Report a cura di Davide Romagnoli
Oh be’, una data immancabile per moltissimi: la discesa dei Russian Circles nel Belpaese. Da headliner assoluti. Accompagnati da una band di notevole ampiezza e fermentazione, quel trio variegato (musicalmente e di sesso anagrafico) degli Helms Alee. Leccata di baffi e porzioni succulente si accingono ad essere presentate al Lo-fi di Milano in questa inaugurazione di aprile. Moltissime aspettative e moltissimi i presenti. Seattle e Chicago mostrano due tra i volti del post-metal più intrigante di questi ultimi anni. Ovvio che le aspettative fossero più che alte.
HELMS ALEE
Assolutamente interessante la proposta degli americani Helms Alee, quelli che hanno masticato, data la provenienza dalla terra del grunge, tutti i suoi respiri più rabbiosi e liberatori. Più vicini ad un certo sludge e post-metal più imponente, ma rivisitato con un’attenzione acuta ed attenta. Merito forse dei due terzi femminili che compongono il terzetto. Merito che si acuisce in sede live. Se infatti negli ultimi due (buoni) dischi, “Weatherhead” del 2011 e “Sleepwalking Sailors” del 2014, la miscela che ne fuoriusciva era piacevolmente coesa ed intrigante, è proprio il tassello del rude Ben Verellen ad essere quello più indietro nella proposta. Il suo cantato crust e primitivo, che tutto sommato aveva intrigato nei lavori in studio, è sì interessante e peculiare, ma anche talvolta vittima di qualche fuoriuscita dai registri del pezzo che non si può non notare. Assolutamente incocepibile criticare le stonature in un genere come questo, ma si può parlare invece di quella uniformità suadente (nel peculiare pastiche di genere) che i ragazzi di Seattle portano avanti che viene un po’ a mancare in sede live. I brani sono particolari e allo stesso tempo convincenti, ma a brillare particolarmente sono indubbiamente le forme artistiche femminili, che nel rumore monolitico assurgono a Muse ispiratrici di una musica che può anche rubarti l’anima per qualche istante.
RUSSIAN CIRCLES
I Russian Circles hanno ottenuto un credito incommensurabile. Dalla loro c’è di notevole il fatto che hanno saputo mescere dalle loro cantine una formula post-metal che tange indissolubilmente dalla lezione dei capisaldi Neurosis e Isis, passando dai Pelican, ma istituendosi come paradigma per un post-rock bellicoso e potente, capace di convogliare, anche per il suo minimalismo e impatto derivativo, fan che passano da ascolti degli Ufomammut a quelli dei Godspeed You! Black Emperor. Dal vivo, poi, è derivata gran parte del loro seguito: le numerose partecipazioni ai festival inglesi ed europei li hanno quasi consacrati a realtà, ormai, di grosso taglio. Così come le date di supporto a realtà ormai indissolubilmente paradigmatiche: Boris, Tool, Isis e, ultimamente, Deafheaven. Fa molto piacere vedersi quindi un pienone assoluto nella cornice di un locale underground come il Lo-fi, oscurato dai fumi di scena e dalle ombre monolitiche dei tre ragazzi di Chicago che si ergono sullo sfondo quasi in attitudine profetica. Ora si potrebbe giungere a due considerazioni: una pratica e una più tecnico-critica. Indifferente quale scegliere per prima. Ma se dovessimo giudicare dalla timbrica, dai suoni e dagli arrangiamenti, i Russian Circles di questa sera hanno offerto un qualcosa di monolitico sì, ma anche inesorabilmente monocorde. Suonato come veri professionisti, senza alcun dubbio, ma tanto da arrivare ad una parola chiave per questa sera: efficace. Il concerto dei Russian Circles è efficace, senza alcuna ombra di dubbio. Ma questa efficacia risulta anche ambigua. Le rarefazioni rumoristiche tra un brano e l’altro diventano pian piano uno standard, così come le sfuriate dispari e di cicli ritmici che concludono la maggior parte dei brani di questa sera. L’impatto immaginifico è sì forte e ponderato, ma anche stantio e ripetitivo. La bellezza empatica che si coglie da molti pattern ritmici è tanto ineffabile quanto fruibile al momento. E l’eco dei feedback non diventa nulla se non coda o preludio ad una forma-canzone piuttosto canonica. Un paio di episodi dall’ultimo “Memorial”, un paio da “Empros” e qualcosa da praticamente tutti i cinque album della discografia. Una bella omogeneità, che quasi però arriva ad annoiare, per chi mastica quel sound da qualche tempo e che, nel marasma delle produzioni di questo genere, ormai non ha nulla da apprezzare se non la comunicazione vera, organica, alchemica, che l’atmosfera del post-rock riesce a veicolare. Il sentore che il prodotto finale dei Russian Circles di oggi è quello di un assestamento su un discorso molto più diretto e conciso, che ha un retrogusto inevitabilmente semplicistico che rimane sul palato. Dall’altra parte, quella pratica, però, abbiamo un pubblico carico, entusiasta ed entusiasmante che rende una cornice stra-colma un covo di musica undeground d’atmosfera quasi perfetta. Difficile criticare il lavoro dei tre di Chicago, ma difficile anche dimenticare come questa atmosfera rischi di diventare uno standard e mancare di anima e cuore, vittima di setlist e impostazioni racchiuse in involucri di plastica che dimenticano un locale ancora pieno che inneggia ad un bis. Indubbio, ancora una volta, il risultato finale di una setlist che presenta inequivocabili pianificazioni tanto eque quanto, in parte, causa di un convincimento ed entusiasmo che stenta a decollare come dovrebbe, potrebbe, e vorrebbe -dopotutto- arrivare ad ottenere. Per emergere dalle innumerevoli copie. Per far dire inequivocabilmente, a questo punto della carriera: “Sì. Questi sono i Russian Circles e nessun altro”.