Report a cura di Giovanni Mascherpa e Stefano Protti
Foto a cura di Valentina Baldrighi
Volontà umana, strumento passibile di vergognose distorsioni quanto motore dei sogni più irrealizzabili. Un manipolo di giovani coraggiosi dell’Oltrepò Pavese, terra di vigneti e verdeggianti colline ma non certo di musica alternativa ed heavy metal, qualche anno fa ha deciso di inventarsi un festival tutto suo dedito proprio a queste sonorità. Chissenefrega se nessuno di loro aveva esperienza in tal senso, chissenefrega se sembrava una mattana figlia di una serata in cui si sono tracannate troppe birre, chissenefrega se Santa Maria della Versa è lontana, più idealmente che fisicamente, da qualsiasi scenario musicale internazionale. Hanno deciso che avrebbero organizzato il festival e l’hanno organizzato, i nostri eroi, senza trovare per fortuna divieti da parte della popolazione e delle autorità locali: si è creata piuttosto una sinergia di forze fra pro-loco e organizzatori, che ha permesso anno dopo anno di mettere in piedi un evento, rigorosamente gratuito, sempre più ambizioso, la cui eco si sta espandendo continuamente, man mano che la voce di chi vi ha partecipato gira e band di spessore vivono appaganti esperienze in questo placido angolo della Lombardia. Siamo già arrivati all’ottava edizione, spalmata su tre giorni: a una prima serata poco affine ai contenuti di queste pagine, di cui vi diamo comunque un piccolo resoconto per completezza, e anche per segnalarvi la bontà della scelta artistica pure per sonorità cui siamo solitamente meno abituati, hanno fatto seguito due giorni incredibili. Incredibili perché il cartellone presentato, in particolare nella giornata di sabato, è stato degno di un Roadburn, di un Hellfest, di un Temples, insomma di tutti quei festival estremi che sanno coniugare pesantezza, originalità, marciume, storture e demoni di varia natura. Il sabato, dedicato a sludge, doom, grind, black metal, ha racchiuso sotto un unico comune denominatore due tra le band più iconiche del panorama estremo europeo più tortuoso (Gnaw Their Tongues e Monarch!), un outsider del black metal come i Sun Worship (che si riveleranno quale sorpresa assoluta della manifestazione) e tre agguerrite compagini italiane di varia estrazione, quali Bologna Violenta, Hate&Merda e La Piramide Di Sangue. Non da meno la domenica, dai tratti eminentemente hardcore e capeggiata dalle nuove leve del post-core da camicia di forza Birds In Row, accompagnati da una schiera di giovani gruppi italiani in rampa di lancio (Storm{O}, Shizune, A Theory Of Justice) e una leggenda locale riesumata per l’occasione, i vogheresi The Nerds. Così, la piazzetta davanti alle scuole elementari del paese si è trasformata in un’arena festaiola, fra ottimi stand alimentari a basso prezzo che hanno sfamato anche tutta la cittadinanza desiderosa di un po’ di svago diverso dal solito, banchetti artistici con ampia scelta di stampe, litografie, poster, oltre ad altra originale oggettistica, banchi di cd e vinili e il merchandise dei gruppi coinvolti. L’organizzazione ha sopperito magnificamente anche agli intoppi della domenica, quando a causa di una lunga coda in autostrada Birds In A Row e Storm{O}, impegnati la sera prima in una data in Costa Azzurra, sono arrivati in loco solo all’ultimo minuto e hanno suonato all’interno delle scuole su un palchetto al piano terra, quello dedicato all’aftershow negli altri due giorni: un contrattempo che ha trasformato le ultime esibizioni in programma in casinare epopee degne di un centro sociale. Ma stiamo precorrendo i tempi, e non prima di aver ringraziato i ragazzi del collettivo Rock Valley per l’esperienza, che dà ogni anno una sferzata di speranza in un quadro culturale, quello del pavese, altrimenti piuttosto ingessato per le sonorità hard’n’heavy, vi lasciamo alle nostre cronache, pensieri e deliri assortiti sull’evento. Per chiudere questa presentazione, vi invitiamo inoltre a leggere il breve scritto postato sulla pagina ufficiale dell’evento al termine dell’intensa tre giorni (lo potete leggere qui): giusto per farvi capire che aria (sana) tiri da queste parti e quanta incommensurabile passione guidi gli organizzatori nel portare avanti un discorso così unico all’interno del panorama dei festival italiani.
