A cura di Davide Romagnoli
Si è sempre molto critici sui festival neonati in ambito europeo, soprattutto se questi presentano le caratteristiche strutturali simili ai già ben più noti compagni dai nomi ormai più ampiamente conosciuti. Il Rock In Vienna giunge qui al secondo anno di vita, dopo essersi presentato l’anno scorso al pubblico europeo con una line-up sicuramente più che degna rispetto agli altri festival hard rock estivi (Pinkpop, Rock Werchter, Nova Rock, Sonisphere, Download) e sembra che ormai la strada sia spianata per questo nuova manifestazione locata su un isola del Danubio (proprio come il compagno ungherese Sziget), avendo infatti già confermato l’edizione 2017. La strategia del doppio palco per evitare i momenti vuoti sembra cosa ormai assodata in ambiti come questo, soprattutto in terra inglese: due palchi di dimensioni notevoli in cui si succedono consecutivamente gli act ritenuti principali. Un piccolo palco è invece relegato ad un’altra sezione del festival, penalizzato dunque dallo stagnamento promosso dalla vicinanza degli altri due stage e dalla principale zona ristoro, anch’essa collocata nei pressi dell’area principale. Come accade molto spesso in situazioni come questa, non si può che fare riferimento ancora una volta a parametri che ormai sono stati assodati in altre situazioni: prezzi, location, sound, e così via. In questi parametri il Rock In Vienna soffre ancora inesorabilmente la concorrenza. Se sui prezzi ormai ci si è abituati a cifre piuttosto alte, non si può dire lo stesso per le altre situazioni. I suoni sono deboli, molto spesso non all’altezza della situazione, penalizzando incredibilmente molti dei big che vengono presentati nella line-up, soprattutto nelle ore pomeridiane. Oltretutto, come accade durante la prima serata, quella di venerdì, ci si ritrova con circa 25000 persone (a quanto viene comunicato dalle band on stage) infossate nell’area principale dal pomeriggio per i Rammstein, senza qualcosa che potesse smuoverle per un riflusso, risultando cosa quantomeno frustrante. La location sull’isola artificiale costruita nel mezzo di Vienna sembra invece dare dei buoni frutti per raggiungibilità e colpo d’occhio. La città, inoltre, è ben nota per la sua vivibilità e così anche l’area festival rispecchia queste prerogative. Il Rock In Vienna è insomma un festival che sta crescendo e che vuole crescere: da qui ecco spiegati i numerosi sondaggi che vengono fatti dallo staff durante l’evento, sintomo sicuramente più che positivo ma ancora non effettivamente valido per promuoverlo completamente a livello dei compari più rodati. Presentiamo qui alcuni dei nomi principali partecipanti a questa edizione.
ANTHRAX
In occasione dello show dei newyorkesi, è già presente una numerosa folla di partecipanti fin dalle prime canzoni. Poco male, infatti, perché fra queste troviamo un quartetto di tracce che han fatto la storia del genere e della band: “Among The Living”, “Caught In A Mosh”, “Got The Time” e “Madhouse”. Difficile, come vedremo poi per il discorso Slayer, poter dire qualcosa sugli Anthrax senza tener conto di quanto essi siano impressi nella mente e nel cuore degli aficionado più puri e nelle antologie musicali. E tutto sommato, in questa occasione, il gruppo di Belladonna (anche se naturalmente, sofferente questioni di ugola, non più al passo con la situazione) non sfigura per niente, sempre considerando il contesto in cui la loro musica e i loro spettacoli si inseriscono oggi e sempre tenendo in mente cosa gli Anthrax sono riusciti a dire al passato dell’heavy metal. Ed ecco allora che anche i brani del buon “For All Kings” presentati in questa occasione, “Evil Twin” e “Breathing Lightning”, fanno la loro figura, pur essendo lontani dalla loro riuscita in studio. Uno show senza infamia e senza lodi, che riesce a far applaudire per quanto oggi si può fare a band con più di trent’anni di musica alle spalle, dove, inevitabilmente, il passato conta ancora più del presente.
