A cura di Edoardo De Nardi
Il 1° giugno 2014 sarà sicuramente una data da ricordare per i numerosissimi fan italiani che ormai da anni si presentano puntuali ad ogni calata nel Bel Paese degli Iron Maiden, band di punta nel cartellone della giornata del Rock In Idro dedicata al rock più pesante e che ha visto alternarsi sul palco dell’Arena Joe Strummer nomi musicalmente abbastanza eterogenei e variegati. Sarebbe dovuta trattarsi della terza giornata del festival bolognese, ma dopo aver annullato la prima a causa di violenti temporali ed una non straripante affluenza nella seconda, si è trattato sicuramente del giorno migliore di questa edizione. Alter Bridge, Opeth e Black Stone Cherry sono state alcune delle band che hanno accompagnato l’inossidabile Vergine Di Ferro, che nonostante il passare del tempo e la recente performance al Sonisphere, risalente a quasi un anno fa esatto, é riuscita ancora una volta a radunare un pubblico da grandi occasioni, dando vita ad un evento memorabile, anche se non privo di alcune piccole pecche. Ma procediamo con ordine…
SKILLET
Ci perdiamo per problemi di traffico il concerto dei Pavic, band capitolina vincitrice del contest indetto da Rock In Idro per aprire la giornata, e arriviamo precisi per l’inizio degli Skillet, prima band internazionale della scaletta. Formatisi a metà anni ’90, i Nostri hanno mosso i primi passi nel fertile circuito alternative/nu-metal americano di una ventina di anni fa, rendendo più moderno ed accattivante il suono col passare degli anni, raggiungendo però solo in alcune occasioni risultati convincenti. La loro setlist è alquanto breve, concentrata naturalmente su quei cavalli di battaglia che hanno donato una certa popolarità alla band oltreoceano, incentrati su strofe amanti dello stop’n’go, ritmi sincopati e ritornelli estremamente orecchiabili. La resa acustica viene migliorata man mano che il tempo passa e “Monster”, hit assoluta degli Skillet, riesce persino a smuovere un po’ il pubblico che comincia ad assestarsi sotto al palco, prima che i ragazzi salutino i presenti e giungano rapidamente alla conclusione.
HAWK EYES
È la prima volta che questo quartetto inglese suona nel nostro Paese e farlo nella cornice odierna ha sicuramente creato qualche criticità all’interno della band: forti sulla carta di uno stoner rock dal piglio festaiolo e coinvolgente, qualcosa sul palco non va invece esattamente per il verso giusto, risolvendosi in un esordio poco definito e un po’ confusionario. Una parte centrale del problema è rappresentata sicuramente dal suono in fuoriuscita dall’impianto, eccessivamente impastato e poco definito nel volume delle chitarre e della voce, ma anche la band ci mette del suo, con una prestazione un po’ in affanno. Siamo nelle ore più calde della giornata e, forse un po’ affaticati, anche i presenti sembrano poco presi dalle note degli Hawk Eyes, che nonostante le incitazioni del frontman a ballare, scatenarsi e quant’altro, accolgono tiepidamente gli inviti ricevuti. I momenti migliori sono quelli in cui la vena rock’n’roll esce fuori spavalda, peggio invece nelle derive noise più spigolose, dove si fatica a seguire il filo del discorso, e su cui anche le linee vocali sembrano a volte figlie più del caso che della pianificazione. La sezione ritmica gode sicuramente di una posizione privilegiata visto il peso che assume nell’economia un po’ squilibrata della prestazione odierna, con un’ottima resa sonora soprattutto del basso e della cassa di batteria, ma nel complesso risulta una consolazione piuttosto misera rispetto ad un risultato complessivo discutibile.
EXTREMA
Arriva quindi il turno degli Extrema che, dopo le ultime burrascose vicissitudini in seno alla line-up, tornano oggi a calcare dopo parecchio tempo un palco di questo calibro. Come orgogliosamente sottolineato dalla voce di GL Perotti, si tratta dell’unica band italiana presente nel bill della giornata, nonché, aggiungeremmo noi, la proposta artistica più pesante tra tutte quelle che ci attendono, e i milanesi ce la mettono tutta per non essere da meno rispetto ai colleghi stranieri e risultare impattanti su di un pubblico in continuo aumento col passare delle ore. Dalla loro hanno il supporto che nel corso della carriera sono riusciti a crearsi sul suolo italiano, cosa, questa, che porta una porzione dell’audience a rispondere con entusiasmo alle canzoni e ai richiami del frontman, nonché un carniere longevo e nutrito di canzoni dal quale poter attingere per fare bella figura. Nel concreto, avremmo preferito una scaletta meno ruffiana e ‘mainstream-oriented’, incentrata invece sugli episodi più tirati ed estremi legati al passato remoto della band, ma del resto l’ultimo “The Seed Of Foolishness”, uscito circa un anno fa, è ancora materia calda per gli Extrema, che basano quindi la loro esibizione sul versante groove, con una maggioranza di pezzi cadenzati e pochi sbalzi in avanti. La novità più rilevante è rappresentata dal nuovo entrato dietro le pelli Francesco La Rosa, che, provenendo da un background ben più estremo di quello di adesso, aggiunge un pizzico di grinta in più ai pezzi, non sfigurando affatto rispetto all’ ex-drummer Paolo Crimi, membro della band per ben dieci anni. Gli Extrema 2014 suonano bene, l’esperienza accumulata in tutti questi anni salva in ogni caso la reputazione dei lombardi, ma abbiamo percepito poco affiatamento tra le parti, nonché, come detto, una scelta di setlist troppo ‘morbida’ ed indulgente.
