Report di Andrea Intacchi, Dario Onofrio, Luca Pessina, Roberto Guerra, Sara Sostini, Simone Vavalà
Introduzione di Sara Sostini
Foto di Enrico Dal Boni, Simona Luchini
Avete presente quella sensazione di indefinita, dolceamara malinconia che di solito accompagna i faticosi risvegli dopo giornate dense? Ecco, noi ci siamo svegliati così, dopo tre giorni di festival: esausti, abbrustoliti dal sole ma con il sorriso stanco di chi è tornato a vivere la nostra musica preferita nella dimensione ideale, quella dei concerti dal vivo. La terza edizione del Rock The Castle, rimandata per due anni a causa della pandemia, è stata una delle grandi occasioni estive per testare nuovamente la dimensione dei concerti all’aperto con le cautele sanitarie non più così pesanti.
La location del Castello Scaligero di Villafranca di Verona è stata ancora una volta la cornice suggestiva per i tre giorni di un festival bollente – per proposte musicali e soprattutto temperature – non perfetto ma perfezionabile dal punto di vista organizzativo e logistico: se, oltre alla rinnovata presenza di acqua gratuita, il buon numero di bagni, una più agile gestione delle casse al bar sono state migliorie apprezzate, sicuramente qualche attenzione ulteriore per il pubblico, in futuro, siamo sicuri renderanno l’esperienza migliore per tutti. L’assenza di zone d’ombra e il sole cocente hanno reso difficile e sofferta la partecipazione ai concerti almeno fino al tardo pomeriggio, ed anche la possibilità di uscire e rientrare, unita ai prezzi proibitivi per cibo e bevande (nonostante la discreta varietà delle proposte), hanno creato qualche difficoltà ad una buona parte del pubblico. Sicuramente due anni critici come quelli appena passati, l’incremento dei costi delle materie prime e una situazione tutt’ora incerta anche nel futuro più prossimo devono aver pesato in alcune scelte organizzative, ma basterebbero un paio di accorgimenti in più (gli ombrelloni che erano presenti alla scorsa edizione o tensostrutture a lato dell’area concerti, oppure braccialetti per la libera circolazione, vista anche la presenza di zone d’ombra e di stand gastronomici decisamente più ‘popolari’ nelle immediate vicinanze del castello) per rendere il Rock The Castle una buona alternativa italiana ad altri open air europei di medie dimensioni e integrarla nel territorio circostante in un bel circolo virtuoso.
Eppure lo sappiamo: caldo e qualche difficoltà non sono in grado di fermare la dedizione con cui i metallari supportano la propria musica del cuore, ed infatti in molti si sono presentati sin dall’apertura per sostenere con calore (passateci il gioco di parole) le band sul palco, dimostrando ancora una volta quanto amore e dedizione facciano passare in secondo piano tutto il resto. Prima di lasciarvi al racconto di questi tre giorni intensi, volevamo ringraziare quanti tra voi si sono fermati al nostro stand: che sia stato per ricaricare il telefono e prendere della crema solare (servizi gratuiti che sono stati apprezzati e che riproporremo in futuro), partecipare ai meet & greet (le cui foto sono disponibili, insieme a quelle del pubblico, sulla nostra pagina Facebook) o fare due chiacchiere, è stato bellissimo ritrovarvi di persona!