Il venerdì sera tutti devono liberarsi dalle scorie lavorative della settimana per godersi pienamente la serata: lo sanno bene gli organizzatori del Rock Valley, che offrono un menù meno estremo (ma non meno sperimentale) rispetto a quello dei giorni che seguiranno. Aprono gli Enidd, che si occuperanno anche di distrarre il pubblico con vari interludi sul minuscolo palco cocktail. Piacevolissimo indie suonato da chi è stato cresciuto a biscotti Plasmon e Sonic Youth, un po’ troppo derivativo ma comunque divertente. I Johnny Mox mostrano un doppio volto: nel concerto ufficiale sono divertenti e rumorosi ma troppo confusi per lasciare un ricordo indelebile; poi, durante un cambio palco, riescono ad incendiare la platea con una lunghissima suite marcatamente percussiva, tra ricordi funk, un sax pop group e danze etniche. Il sottoscritto sospende il giudizio ed è curioso di rivederli in azione. Per la decina (sigh!) di persone presenti sotto il palco, Seirom è invece l’uomo più atteso del festival. In attesa di vedere cosa combinerà nel secondo giorno di festival con il disturbante progetto Gnaw Their Tongues, l’olandese Maurice DeJong offre quaranta minuti di grande impatto sonoro, feedback che si stratificano fino a creare un romantico torrente shoegaze degno di Fennesz (ma con meno trucchi digitali), a cui contribuiscono le suggestive immagini bucoliche che accompagnano lo show. Alla fine non ci rimane altra scelta che chiudere gli occhi e sognare. Il gemello buono di Steve O’Malley. I tre Esben And The Witch, recentemente approdati alla Nostromo dopo un contratto Matador (!!!), chiudono il ciclo di concerti all’aperto (il sottoscritto si perderà con rammarico i Pop-X nel consueto after-show) e giustificano pienamente la scelta degli organizzatori di dedicar loro la posizione da headliner: strutture sonore complesse, indie venato di atmosfere gotiche e capacità di mantenere alta la tensione degna degli ultimi Swans (ma con maggiore gusto nelle melodie), canzoni solide sorrette dalla splendida voce di Rache Davies. Da recuperare il loro ultimo “A New Nature”.
(Stefano Protti)
SABATO 18 LUGLIO
BOLOGNA VIOLENTA
Inghiottiti da una cappa di umidità che andrà alleviandosi solo con l’infittimento del buio, ci facciamo stappare i padiglioni auricolari dal grind elettro/orchestrale ultra-arrangiato dei Bologna Violenta. Il progetto di Nicola Manzan è divenuto un nome da culto in versione solitaria, quando l’abile musicista emiliano strabiliava con una miriade di effetti i pubblici più disparati, spiazzati nel vedere di spalla a nomi più o meno estremisti un progetto così ostentatamente irrazionale e ai limiti del non-sense. L’entrata in formazione di Alessandro Vagnoni, ex Infernal Poetry e ora nei Dark Lunacy, ha alzato la fruibilità di questa sordida creatura, ora strutturata in modo leggermente più razionale, pur cedendo nulla all’istrionismo. Va tutto in scena secondo un copione sacrilego, schegge solamente strumentali in cui il grind è discernibile nelle sue connotazioni distopiche e deliranti, alla Brutal Truth, unite a una segmentazione in spartiti vorticosi, ammorbati da una febbrile ricerca dell’effetto bizzarro, dello sbrindellamento di forme musicali trascinate fuori dalla loro zona di comfort e riassemblate in un ambiente più insano. I pad elettronici di Vagnoni e le combinazioni effettistiche della sei corde rendono superflua la presenza di altri musicisti, facendoci soltanto immaginare dove arriverebbero i Bologna Violenta con un cantante di spessore a svagare libero nelle composizioni-kamikaze qui esposte. A creare show ci pensano i filmati in scorrimento dietro i musicisti, che passano senza apparente logica da scene truculente, belliche, ad altre di sacrosanta e inguaribile demenza. La stessa che sembra possedere Manzan, che si dimena in balletti grotteschi e urla belluine tra un pezzo e l’altro: una sequela di slogan uno meno serio dell’altro indorano la prima mezz’ora di concerto del sabato, eccellente apertura di una serata che andrà a sondare lidi sonori ai limiti dell’illecito.