BLACK STONE CHERRY
La temperatura si alza parecchio all’Arena Joe Strummer, quasi a facilitare la vita ai quattro “redneck” americani, attivi ormai da diversi anni ed etichettati più volte come ‘next big thing’ del panorama musicale a stelle e strisce. Una posizione intermedia in scaletta, inoltre, aumenta le aspettative e comincia ad inserirci nel vivo della serata, grazie ad una prestazione intensa e certo non avara di emozioni e sudore da parte di musicisti e pubblico. La formula ideale alla quale i Black Stone Cherry fanno più volte riferimento è un misto di blues sporcato di southern rock e ritornelli anthemici, immancabili per ogni gruppo made in U.S.A. che si rispetti, finendo quindi per rientrare abbastanza canonicamente nella pletora di realtà americane legate a questo filone. A fare la differenza, però, é proprio il modo in cui vengono suonati i pezzi, nonché l’assoluta naturalezza con cui si raggiunge, nel corso del concerto, momenti più pesanti mostrati negli esordi e sperimentati nuovamente nell’ultima uscita discografica, “Magic Mountain”. Il valore aggiunto della band ha un nome preciso, che corrisponde a John Fred Young, non solo batterista ma vero e proprio motore trainante della compagine del Kentucky: il suo drumming, direttamente ispirato alla vecchia scuola Led Zeppelin/Black Sabbath, è dinamico e terremotante, eccessivo ed ostinato nelle parti più pestone, quanto indiscreto e rispettoso nel lasciare agio, quando necessario, ai riusciti fill chitarristici ad opera della coppia Chris Robertson/Ben Wells, che non si risparmia nemmeno un minuto tra corse a bordo palco e movenze da rockstar, catturando facilmente l’attenzione del pubblico. La nuova “Me And Mary Jane”, così come le più datate “In My Blood”, “Blind Man” e “Lonely Train”, senza considerare il singolo più noto “White Trash Millionaire”, ci mostrano tutte le sfaccettature di cui è dotata la band, dal lato più ruvido a quello radiofonico, ma soprattutto ci mostrano quattro ragazzi divertiti e divertenti, avvezzi ormai ad una popolarità considerevole ma non annoiati, ed anzi entusiasti nel portare live le canzoni dei loro album, semplici ma efficaci come loro.
OPETH
Fin dal rapido soundcheck durante il cambio palco, l’atmosfera vintage che contraddistingue l’ultima svolta degli Opeth pervade l’aria del festival, che si prepara così alla band più umorale e cangiante dell’intero set. Mentre in rete aumentano i rumors circa i primi estratti dal nuovo album di imminente uscita, Akerfeldt e compagni costruiscono una scaletta basata, come al solito, su pochi pezzi, focalizzati per l’occasione sul periodo centrale di una carriera ormai solida e ultraventennale, prediligendo, per l’occasione, la calma alla tempesta, entrambe facce inestricabili della stessa medaglia. Largo spazio, infatti, viene lasciato ai momenti soffusi ed algidi che molte delle canzoni messe in setlist possiedono al proprio interno, per un risultato piuttosto straniante posto nel contesto in cui ci troviamo oggi. Sia visivamente che musicalmente, grande importanza viene affidata alle tastiere e all’Hammond di Joakim Svalberg, vero virtuoso dello strumento facente parte della corte di sir Yngwie Malmsteen prima di entrare nel combo svedese, che mostra tutta la sua bravura specialmente sulle tracce più recenti del passato Opethiano, corrispondenti a “Heir Apparent” e “The Devil’s Orchard”, vera e propria micro-suite contenente tutte le caratteristiche del moderno pensiero degli Opeth, dalle atmosfere horror-movie al riffing smaccatamente ‘70s prog. E’ in questi frangenti che il cantante svedese mostra decisamente il suo versante migliore, fatto di sussurri, metriche imprevedibili e vocalizzi in voce pulita. Il periodo death-doom degli inizi riaffiora prepotentemente in primo piano quando vengono eseguite sul finale “Demon Of The Fall” e “Blackwater Park”, brano che da solo meriterebbe l’ascolto della band on stage: nonostante la bontà della musica, tocca notare un Akerfeldt un po’ spento sul cantato estremo che tanta fama gli aveva donato in passato. Oltre che affaticato, abbiamo trovato il vocalist piuttosto sferzante nei suoi brevi commenti tra le canzoni, manifestando forse un pelo di nervosismo che non é andato però a danneggiare la resa tecnica ed esecutiva della band tutta, su cui si é stagliata la prova precisissima del batterista Martin Axenrot e il buon lavoro alla prima chitarra di Fredrik Akesson, accompagnati dall’apporto indispensabile dell’immancabile Martin Mendez alle quattro corde. Abituati da sempre ad evolvere il proprio sound, gli Opeth si ritrovano paradossalmente oggi a dover eseguire alcune canzoni del loro repertorio che non rientrano esattamente nelle coordinate attuali, ma questo non può certo scalfire l’eleganza e la rabbia raffinata che la musica del quintetto di Stoccolma ha veicolato e continua a veicolare ancora oggi. Tanta classe a scapito di una bella dose di violenza.