VENERDÌ 24 GIUGNO
SADIST
Il Rock The Castle 2022 si apre ufficialmente con i Sadist, fuori da poco con il nuovo album “Firescorched”. A un fan di vecchia data, la posizione di opener della giornata potrebbe far storcere un po’ il naso, ma va forse considerato il contesto, non prettamente estremo, in cui oggi il gruppo si esibisce: la band ligure è evidentemente qui per suonare davanti a un pubblico che ha ancora poca familiarità con la sua proposta, per guadagnare nuovi fan e per testare le canzoni del nuovo e fortunato album anche su un palco di grandi dimensioni. Un frontman come Trevor, del resto, sa come interagire con la platea e come entrare in sintonia anche con coloro che conoscono poco o nulla di quel progressive death metal per cui da decenni la formazione è nota. Assistiamo così ad una (breve) performance che sa tanto di funzionale biglietto da visita, con la nuova “Accabadora” posta in apertura e con una manciata di nuovi e vecchi classici a seguire. Ai fan della cosiddetta prima ora resta ovviamente in mente la sempre splendida “Tribe”, ma possiamo affermare che anche una “One Thousand Memories”, con il suo inconfondibile incedere percussivo, sia ormai entrata di diritto fra le hit del gruppo. Davanti a questi venticinque/trenta minuti di concerto, segnaliamo infine il buon affiatamento tra i membri storici Tommy e Trevor e la rinnovata sezione ritmica: risultano infatti assenti sia Romain Goulon che Jeroen Paul Thesseling, batterista e bassista che hanno impreziosito le trame di “Firescorched”. Al momento non conosciamo l’identità dei loro (temporanei?) sostituti, ma di certo si tratta di musicisti più che preparati che ben si calano nel contesto, mantenendo l’impatto dello show sui consueti standard Sadist. (Luca Pessina)
GRAND MAGUS
Dopo l’esibizione dei Sadist cominciamo a spostarci verso territori di cupo heavy metal battagliero, in tema con quello che accadrà più tardi, grazie ai Grand Magus. Nonostante qualche problemino tecnico alla chitarra di JB, gli svedesi mettono subito le cose in chiaro aprendo con “I Am the North”, traccia conclusiva del bellissimo “Iron Will”, uscito ormai ben quattordici anni fa! E c’è proprio da dirlo: nonostante invecchino, i Grand Magus sono quel vino buono che ci si dimentica di aver comprato finché non lo si stappa per caso scoprendo che nel frattempo è diventato una delizia. Una scaletta come sempre dedicata ai dischi dal 2008 in poi: si prosegue con “Sword Of The Oceans” e “Ravens Guide Our Way”, con le quali i nostri ci augurano un buon Midsommar (dalle loro parti è momento di grandi ferie), per poi andare nei territori di “Triumph and Power” con la mitica “Steel Versus Steel”, cantata e ben conosciuta da un pubblico, dobbiamo dire, molto partecipe. Dall’ultimo “Wolf God” viene estratta solamente la conclusiva “Untamed” (peccato, ci sarebbe piaciuto sentire la superacchiappona “He Sent Them All To Hel” o una “Brother Of The Storm”), mentre da “Iron Will” vengono come sempre pescate due delle migliori tracce: la title-track e la canzone d’apertura “Like The Oar Strikes The Water”. La conclusione logica per questo concerto non può che essere “Hammer of The North”, che porta al Castello Scaligero quella giusta dose di nuvoloni che servirà a raffreddare il torrido sole durante l’esibizione dei Death SS. Come sempre, il trio composto da Fox, JB e Ludwig non sbaglia un colpo, confezionando un ottimo antipasto per i gruppi successivi. Peccato per i problemi tecnici e come al solito, per i fan di più vecchia data, non aver fatto neanche una “Kingslayer”, ma chissà se qualche coraggioso cercherà mai di portare questa band in un bel tour da headliner in Italia: secondo noi se lo meriterebbero davvero! (Dario Onofrio)
DEATH SS
Arriva l’Orrore, si infittiscono (più o meno) le ombre: la comparsa sul palco di Steve Sylvester e soci è infatti accompagnata da un cielo corrugato, cupo e nuvoloso – un unicum provvidenziale nei tre giorni, capace di dare sollievo al pubblico accaldato e donare una sfumatura leggermente più atmosferica al gruppo toscano. Perchè c’è poco da fare: i Death SS hanno un rapporto di simbiosi mutualistica con l’oscurità, ed esibirsi alle cinque del pomeriggio non è proprio l’orario migliore per un sabba a base di sangue, occultismo, riti blasfemi, erotismo rètro e demonologia. Eppure, accompagnati da un ‘amaro Averno’ come scenografia e giganteschi crocifissi microfonati, i padrini diell’horror metal italiano danno fondo, fin dall’iniziale “Zombie”, alle proprie nere energie per lordare il Castello Scaligero di miasmatici effluvi. La carica della combo “Cursed Mama” e “Horrible Eyes” (entrambe da “Black Mass”) fa presa sugli astanti e sulle nuvole sopra il palco, perchè si alza un vento tagliente (spirato direttamente dal Cocito) a spazzare via nebbie e fiacchi fuochi d’artificio, lasciando che sia