SLAYER
Uno dei nomi essenziali dell’abbigliamento dei partecipanti al festival presenta la fedeltà al verbo del thrash californiano, e in questo non si può che fare affidamento su mister Tom Araya e soci, ormai ancorati ad una dimensione imprescindibile per ogni metallaro che si rispetti (i presenti all’happening austriaco risultano indubbiamente esemplificativi). Non particolarmente in forma, però, il vecchio Tom non riesce ad esaltare come dovrebbe, complice forse una resa vocale ormai obbligata su qualche mezzo urlo e nessuna linea vocale che riesca, anche in mancanza di suoni precisi, a differenziare una parte dall’altra, nemmeno in pezzi con una linea più fluttuante come “Dead Skin Mask”, la love-song slayeriana, come sono soliti definirla loro stessi, che appare monotonica e del tutto dimentica di quell’aura che l’aveva contraddistinta in “Seasons In The Abyss” e anche in alcune esibizioni più recenti. Certamente la setlist è di quelle su cui non si può dire nulla di male, presentando inevitabilmente i capisaldi imprescindibili della discografia slayeriana e qualcosa di nuovo che è già impostato come canone, come i singoli “Repentless” e “You Against You”. Ma si sa, poco importano esibizione contingente e tutto il resto quando si parla di gruppi come questo. Gli Slayer sono un nome impresso nella memoria collettiva e poco o nulla riuscirà a scalfire questo status. Né le performance un po’ scialbe, né la poca voce di Araya, né lo snobismo presentato nei confronti dei giochi di fuoco e ‘cazzate’ varie che gli sarebbero successi da li a poco con i Rammstein. Gli Slayer sono questi. E va forse bene cosi.
RAMMSTEIN
Una bolgia infinita di gente è accalcata da ore ormai per lo show dei piromani tedeschi, e la tensione si taglia con il coltello quando sta per iniziare il primo pezzo e i suoi fuochi d’artificio di presentazione, quello presentato in anteprima come nuova hit in questo tour: “Ramm 4”. Nel brano sono presenti i riferimenti testuali a tutti i nomi dei pezzi della discografia rammsteiniana e al riff industrial metal par excellence (memore di un certo Manson): sembra ancora una volta che si sia fatto centro e tutto sommato – anche se siamo sempre stati abituati al top dell’ostentazione visiva – risulta anche particolarmente azzeccato il tip tap introduttivo di Lindemann e il consecutivo lancio di bombetta-bomba. Vivendo in una situazione di totale condivisione di video, scalette e immagini, oltre che di numerose esibizioni uscite in clip e dvd, ed essendo questo ormai uno degli ormai numerosi tour europei in cui si è potuto assaporare la magnificenza sonora e performativa rammsteiniana, non si può che notare che ben poco appare di completamente innovativo rispetto, per esempio, a quanto presentato nei due precedenti tour. La colata di lava sul tastierista, l’arco infuocato di “Du Hast”, i vapori di “Keine Lust”, i fuochi d’artificio a sincrono di “Ich Tu Dir Veh” sono tutte cose riesumate e c’è un po’ la sensazione di semplice riproposizione e di poca innovazione. Naturalmente è sempre un piacere e un grande divertimento per occhi e orecchie assaporare tanta eloquenza espressiva e fa anche piacere sentirsi qualche chicca dei vecchi album come “Hallelujah”, “Zerstören” e “Stripped” dei Depeche Mode, ma dai nostri beneamati big si chiede sempre qualcosa di ancora più eclatante e sempre più incendiario. I suoni, poi, non sono sicuramente all’altezza della situazione e della quantità di persone presenti, riducendo molto spesso il volume al di sotto del cantato della gente. Oltretutto, a discapito di quanto si possa leggere online, soprattutto durante il problematico encore, il pubblico viennese è quantomai carico e rumoroso, con alcuni muniti di bomboletta spray e zippo che simulavano giochi pirotecnici anche in mezzo alla gente. Tutto scorre infatti gagliardo come al solito fino all’encore, però, dove Till ha problemi al microfono e la voce smette di esserci fino ai due pezzi successivi. “Ohne Dich” acustica è infatti preda di sguardi sperduti della band che non sa come comportarsi e di un pubblico che non capisce bene se è tutto fatto apposta o ci sia effettivamente qualche problema, e naturalmente è chiaro come, pur essendo di lingua tedesca, non si sia cantato come ci si sarebbe potuto aspettare. Con così tanta professionalità e meticolosità nelle sincronie di effetti e performance, si è quindi sentito un grande senso di spaesamento nel pubblico quando invece le chitarre acustiche e i membri della band non riuscivano bene a capacitarsi della situazione. Mezzo insuccesso sventato in qualche modo, il concerto si conclude con “Engel”, anche se, a questo punto, Till non se la sente di sfoderare le grandi ali infuocate che hanno sempre contraddistinto la perfomance del brano e il concerto si chiude, per alcuni più avvezzi alle loro esibizioni, con l’amaro in bocca. Per coloro che invece sono riusciti a mantenere il grande entusiasmo, ancora una volta i Rammstein hanno incendiato i cuori e in questo senso mantengono sempre uno status di incredibile potenza e spettacolo.