(Giovanni Mascherpa)
HATE & MERDA
L’immaginario provocatorio e disturbante con cui si sono manifestati al mondo nel 2014 li ha resi oramai una piccola icona del metal estremo nazionale, e se finora avevano lasciato poche volte la natia Toscana, non può che diventare un piccolo evento questa loro partecipazione al Rock Valley. I due incappucciati a chitarra e batteria si presentano con un urlo di battaglia che è tutto un programma: “Noi siamo gli Hate & Merda, questo è l’Anno Dell’Odio!”. Tale dichiarazione d’intenti ha una logica conseguenza in un vocabolario metallico ammorbante, cloaca asfissiante di badilate di terriccio chitarristico infestato di veleni, stacchi grind maledetti alternati a precipitazioni nello sludge/doom più rancoroso, bastardo e drogato che memoria umana ricordi. A conti fatti, le discariche sonore dei due giovani musicisti fiorentini non vanno a portare nessun elemento di innovazione nel settore di competenza, ma la convinzione con la quale certa materia miasmatica viene rimescolata, spianata, ruminata intensamente per straziarla oltre ogni limite è fonte di genuina ammirazione da parte nostra. Perché si potrà anche credere che l’estetica degli Hate& Merda sia una baracconata, ma sul palco i due vivono e interpretano benissimo il ruolo di esseri marginali, reietti della società in preda al proprio nichilismo. Interessante poi come le strutture dei brani, col passare dei minuti, si disgreghino in fiotti di melma sempre più indefiniti, di natura così rivoltante da far accapponare la pelle. Registriamo infine un’attenzione contenuta da parte dei presenti, chi non è spaparanzato ai tavoli a bere e mangiare guarda con interesse, ma pure con un po’ di perplessità, chi sta suonando: d’altronde, il bill del secondo giorno di Rock Valley è sfizioso ma per stomaci forti e non tutti sono inclini a farsi conquistare da suoni così spigolosi.
(Giovanni Mascherpa)
Maledetti francesi. Meno di un mese fa, sul palco dell’Hellfest, hanno aggredito il pubblico con quaranta minuti di caos melmoso, orchestrato da una ragazza bionda e dal suo synth agghindato di lumi cimiteriali. Stranianti, insopportabili, eppure magnetici, tanto che alla fine in pochi hanno trovato la forza di allontanarsi disgustati dal palco. È alla luce di queste premesse che ci si avvicina al palco, con un sorriso diffidente, quasi a nascondere una certa curiosità morbosa. La scaletta, se così la si può definire, è la stessa di Clisson: due lunghi segmenti della stessa nenia. Il primo brano (si riconoscono ogni tanto frammenti di “Black Becomes The Sun”, da “Omens”) si trascina per venti minuti su una fanghiglia di impronta Sunn O))) che ha perso qualsiasi velleità ritmica, con accordi bradicinetici che arrancano per sincronizzarsi ai rari (e apparentemente casuali) tonfi di batteria. La magnetica Emilie è una leader atipica, tanto che dopo poco appare chiaro che sono i suoi ululati e le carabattole elettroniche a fare da fondale agli altri strumenti, e non viceversa. Intanto, illuminata dalle candele, si lascia andare ad una performance che è più seduta catartica che canzone: lamenti, urla, pose teatrali, (involontari) ammiccamenti da riot girl e persino un pianto esausto. La seconda suite mostra un lato della band più aggressivo, le ritmiche si fanno vagamente più serrate, quasi il gruppo fosse un caterpillar dal motore diesel. Affiora una struttura, precaria ma ben visibile, che rivela un background più genuinamente rock e meno avanguardistico (testimoniato anche dalle due irriconoscibili cover di Misfits e Runaways recentemente pubblicate su singolo). Alla fine, quando gli organizzatori fanno mestamente notare che il tempo a disposizione per lo show sta terminando, loro sembrano rimanerci male. Fosse per loro, il concerto sarebbe probabilmente continuato ad libitum. I Monarch! sono un gruppo da detestare o amare alla follia: questa volta non si vorrebbe vederli scendere dal palco, tanto è il fascino che emanano. Attenzione, potrebbero creare dipendenza.
