti si esalti all’unisono intonando “Self Esteem”, “Come Out And Play” o le altre, il biondo cantante resta inchiodato al terreno, immobile e anche un po’ scazzato dall’inizio alla fine. Noodless tenta di dare un minimo di dinamicità con un paio di saltelli qua e là ma le song, anche un pochetto rallentate, sono sì fedeli alle registrazioni, ma risultano davvero freddine, soprattutto per chi ha l’occasione di vedere il gruppo per la prima volta. La scaletta esaustiva fa contenti davvero tutti, solo poche canzoni meritevoli restano fuori per limiti di tempo piu che altro (“What Happened To you?” o “Mota” per esempio), nel complesso un’oretta che rende felice la quasi (e sottolineo quasi) totalità degli spettatori.