Setlist:
Ramm 4
Reise, Reise
Hallelujah
Zerstören
Keine Lust
Feuer Frei!
Seemann
Ich Tu Dir Weh
Du Riechst So Gut
Mein Herz Brennt
Links 2-3-4
Ich Will
Du Hast
Stripped
Sonne
Ohne Dich
Engel
GRAVEYARD
Di band come i Graveyard ce ne sono sicuramente ben poche in giro, nonostante il panorama musicale in cui si si ritrovano coinvolti sia assolutamente saturo di partecipanti. Penalizzati incredibilmente da volumi pomeridiani da balera di paese di periferia, gli svedesi riescono però ad offrire il loro tocco delicato e le loro dinamiche soffuse e psichedeliche, riuscendo a convogliare l’attenzione dei pochi partecipanti alla loro esibizione nel main stage intorno alle tre di pomeriggio. Sicuramente non la situazione adatta per poter assaporare brani come “Slowmotion Countdown” o la floydiana “Uncomfortably Numb”, con quel suo saliscendi fluttuante che riesce ad affascinare coloro che riescono a percepirne le sfaccettature e la comunque ottima performance. Sempre funzionanti in ogni situazione, invece, brani come “Hisingen Blues”, più sporchi e tirati, capaci di esaltare anche i sassi. Promossi in toto, ancora una volta.
JULIETTE AND THE LICKS
Anche se fisicamente la sempre affascinante Juliette Lewis sembra riscuotere successo, poco si può dire del suo aver riesumato il nome Juliette & The Licks. Anche questa volta, complice un sound sempre molto basso per l’occasione, non si può notare che lo spirito punk becero e sbarazzino, grondante sex appeal e sudore ormonale, così come la voce della sua frontwoman, è cosa ormai lasciata alle spalle e il sentore che rimane è ancora una volta quello di un qualcosa dissepolto giusto per farsi su ancora due lire. Poco vero rock’n’roll, e tutto solo di facciata.
BIFFY CLYRO
Concerto ineccepibile ancora una volta per i Biffy Clyro, ormai uno dei gruppi rock sicuramente più interessanti e innovativi degli ultimi dieci anni. Performance sempre all’altezza e album sempre inevitabilmente riusciti, contando ovviamente i due capisaldi “Puzzle” e “Only Revolutions”, riescono garantire solidità al trio scozzese che, con l’innesto per il tour di due altri elementi (Mike Vennart e Richard Ingram dei British Theatre), presenta in anteprima tre dei pezzi del nuovo “Ellipsis”, che uscirà il mese prossimo. Forse i brani meno interessanti proposti, a dire la verità, ma anche perché inseriti di fianco ai ben più rodati pezzi dei precedenti tre dischi. Nulla è presente, in effetti, dei primi altrettanto intriganti lavori, più ossuti, scarni e furibondi, che avevano deliziato il palato dei più affini al concetto di musica funambolica e sperimentale, ma sempre con un piglio hard rock/progressive da fare invidia a band come i Rush, che ancora oggi rimangono uno dei gruppi di riferimento degli scozzesi, anche se associati molto più spesso a situazioni più mainstream, Foo Fighters tra tutti. Non ancora giganteschi come nel Regno Unito, i Biffy Clyro regalano sferzate distorte e partiture sghembe, correlate dei migliori chorus da classifica e da concerto, senza risultare banali, né troppo ostici né smaccatamente commerciali, ottenendo un grande riscontro tra coloro che già li conoscevano e anche tra coloro che invece hanno imparato a conoscerli per la prima volta.