(Stefano Protti)
Per sembrare più strutturati dei Monarch! sarebbero bastati un giro di DO ed un testo di Pezzali, ma i piemontesi han deciso di esagerare. Reduce dalle lusinghiere recensioni raccolte dall’ultimo, splendido, “Sette” (Boring Machines, 2014), il collettivo presenta un set di quaranta minuti intenso e serrato che riesce a raggruppare sotto al palco una piccola folla di interessati. Leggeri non sono, ma confrontati con la scaletta di questo sabato fanno l’effetto di un gavettone ghiacciato, con le suggestioni mediorientali figlie del Peter Gabriel di “Passion”, le atmosfere desertiche ed i pattern ritmici curiosamente vicini ai Tool di “Lateralus”, unico labile legame con il metal. Musicisti eccellenti nei momenti solisti danno tuttavia il miglior risultato quando il suono si gonfia in un unico mantra danzereccio. Il pulsare di basso è spietatamente coinvolgente ed il pubblico reagisce felice al ritmo, ignaro dell’ulteriore massacro sonoro che lo attende negli show successivi. Ottimo concerto, a cui forse un minore spazio alle percussioni (spesso impegnate in lunghi solo) avrebbe ulteriormente giovato. Non è necessario consigliarvi di comprare i loro vinili, la voglia vi verrà automaticamente dopo lo show.
(Stefano Protti)
Scrosci di proiettili, chiodi, stalattiti, qualsiasi altro oggetto aguzzo, acuminato vi venga in mente, si riversano sui presenti quando salgono sul palco i tedeschi Sun Worship. Nel pozzo underground da cui arrivano tutti gli interpreti visti all’opera al Rock Valley, i blackster teutonici sono i meno noti, scovati chissà come dagli eruditi organizzatori e proiettati nelle zone alte del bill. I volumi delle chitarre vanno completamente fuori controllo, creando una saturazione pazzesca sulle tonalità medie e alte, laddove il trio va a colpire incessantemente, dato che non vi è alcuna presenza del basso. Quel poco di atmosfera ascoltabile in un disco come “Elder Giants”, unico full-length pubblicato finora, viene sbriciolata dall’assetto da battaglia nucleare dei registri sonori, con i volumi così elevati da costringere chi non sia dotato di tappi a indietreggiare quanto più possibile per non vedere il proprio apparato uditivo schizzare fuori dall’orecchio in un disgustoso effetto splatter. I berlinesi, facce da hipster e animo oltranzista, non fanno nulla per alleggerire la tensione, facendo impallidire quanto a veemenza gli ensemble più scellerati del movimento black metal: pochi rallentamenti, moltissima pressione, numero di riff per canzone piuttosto basso, con ognuno di essi storpiato dalla frenesia sanguinaria dei due chitarristi, che si alternano alla voce in rantoli drammaticamente old-school. L’effetto complessivo, con le concessioni alla musicalità ridotte al lumicino, è quello di essere presi a calci e testate in faccia senza alcuna possibilità di difendersi, di rifiatare, poter abbozzare una benché minima reazione. Per darvi un’idea del massacro uditivo che abbiamo subito, immaginate cosa potrebbe provocarvi ascoltare un incrocio stralunato fra Darkspace, i Darkthrone di “Panzerfaust”, gli Anaal Nathrakh e i The Secret. Leggerino, vero? Dalla consolle riportano in corso d’opera i settaggi degli strumenti su livelli lievemente normali, senza che ciò comporti un ammorbidimento dell’olocausto, al massimo un suo migliore apprezzamento, nel senso di un riconoscimento di alcune variazioni di registro che portano a una ventata di modulazioni ‘post’ appena percettibile, ma di ottimo gusto. In assoluto, il concerto del trio berlinese va dritto nella galleria degli show ‘panico e paura’, quella selezionata gamma di situazioni dove ci si ritrova a sentire il sangue raggelarsi nelle vene e a provare un vero timore per quello che sta accadendo, consapevoli di assistere a qualcosa di fortemente anomalo, inconcepibile. Insomma, fatevi un favore e andate a cercarli: non fatevi ingannare dalle apparenze da bravi ragazzi, questi sono dei criminali!