la potenza ipnotica e cadenzata dei pezzi a stregare davvero. Con “Baphomet” ed il proprio iconico ritornello la band ingrana ulteriormente, mostrando il duo Steve Sylvester-Freddy Delirio in forma, se non smagliante, quantomeno invidiabile. Sicuramente l’orario pomeridiano pesa nella resa di un concerto/spettacolo pensato per l’alcova accogliente della notte, ed anche la consueta comparsa di due performer – la cui nudità pressochè integrale e le pose apertamente lubriche fanno momentaneamente allontanare qualche genitore con figli piccoli al seguito e uggiolare la restante parte del pubblico – perde molto di quella carica erotica e voluttuosa che vorrebbe invece incarnare soprattutto “Zora”, unico estratto dal recente “X”, che pur mantenendo un discreto tiro dal vivo risulta un po’ sbiadito nell’omaggio visivo alla conturbante vampira. Per fortuna ci pensano pezzi da novanta come “Family Vault” (sorretta da un’ipnotica tastiera e dalla corposa linea di basso di Dimitri Corradini, già Whiskey Ritual e Distruzione) e l’inno “Kings Of Evil”, introdotta dall’inconfondibile, epico arpeggio, a corrodere animi e corde vocali, arrivando infine a portarci il sentore di zolfo e cimiteri che stavamo aspettando. Il tempo della chicca “Inquisitor” e poi sull’anthem “Heavy Demons” i Death SS si congedano dal Rock The Castle mentre qualche goccia di pioggia comincia a cadere: la messa (nera) è finita, andate col Diavolo. La prossima volta però in una notte senza luna, per compensare. (Sara Sostini)
VENOM
Nuvoloni neri all’orizzonte, pioggerella che inizia a solleticare la testa dei presenti, un tendone in modalità straccio sullo sfondo e un orco malefico dal crine bordeaux ad aizzare la folla a suon di corna alzate, col poprio digrignare diabolico. Cronos è sul palco, i Venom sono sul palco, per un tuffo nel passato più marcio. Pronti via, e il terzetto inglese lancia subito una bomba ad orologeria: è proprio Cronos a scandire più volte “Black Metal”, per la gioia dei fan, quasi sorpresi da un inizio così folgorante ma comunque reattivi a scatenare i primi poghi tra le file più adiacenti alle transenne (vortice umano che la security gestirà non sempre in maniera così ‘umana’). Pubblico gasato e pronto ad urlare insieme al bassista britannico; non altrettanto in forma invece sono, purtroppo, i suoni tanto che, al termine della giornata, i Venom saranno la band più penalizzata sotto questo punto di vista. La chitarra di Rage, infatti, appare sin dalle prime note difficilmente rintracciabile, lasciando quindi l’intero spazio alla sezione ritmica, con un Danny ‘Dantè’ Needham (un Nick McBrain più bello) assoluto protagonista nel pestare a dovere il proprio drumkit. Sulle ali del metallo nero, ecco servita “Bloodlust”, a proseguire l’incipit old-school, prima di aprire uno spazio del recente passato con un alcuni episodi dagli ultimi album “From The Very Depths” e “Storm The Gates”. Tuttavia, come sottolineato dallo stesso Cronos, è il passato che ha fatto la storia dei Venom e allora, dopo un cambio di strumentazione che mette la parola fine all’omogeneità tra il colore della capigliatura ed il basso utilizzato, è “Buried Alive” a far partire i cavalli di battaglia a firma “Welcome To Hell”, “Countess Bathory” ed ovviamente “Witching Hour”. Una seconda parte di set che acquista ulteriore sostegno da parte del pubblico e, fortunatamente, guadagna anche qualche punticino sul piano audio, valorizzando così il lavoro alle sei corde. Da parte sua Cronos tira dritto, mostrando il ghigno ai presenti in preparazione dell’ultimo colpo in canna. Ed è da libro “Cuore”, scorgere raggi di sole spuntare da dietro il palco mentre lo storico leader celebra l’intro di “In League With Satan”, inno ufficiale dei Venom, cantato in modalità-preghiera da parte della folla. Al termine dello show, Cronos batte le difficoltà acustiche tre a zero. Un’altra pagina di storia è stata scritta al Rock The Castle. Ed ora si cambia genere: dalla terra di Germania arrivano i Blind Guardian. (Andrea Intacchi)
BLIND GUARDIAN
Non lo nascondiamo: lasciando un attimo da parte le recenti (più o meno discutibili) derive orchestrali, i Blind Guardian sono uno di quei gruppi che non vediamo l’ora di tornare a vedere dal vivo ogni dannatissima volta. Sarà che per molti sono un perno fermo negli anni di crescita, sarà per la loro capacità di mettere in musica storie diventate immortali nell’immaginario comune, arricchendole con un heavy-power metal diventato paradigmatico, ma l’accoglienza riservata ai Bardi di Krefeld è tra le più calorose di questa prima giornata. D’altronde l’occasione è ghiotta, visto che in programma c’è l’esecuzione per intero di uno dei capolavori del gruppo, “Somewhere Far Beyond” (la cui copertina in formato gigante è l’unico abbellimento scenografico), di cui quest’anno ricorre il trentennale.