IGGY POP
Veramente un peccato sapere che né Helders, né Fertita, né Homme saranno presenti ad accompagnare sul palco il caro e vecchio Iggy, soprattutto nel tour che porta le loro sonorità per la prima volta insieme. “Post Pop Depression” è invece presentato live nel corso del tour europeo con un’altra formazione, nominata semplicemente Iggy Solo. Poco male però, quando si parte a rotta di collo con due pezzi degli Stooges come “No Fun” e “I Wanna Be Your Dog”, e ancora meglio quando si continua dritti come treni con “The Passenger” e “Lust For Life”. Un quartetto di questo calibro ricorda a tutti come mai il caro e vecchio Iggy si ritrova ancora a petto nudo come headliner ad un festival che presenta nomi così altisonanti. Le coordinate per un grande show vengono tutte fuori pian piano, così come ci si poteva aspettare dal lucertolone che aveva iniziato la carriera a fine anni Sessanta (“The Stooges” è del 1969 e il primo album solista “The Idiot” del 1977) e che ancora si presenta come una delle più grandi icone del rock’n’roll mondiale, capace veramente di trasmettere la fede al Verbo del Rock’N’Roll e del punk più vero ed onesto per così tanti anni. E fortunatamente anche con il nuovo corso di carriera mantiene questo status. Forse è proprio per la mancanza delle guest star di “Post Pop Depression” che i brani del nuovo ottimo disco sono presentati solo in piccola parte e solo sul finale: “Gardenia”, “Break Into Your Heart”, “Sunday” e “Paraguay” (forse il brano più riuscito in sede live fra quelli di “Post Pop Depression”) risultano infatti sicuramente più cadenzati, soffusi e più moderni rispetto a quelli più ruvidi che hanno contraddistinto la carriera con gli Stooges e più vincolati alle derive desertiche di Homme e dei suoi Queens Of The Stone Age, anche se comunque affini alle varie canzoni soliste come le sempre affascinanti “Nightclubbing” o “Sister Midnight”, e sicuramente interessanti da sentire in una setlist di tutto rispetto come quella di questa sera. Che dire in più? Iggy Pop è sempre una sicurezza e anche se la serata di sabato è stata quella con meno affluenza, sicuramente questo è stato uno degli act più intriganti del weekend.
Setlist:
No Fun
I Wanna Be Your Dog
The Passenger
Lust for Life
Skull Ring
Sixteen
Five Foot One
1969
Sister Midnight
Real Wild Child (Wild One)
Nightclubbing
Some Weird Sin
Mass Production
Search and Destroy
Down on the Street
Sunday
Break Into Your Heart
Gardenia
Neighborhood Threat
Paraguay
THE VINTAGE CARAVAN
Circa un decennio è trascorso per la band islandese capitanata da Logi Ágústsson e oggi, dopo averli visti e sentiti numerose volte, si può dire che il trio del Caravan zeppeliniano è sempre assolutamente convincente. Discorso solito per i volumi pomeridiani, che necessitano di un’attenzione auricolare non indifferente per assaporare le tessiture vintage e psichedeliche del trio. Con la loro usuale mistura di Cream, Zeppelin e revival stoner rock, i ragazzi continuano a trasmettere la giusta dose di energia e groove a brani ormai sempre presenti in scaletta come “Let Me Be”, “Cocaine Sally” e “Midnight Meditation”, tratti dal gagliardo “Voyage” del 2012, disco da riscoprire e rigodere, affiancato dall’altrettanto intrigante “Arrival” di cui riusciamo ad assaporare brani come la fascinosa desert song “Carousel”. Band da tenere presente in ogni line-up di festival e da godersi in uno show apposito in ogni situazione.