ALTER BRIDGE
Il Sole è ormai calato vistosamente quando gli Alter Bridge calcano il palco, condizione che li ‘condizionerà’ quasi interamente per il loro show, svoltosi all’ora del tramonto: dettaglio, questo, che aggiunge una buona dose di suggestione alle canzoni degli americani, soprattutto sui numerosi ritornelli easy-listening che costellano la setlist. Si parte comunque in quarta con un estratto da “Fortress”, corrispondente ad “Addicted To Pain”, cui spetta il compito di gasare e smuovere dalla staticità degli Opeth il pubblico del Rock In Idro. Come tema ricorrente, tocca segnalare una fruizione mai davvero goduriosa a causa di evidenti problemi all’impianto, che oltre a mantenere volumi troppo bassi per le dimensioni della venue, impedisce di cogliere con chiarezza tutti i passaggi chitarristici ad opera di Mark Tremonti e Myles Kennedy, di cui viene messa in assoluto primo piano la voce per quasi tutto il concerto. Il cantante è effettivamente dotato di una pulizia e una dinamicità davvero sorprendenti, talmente impeccabili da far dubitare talvolta di un possibile aiutino pre-registrato mandato nelle casse, ma non sarebbe dispiaciuta in ogni caso una presenza più corposa di entrambi gli strumenti a corde. Si continua comunque forte con “White Knuckles” e la post-grunge “Find The Real”, estratta dall’esordio della band, brani con cui i musicisti prendono progressivamente confidenza con una platea in rapido surriscaldamento. Kennedy dimostra un savoir-faire da frontman di prima classe, parlando col pubblico, scherzando e supplendo in parte alle carenze in merito di Tremonti e del bassista Brian Marshall, concentrati sui propri strumenti e poco reattivi con l’esterno. Della propria discografia si sceglie di proporre diversi estratti dall’ultimo “Fortress”, come “Farther Than The Sun” e la più complessa “Cry Of Achilles”, e dal fortunato “Blackbird”, album della svolta per gli Alter Bridge, da cui vengono suonate tra l’altro “Come To Life”, “Ties That Bind” e l’omonima titletrack. La situazione migliora col passare del tempo ed i suoni raggiungono livelli accettabili giusto in tempo per le semi-ballad del gruppo, che tanto da vicino ricordano i vecchi Creed di cui gli Alter Bridge oggi incarnano ben tre quarti di formazione. “Fortress” riscuote successo tra gli ascoltatori per la sua unione agro-dolce di emozione e potenza, così come la successiva “Ghost Of Days Gone By”; mentre c’è ancora spazio per il metal con la datata “Metalingust”, particolarmente apprezzata dai fan di vecchia data del gruppo. “Rise Today” in ogni caso spicca su tutte, baciata peraltro da una prestazione solista di Myles Kennedy che non sfigura affatto rispetto alle doti chitarristiche ben più conosciute di Tremonti, prima che con “Isolation” si chiudano definitivamente le danze. La proposta degli Alter Bridge, dopo il sound ostico di chi li ha preceduti sul palco, risulta allo stesso tempo liberatoria e dall’ascolto non impegnativo, cosa questa particolarmente gradita ai presenti, in larga parte fedelmente accorsi per l’evento-Maiden e poco avvezzi alle sonorità più opprimenti del metal.