È però con il clamore di armi di “War Of Wrath” che i nostri si presentano sul palco, mentre non c’è una persona che non reciti con religioso fervore la litania di Morgoth in fuga; prevedibile, ma sempre ben accetta, la conseguente “Into The Storm” ci mostra una formazione carichissima, entusiasta di tornare a suonare live e piena di energia. La voce di Hansi Kürsch – una parziale incognita nel concerto – sembra rinvigorita e nelle parti più proibitive può contare sull’aiuto del pubblico, forse leggermente tramortito dal caldo ma comunque reattivo. Il tempo di scaldare ulteriormente gli animi con “Welcome To Dying” e si parte – con il cantante tedesco che ammette di dover ridurre la propria parlantina al minimo per non sforare coi tempi – verso un viaggio meraviglioso, capace di far breccia nei cuori più duri. “Time What Is Time” scioglie qualsiasi riserva: la coppia d’asce André Olbrich/Marcus Siepen è rodatissima nonostante gli anni comincino a farsi sentire, Frederik Ehmke dimostra di riuscire, anche stavolta, nel compito di sostituire Thomen Stauch (nella formazione originaria del disco) dietro le pelli, le tastiere di Mi Schüren non hanno sbavature e anche il nuovo acquisto al basso, Johan van Stratum, porta una buona carica di energia all’impatto live del gruppo. “Journey Through The Dark” viene eseguita con una potenza di fuoco non indifferente, e ci si ritrova quasi increduli a intonare “Black Chamber” e soprattutto l’accorata “Theatre of Pain”, durante la quale siamo sicuri che ci sia stato più di qualcuno con brividi e pelle d’oca. I Blind Guardian si prendono tutto: voci, cuori, applausi, battimani, cori e urla sulla moorcockiana “The Quest For Tanelorn” (abbiamo visto occhi lucidi brillare qui e lì) e “Ashes Of Ashes”, che nonostante gli anni e l’assenza nelle setlist dei tedeschi non ha perso neanche un grammo della propria battagliera epicità. La doppietta di “The Bard’s Song” passa come di consueto con la parte “In The Forest” praticamente cantata interamente dal pubblico, mentre con “The Hobbit” si vede appena un velo di stanchezza offuscare l’operato dei Nostri, sicuramente alle prese con l’oramai comune dilemma su come conciliare la voglia di suonare live con due anni di stop forzato (e questo tour rimandato di conseguenza). Le proverbiali cornamuse scozzesi di “The Piper’s Calling” introducono infine la canzone eponima dell’album, quella “Somewhere Far Beyond” in cui Roland di Gilead – trascinato da riff vorticosi e una batteria incalzante quasi come su disco – attraversa dimensioni, mondi e incubi per giungere infine davanti l’ombra scura della Torre Nera.