ZAKK WYLDE
Grande è l’attesa per la messa in scena del discorso semi-acustico di “Book Of Shadows”, che presenta il lato più intimo del black label hero e grande omaggio nei confronti del pubblico alla sua figura. La situazione è però quantomeno poco affascinante e intimistica, essendo pomeriggio di un Sole bruciante ed essendo in realtà una situazione in cui di acustico c’è ben poco. Appare subito chiaro come questo tour non sia che una proposta dei Black Label Society un po’ più ammorbidita del solito, ma assolutamente monca dello spirito più folk e blues che ha contraddistinto l’assoluta bellezza del primo “Book Of Shadows” e ha convinto anche nel secondo lavoro più recente. Il buon Zakk stupisce sempre per cuore e velocità ma sembra che, forse per le contingenze della giornata e del festival in generale, poco dello spirito intimista e fragile delle composizioni presentate sia riuscito a venire fuori, nascosto in ancora troppe distorsioni e suoni troppo vincolanti per una riuscita significativa, sicuramente troppo vicini ad un sound più adatto al suo gruppo principale che a questa offerta. Molti rimangono con l’amaro in bocca pur apprezzando le solite digressioni quasi infinite di chitarra solista, che però uccidono il mood delle canzoni e tolgono tempo a quello che avrebbe potuto essere speso riprendendo brani-chiave del primo lavoro, come “Throwing All Away” o “Way Beyond Empty”, ad esempio, presenti nella scaletta del tour.
IRON MAIDEN
Il popolo maideniano è uno di quei pubblici ormai inossidabili come l’acciaio più puro. E probabilmente è questo il grande senso di una band che ha saputo regalare grande spirito alla musica rock tout-court e che ancora oggi riesce comunque a regalare emozioni a nuovi e vecchi adepti al verbo di Eddie. Inizialmente spaventati dalle condizioni sonore (sia dei volumi sia dell’ugola di Dickinson, che non brilla certo di uno dei suoi momenti migliori), soprattutto quelle di “If Eternity Should Fail” e “Speed Of Light”, pian piano veniamo ammaliati dalle suadenti note di “Children Of The Damned” che risollevano il clima e i ricordi del passato. La scaletta è la medesima, come ci si aspettava, di quella presentata nelle altre date del Book Of Souls Tour e già a lungo si è discusso sulle mancanze, per alcuni inappellabili, di questa, però è innegabile come si dimostri un carattere ancora significativo della band nei confronti del loro lavoro e della loro musica. Se brani come “Tears Of A Clown” appaiono sicuramente evitabili, risultando ridondanti e pleonastici, privi di alcunchè di particolarmente interessante soprattutto quando nell’ora e mezza di durata si hanno a disposizione dischi come “Seventh Son Of A Seventh Son”, completamente dimenticato di ogni traccia, è anche vero che i cori di “The Red And The Black”, la cavalcata di “Death Or Glory” e le scenette di “Book Of Souls” possono comunque rendere giustizia alla presenza di materiale nuovo in questa sede. Oltretutto significativa è la scelta dell’encore, in cui vengono presentate “Blood Brothers”, ormai un must assoluto per pathos e quanto basta a ricordare la grande fiammata di un disco splendido come “Brave New World”, e “Wasted Years”, sicuramente un pezzo importante ma che scade inevitabilmente se presentato come ultima canzone prima dei saluti e dei consueti lanci di polsini, bacchette e plettri. Una band di questo calibro, questa caratura e questo pubblico non può che continuare comunque a convincere per la padronanza dei propri mezzi e per uno spirito che supera ogni mancanza di età e tecnica e che risulta sempre incredibilmente vera e leggendaria, come la sua mascotte sulle magliette di adulti e ragazzini, nell’86 così come nel 2016.
Setlist:
If Eternity Should Fail
Speed of Light
Children of the Damned
Tears of a Clown
The Red and the Black
The Trooper
Powerslave
Death or Glory
The Book of Souls
Hallowed Be Thy Name
Fear of the Dark
Iron Maiden
The Number of the Beast
Blood Brothers
Wasted Years