IRON MAIDEN
Appena terminata la prestazione degli americani, iniziano febbrilmente i lavori di costruzione della complicata scenografia degli Iron Maiden, tenuta misteriosamente in segreto durante tutti i preparativi e svelata solamente pochi momenti prima dell’inizio del grande show. Dopo una piacevole ma calda giornata, le migliaia di fan accorsi da tutta Italia iniziano ad inneggiare ai loro beniamini, rendendo tangibile, quasi palpabile, l’emozione per il momento tanto atteso. La notte è calata quasi definitivamente, solamente le luci del palco ormai illuminano un’arena riempita in tutti i suoi spazi, quando finalmente termina la musica in sottofondo e sulle note di “Doctor Doctor” degli UFO si apre il sipario su quello che per molti sarà senza dubbio il concerto dell’anno. Maiden England 2014 è la seconda parte dell’omonimo tour che l’anno scorso aveva toccato il nostro Paese in occasione della data italiana del Sonisphere e prevede la proposizione da parte della band di sole canzoni appartenenti agli anni ’80 e contenute appunto nel mitico video “Maiden England”, filmato in U.K. nel 1988 a supporto del Seventh Tour Of A Seventh Tour. Un ottimo pretesto, insomma, per poter rivivere sulla propria pelle le emozioni che solo i grandi successi dei Maiden trasmettono da decenni a tutti i loro ammiratori. Proprio come all’epoca, anche oggi la location del concerto sembra scavata nei freddi ghiacci dell’Antartide, a riprendere lo sfondo dell’artwork di “Seventh Son…” e a sottolineare nuovamente, se ce ne fosse bisogno, la britannica attenzione e cura dei dettagli che ha contribuito a rendere il gruppo una vera e propria icona nella storia del rock. “Moonchild” per una buona metà della sua durata è quasi inudibile a causa del fragore con cui vengono accolti i sei inglesi, che iniziano senza freni una performance energica e dinamica, particolarmente notevole se si considera la loro età e una carriera non più certo nel pieno degli anni. Segue a ruota “Can I Play With Madness” a cui fa coda “The Prisoner”, tratta dall’indimenticabile “The Number Of The Beast”, tutte cantate a squarciagola dai presenti, tutte eseguite con assoluta perizia dai musicisti sul palco. “2 Minutes To Midnight”, “The Trooper” e “Run To The Hills” sono gemme che, pur risplendendo nuovamente ogni volta che vengono suonate, non possono mancare in ogni live degli Iron Maiden, mentre desta più curiosità la presenza di brani non sempre in scaletta, come ad esempio “Revelations” o la proposizione integrale di “Seventh Son Of A Seventh Son”, quasi dieci minuti di canzone che tengono letteralmente col fiato sospeso, specialmente sulla misteriosa parte centrale. Anche “Phantom Of The Opera” risulta particolarmente cara ad un’audience completamente estasiata, che rimane immobile in ammirazione più volte, piuttosto che scatenare scompiglio tra le prime e le seconde file e che continua a godersi da vicino i continui cambi di sfondi, statue e abiti di Dickinson, un autentico fulmine nel passare in un momento da un look ad un altro, da una parte del palco a quella opposta. Il trio di chitarre Murray/Smith/Gers incalza in un susseguirsi di riff, fraseggi ed armonizzazioni, senza mai dimenticare il lato scenico più vistoso e spettacolare, mentre il basso di Steve Harris segna imperterrito il tempo delle canzoni con fare sicuro e potente. “Wasted Years” e “Wrathchild” fanno ancora faville a distanza di varie decadi dalla loro composizione, così come il finale affidato alla primordiale “Iron Maiden”, vero e proprio inno generazionale per tutti coloro che vedono nella Vergine di Ferro il simbolo di un’epoca, e non solo una band musicale. Discorso a parte per “Fear Of The Dark”, presente in scaletta nonostante non appartenente al decennio delle altre: è davvero indescrivibile la reazione che le note in apertura provocano ogni volta nel cuore di migliaia di persone, persone che hanno cantato fino all’ultima nota ogni melodia di questo pezzo. Una breve pausa prima dell’immancabile encore, dove vengono proposte in rapida successione “Aces High”, “The Evil That Man Do” e, a sorpresa, un’inattesa “Sanctuary” a chiudere del tutto l’ennesima vittoria a mani basse, l’ennesimo successo indiscutibile dei sei di Londra: Bruce ha dichiarato che non sa quando la Vergine tornerà nuovamente a trovare il suo pubblico italiano, motivo in più per fare tesoro dell’evento di stasera, per conservare gelosamente il ricordo di una nuova dimostrazione di forza da parte della band metal per eccellenza.
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In occasione della data al Rock In Idro, Mondadori ha presentato The Beast Collection, la nuova raccolta dedicata agli IRON MAIDEN. Dal 30 maggio in edicola con Panorama e TV Sorrisi e Canzoni. Info e dettagli a questo indirizzo.