(Giovanni Mascherpa)
Di tutto quanto abbiamo visionato al Rock Valley, il progetto più famoso del polistrumentista orange Mories è forse quello che meno ha soddisfatto le attese. Attenzione, non stiamo parlando di un fiasco completo, di una clamorosa smentita delle raccapriccianti incursioni terroristiche officiate nelle opere in studio, semplicemente di una certa distanza tra quanto è solito promulgare il musicista olandese nel mare di pubblicazioni sotto l’egida Gnaw Their Tongues, e quanto è stato in grado di produrre al Rock Valley. Il problema principale per Mories è quello di non avere una vera band a supportarne gli intenti, soltanto un’altra ragazza lo accompagna, dettando i tempi delle basi e dei vari samples da dietro un computer, mentre il mastermind si accanisce sul basso e canta ignominie. Ancora stupefatti dalla baraonda galattica degli Sun Worship, affrontare i malatissimi scervellamenti del duo, nei primi minuti percepibili come un coacervo di suoni senza capo né coda, è un’impresa ardua, non facilitata appunto dalla presenza scenica pressoché nulla. I segnali nefasti in apertura vanno però a sbiadire col passare del tempo; così, mentre il già sparuto assembramento di persone davanti al palco va scemando inorridito da tanta animosità nichilista, gli ascoltatori rimanenti vedono lievitare il livello dello spettacolo. Il miglioramento della qualità dei suoni e l’accordatura da parte dei nostri prostrati cervelli alle scariche industrial, al basso ultradistorto, alle urla fra il maiale sgozzato e il soggetto sottoposto a tortura inquisitoria, portano all’apprezzamento piuttosto convinto di quanto stiamo udendo/subendo. Quasi impossibile comprendere esattamente quale sia il senso di questo stillicidio di black metal nauseabondo, noise-core terroristico, elettronica avariata; la maggior parte delle persone la descriverebbe, spaventata a morte, come una cacofonia vomitevole. Eppure, per le unità capaci di sopportare i circa tre quarti d’ora di esibizione – durata monstre se tarata su queste coordinate soniche – immobili nel loro lento agonizzare, mentre la mente si decompone un secondo per volta, si è trattato di un piacevole momento di surrealismo all’interno di una vita in genere troppo avara di assurdità come questa.
(Giovanni Mascherpa)
A THEORY OF JUSTICE
La domenica lo scenario cambia drasticamente rispetto al sabato e lo si nota immediatamente anche dal tipo di personaggi gravitante vicino al palco. Ragazzi in età da scuole superiori si approssimano per seguire i Theory Of Justice, giovane collettivo autore finora del full-length “Athena” (2011) e dell’ep “a t o j” (2014). Piglio old-school per i cinque, che abbattono ogni resistenza con un concentrato di hardcore bellicoso, da barricata, in stile New York Anni ’80. Il cantante scende quasi subito in mezzo al pubblico e si fa sballottare da chi ha più voglia di far casino: assistiamo ai primi tentativi di pogo della manifestazione, sicuramente la fisicità di chi sta suonando si presta a tale esercizio, peccato che numericamente non vi sia la massa critica per andare oltre qualche isolato spintone, al termine di disordinate rincorse. Alla parvenza di monoliticità dei primi pezzi ecco affiancarsi, e poi a sostituire l’etichetta che avevamo appiccicato alla band in partenza, una benedetta voglia di complicarsi l’esistenza e di concedersi a pratiche sonore elaborate, delineando un viaggio sonoro sconnesso e spigoloso che non ci eravamo francamente immaginati di vivere. Intendiamoci, gli A Theory Of Justice non vestono neanche per un istante i panni accademici del post-core più contaminato, l’impatto viene sempre prima di tutto il resto, però non siamo nemmeno in presenza del classico combo vecchia scuola tutto ritmi quadrati e chorus anthemici. Per gli estimatori del genere, i lodigiani sono sicuramente una realtà da tenere strettamente monitorata.