Ma, prima di salutare il Castello Scaligero (potremmo pensare ad una scenografia migliore?), i Blind Guardian sguinzagliano la doppietta in grado di vincere e tramortire definitivamente i cuori dei presenti (parzialmente transitati nell’area cibo per cenare): “Mirror Mirror” e “Valhalla” – di cui come sempre gli echi faticano a spegnersi – non sostituiscono certo l’altrettanto iconica cover di “Spread Your Wings” dei Queen che conclude la versione fisica dell’album, ma crediamo siano state comunque un regalo gradito. Nessuna sorpresa, visto il tenore celebrativo del concerto, quella di non aver ascoltato brani provenienti dal passato prossimo o comunque più recente, ma ancora una volta i Blind Guardian dimostrano come, dove non arrivano più voce o tecnica, c’è tanto cuore a colmare le distanze. “The march of time it has begun“, e col favore del buio siamo trepidanti al pensiero di affrontare un altro, nerissimo, pezzo di storia. (Sara Sostini)
Setlist:
Into the Storm
Welcome to Dying
Somewhere Far Beyond
Time What Is Time
Journey Through the Dark
Black Chamber
Theatre of Pain
The Quest for Tanelorn
Ashes to Ashes
The Bard’s Song – In the Forest
The Bard’s Song – The Hobbit
The Piper’s Calling
Somewhere Far Beyond
Mirror Mirror
Valhalla
MERCYFUL FATE
Per chi scrive il rito che si andava a celebrare era atteso da ben ventitré anni. Era il ’99 quando, in occasione del tradizionale Gods Of Metal, il sottoscritto dovette fare una scelta crudele, basata sostanzialmente sul portafoglio. Quale giorno scegliere: sabato con Mercyful o domenica con Motörhead? Alla fine la scelta fu quella di asfaltarsi con Lemmy, confidando che il gruppo danese sarebbe tornato quanto prima. Quel ‘quanto prima’ è poi diventato uno spazio temporale che ha acquisito forme indefinite fino al clamoroso comeback del 2019, quando venne annunciato che i Mercyful Fate avrebbero nuovamente calcato i palchi europei. Attesa alle stelle, spente sul nascere dall’amico Covid. Ma il patto col diavolo era ormai stato sigillato e finalmente, alle ore 22.05, il Re Diamante si è palesato in tutto il suo splendore, tra le mura di un vero castello. Location perfetta, come sottolineato dallo stesso King, ad amplificare l’aurea magica che contorna ogni suo movimento, ogni suo falsetto, ogni sua espressione. Il telone, la scritta Mercyful Fate tanto semplice quanto mortifera a coprire la scalinata marmorea in cima alla quale spiccava una lucente e scarlatta croce inversa; una salita agli inferi, capeggiata dal personalissimo rifugio di Mr. Diamond, dentro il quale poter assumere le diverse varianti estetiche da esibire tra un brano e l’altro. E chiudiamo un occhio di fronte ai cappelli ‘caproneschi’ o in modalità ‘statua della libertà’ (così si vociferava tra le prime file) presentati per buona parte del concerto, preferendoli alla ben più amata tuba, con tanto di mantello nero, presentata nell’ultimo atto della maligna cerimonia. Se l’intenzione (presunta) era quella di lanciare una sorta di risposta da lontano ai figliocci svedesi chiamati Ghost, Kim Bendix Petersen può stare tranquillo: di King Diamond ce ne sarà sempre e solo uno, in grado, a sessantasei anni, di balzare gaudiosamente tra un falsetto e le classiche note baritonali, cesellando di carbonado una scaletta che ha toccato esclusivamente i primi tre lavori dei Mercyful Fate, l’omonimo EP, “Melissa” e “Don’t Break The Oath”. E se l’emozione ha preso avvio con “The Oath”, una lacrimuccia è spuntata improvvisa quando Hank Shermann, la mano destra del diavolo, ha dato il via alla sola ed unica “Melissa”, chiudendo un cerchio magico “between two candles” iniziato nel 1983. Difficile trascrivere certe sensazioni: chi ha partecipato all’evento potrà confermarlo, soprattutto riguardo alla prestazione sublime del Re Diamante e dei suoi fedeli adepti – dall’eterno Shermann a Mike Wead, da Bjarne T.Holm all’ultimo arrivato Joey Vera, a costituire un pentacolo sonoro di assoluto spessore. E mentre l’inno “Come To Sabbath” risuona tra le mura della fortezza veronese, anche il nuovo salmo “The Jackal Of Salzburg” si fa subito piacere, pur nella sua versione per così dire ‘demo’. Mercyful Fate che rubano la scena a chi la ha preceduti, che rubano l’anima ai presenti; un furto in piena regola che ha colpito direttamente anche il merch della band, andato letteralmente a ruba, tanto che già nel pomeriggio, le t-shirt del tour erano semplicemente sparite. E quando la definitiva “Satan’s Fall” scandiva l’ultimo rintocco della litania danese, la consapevolezza di aver assistito a qualcosa di unico era ben impressa sul volto dei presenti. La band saluta ed esce ma al centro del palco rimane lui, King Diamond che, lentamente, risale la bianca scalinata prima alzare le corna al cielo e fare ritorno nel suo rifugio indiavolato: hail Satan, hail Mercyful Fate. Memorabili! (Andrea Intacchi)
Setlist
The Oath
The Jackal Of Salzburg
A Corpse Without Soul
Black Funeral
A Dangerous Meeting
Melissa
Doomed By The Living Dead
Curse Of The Pharaohs
Evil
Come To The Sabbath
Satan’s Fall