(Giovanni Mascherpa)
Gli Shizune potrebbero essere presi a paradigma delle contaminazioni a cui sono arrivate la scena black metal e quella screamo: i veneti appartengono indubbiamente a questa seconda schiera di sonorità, però ricondurli a questo genere implica anche una semplificazione ingenerosa per una proposta sfaccettata e multicolore come la loro. Ecco quindi che accanto a ‘sparate’ prettamente hardcore si animano e spiccano il volo varie interpretazioni di come si possa esprimere la fragile emotività adolescenziale in campo hardcore, fra le arcinote (ma ben concepite) fibrillazioni pastellate mutuate dallo shoegaze e una gamma vocale che, pur non uscendo dal caleidoscopio di soluzioni care a questi ambiti, si permette un’elasticità interpretativa davvero ottima. Con grande spregio di bilanciamenti equanimi fra rabbia e rarefazione, i Nostri partono per la tangente più volte, arrivando a lambire territori progressivi all’interno di dilatazioni ritmiche difficili da cogliere se non si è preparati a udirle, ma che colgono nel segno e non si dimostrano futili tentativi di cavalcare sviluppi pretenziosi e senza punto d’approdo. Una corsa, quella degli Shizune, fra concretezza e astrattismo che conquista sia gli adepti del genere, anche in questo caso generosi ad esporsi a un minimo di bagarre – con la band che si allarga a tutto palco quasi a presidiare il campo di battaglia da avamposti privilegiati – sia coloro che, magari, solo da entità quali i Deafheaven hanno scoperto per la prima volta le interconnessioni fra l’estremismo metallico e la forza più mansueta dello screamo. A proposito di metal estremo, ricollegandoci a quanto accennato in apertura, certi schemi degli Shizune ricordano l’operato dei Ghost Bath, tanto per ribadire quanti diversi approcci passino sotto la lente deformante della band. Buon concerto anche il loro, nuova testimonianza dell’orecchio fino di chi ha approntato il bill.
(Giovanni Mascherpa)
All’interno di una manifestazione di ampissime vedute, rivolta a sfrugugliare in lungo, in largo, in profondità nell’underground italiano e internazionale, non poteva mancare un manipolo di soggetti legati alla scena musicale locale. E anche da questo punto di vista, la scelta non è stata affatto banale. Vanno infatti in scena i The Nerds, scapestrato quartetto hardcore vogherese, una manciata di uscite a cavallo di primo e secondo millennio, prima di un lungo silenzio interrotto proprio dal concerto del Rock Valley. Era lecito attendersi qualche fan di vecchia data, invece il grosso di quelli che si piazzano davanti allo stage è più o meno lo stesso pubblico che ha dato man forte a ATheory Of Justice e Shizune. L’atmosfera cambia radicalmente, è l’ignoranza a dettar legge, tramite un hardcore/punk venato di rock’n’roll e nichilismo alla Carnivore. Band richiamata non solo nei suoni, ma anche nella vocalità e nell’apparire del corpulento singer, che con la sua tuta arancione e il capello al vento si configura come il perfetto clone di Pete Steele. Nelle movenze, il singer è invece preda all’esaltazione più totale, un tornado di carne, tonsille, rabbia ritornato a dar spettacolo a distanza di parecchi anni dall’ultima apparizione dal vivo. Gli annunci dei pezzi sono quanto di più sconclusionato e triviale vi possa venire in mente, in linea con l’attitudine per nulla seriosa dei quattro, con il cantante a tenere immancabilmente banco: caracolla disordinatamente tra i ragazzi che stanno assistendo al concerto, che si ritraggono un po’ intimoriti dall’energia di chi hanno di fronte. Un altro bel personaggio è il chitarrista, dispensatore generoso di facce stralunate e una musicalità abbastanza stramba, pur all’interno del contesto classicamente hardcore dei The Nerds. Il set proposto è tanto brutale quanto divertente e divertito, e la prestazione non risente minimamente della lunga assenza dalle scene. Un altro bel capitolo di questa edizione del Rock Valley.
(Giovanni Mascherpa)
Storm{O} e Birds In Row arrivano quasi insieme, con grande ritardo sulla tabella di marcia, e sono costretti a esibirsi sul palco dedicato all’after-show, posto all’interno della scuola elementare di Santa Maria della Versa. Dovendo concedere il silenzio alla popolazione tassativamente entro la mezzanotte, non si poteva rischiare di suonare all’esterno come programmato. Quello che poteva essere il classico colpo di sfiga dell’ultimo minuto, diventa al contrario un modo per aizzare il giovane pubblico a vivere il concerto con particolare trasporto. Gli spazi angusti e l’assenza di dislivello fra il palchetto illuminato da una serie di luminarie natalizie sul fondo e gli astanti va nella direzione della più classica lotta festosa da centro sociale/squat. Ne godono assai gli Storm{O}, che come gli era accaduto la settimana precedente di spalla ai Tempest non godono fatalmente di suoni pulitissimi, ma possono interagire nella massima libertà coi presenti, facendosi issare a turno sulle teste dei più focosi e galleggiando sopra ad essi continuando bellamente a cantare e suonare. Stage diving e crowd surfing si susseguono durante l’intero set, il già agitato stage acting dei feltrini ha giovamento da questo ambiente ristretto e caldissimo, provocando un atteggiamento da parte della band ancora più scatenato del solito. Bello notare quanta approvazione e rispetto si siano conquistati questi ragazzi, che a forza di suonare dal vivo quasi ad ogni fine settimana, ovunque vengano chiamati e fregandosene altamente di essere o meno in una situazione comoda, si sono costruiti un following di tutto rispetto. Ora che stanno iniziando ad assaggiare i palchi oltreconfine – il ritardo al Rock Valley è stato causato da un ingorgo nel ritorno dalla Francia – i cinque non potranno che crescere in personalità, portando in futuro a risultati ancora migliori del già ottimo primo album “Sospesi Nel Vuoto Bruceremo In Un Attimo E Il Cerchio Sarà Chiuso”.
(Giovanni Mascherpa)
Per chi scrive, appena dietro i Sun Worship nel ruolo di band simbolo della tre giorni vengono questi francesini di stanza a Laval. Col pubblico su di giri per il concerto degli Storm{O}, ai post-corer d’Oltralpe basta pochissimo per riportare all’autoscontro fisico coloro che se stanno tutti pigiati a un centimetro dagli strumenti. Il sonoro è più nitido di quello goduto dal gruppo precedente, dettaglio fondamentale per una proposta che abbina all’urgenza espressiva un discreto numero di variazioni e stacchi da far venire il mal di testa. Anello di congiunzione fra il mondo dello screamo e i Converge più coraggiosi, i Birds In Row scatenano un’ineffabile furia degli elementi sul palco, contorcendosi su se stessi, abbassandosi, piegandosi, corrucciandosi ed esplodendo in reazioni imprevedibili a pezzi scritti e suonati col cuore in mano. Epopea di dolori generazionali, euforia impetuosa e strazi conclamati, le schegge di suono promulgate sorprendono chi è a digiuno dell’operato dell’ensemble, mentre chi se n’è già fatto conquistare – e viste le reazioni, nelle prime file questi soggetti sono la maggioranza – gode assai nell’ammirare la diretta rispondenza fra le alte aspettative generate dalle prove in studio e la resa effettiva nel contesto live. Impossibile vedere qualcuno impassibilmente fermo durante l’esibizione, se non si è tra quelli che galleggiano in testa al prossimo si è perlomeno usi a headbanging, pugni in aria, gesti vari ed eventuali che esemplificano un’adesione plebiscitaria alle bordate dei francesi. Clamoroso come in questo pandemonio, nell’irruenza zigzagante delle ritmiche, nei geyser di note in eruzione dall’enciclopedica chitarra, ci sia comunque posto per melodie bellissime, solidissime nella loro parvenza di aerea impalpabilità. Non poteva esserci modo migliore per chiudere una tre giorni dallo spirito fortemente internazionale, organizzata con grande cura e nessuna sciatteria. Fa specie che un evento di tale portata sia ancora poco conosciuto e frequentato da una sparuta nicchia di ascoltatori. Per l’anno prossimo, quindi, fate uno sforzo e recatevi tra le ridenti colline pavesi: ne guadagnerete in benessere.
(Giovanni Mascherpa)