07/10/2017 - SATYRICON + SUICIDAL ANGELS + FIGHT THE FIGHT @ Circolo ARCI ZR (Zona Roveri) - Bologna

Pubblicato il 14/10/2017 da

Report a cura di Chiara Franchi
Fotografie di Enrico Dal Boni

Metti una sera d’autunno a Bologna, in un locale accogliente e in compagnia di un gruppo che ha segnato come pochi i tuoi gusti e la tua adolescenza. Metti anche che il gruppo in questione abbia appena sfornato un disco che ti ha lasciato un po’ perplesso e che si faccia accompagnare in tour da due band che c’azzeccano fin lì con la sua proposta musicale. Presenziare senza indugio sull’onda della curiosità o rinunciare in partenza per timore di una delusione? Da parte nostra, siamo da sempre dei sostenitori radicali della prima opzione. Non potevamo quindi rinunciare all’appuntamento del 7 ottobre allo Zona Roveri, dove i Satyricon hanno presentato il loro nuovissimo “Deep Calleth Upon Deep” nell’unica serata dedicata ai loro fan italiani. In apertura, i giovani Fight The Fight, conterranei degli headliner, e i thrasher ateniesi Suicidal Angels: un antipasto dai sapori assai variegati (forse troppo), che promette di portarci agli estremi opposti  del metal, oltre che dell’Europa.

 

FIGHT THE FIGHT

Alzi la mano chi pensa ancora che comporre canzoni ruffiane e ritornelli orecchiabili sia molto più facile che produrre della buona musica estrema. La verità è che non basta mettere insieme una serie di formule già collaudate per fare un anthem memorabile, nemmeno se sei obiettivamente un musicista valido e se sei padrone di un sound che raramente le band che si esibiscono alle otto di sera possono vantare. Ed è un po’ questo il caso dei norvegesi Fight The Fight, i cui tre quarti d’ora on stage si risolvono in uno strano collage di riff già sentiti, pescati in un mare magno che si estende dai Metallica ai Good Charlotte, dagli Slipknot ai Thirty Seconds To Mars, passando per i Trivium e i Sepultura. Risultato? Nessun pezzo veramente sgradevole, ma nessun pezzo davvero memorabile. Senza contare una certa ‘impronta Duemiladieci’, che conferisce anche ad una proposta relativamente fresca come quella dei Fight The Fight un leggero retrogusto di stantio. Dopo tutto, parliamo di un gruppo che è stato in circolazione per dieci anni prima di pubblicare un full-length, e il sospetto che i pezzi siano stati scritti quando certi trend erano ancora sulla cresta dell’onda è piuttosto forte. Insomma, anche se i cinque ragazzi di Oslo tengono il palco discretamente bene (nonostante l’ingresso buzzurrissimo con birre, ‘fuck’ e camminata a gambe larghe ci avesse fatto pensare male), anche se fanno sfoggio di una tecnica apprezzabile e regalano uno show ben confezionato, manca qualcosa. Voi chiamatelo, se volete, ‘identità’.

 

SUICIDAL ANGELS

Se i Fight The Fight sono rimasti fermi al Duemiladieci, i Suicidal Angels non devono aver visto l’alba dell’Ottantasette. Non dubitiamo che i cultori del thrash si possano esaltare per la loro arci-canonica proposta, oltretutto messa in piedi con genuinità e sincera devozione alla causa, ma sta di fatto che la formazione greca incarna in maniera sorprendentemente efficace l’archetipo del metallaro venuto su a pane e Slayer. La band dà fuoco alle polveri con “Capital Of War”, opener del recente “Division Of Blood”: un’onesta cavalcata in totale fedeltà ai maestri del genere, colorita dalla pessima pronuncia inglese del cantante Nick Melissourgos. Poche sbavature, ma ancor meno sorprese. Più o meno stesso discorso per “Bloodbath” e “Front Gate”, la cui obiettiva solidità è in larga parte sostenuta dalla pedissequa aderenza agli standard del genere. Mentre la scaletta avanza, il locale si riempie. Il pubblico da poco giunto sul posto sembra anche abbastanza divertito e attento. Quanto a noi, sorseggiamo birra cercando di entrare nell’unico mood possibile per goderci davvero lo show dei Suicidal Angels: quello di adeguarci allo spirito revival e apprezzare il loro tentativo (obiettivamente riuscito) di tenere alto lo stendardo di un certo modo di fare musica, quasi si trattasse di avere davanti degli Amish del thrash metal. Ed è proprio così che ci facciamo scorrere addosso il resto del set, cercando di non storcere il naso ogni volta che un riff ci suona tremendamente familiare e senza fare troppo caso al drumming sempre uguale a sé stesso. Volendo essere sinceri, per quello che è il nostro gusto personale (e lo ripetiamo a scanso di equivoci: per quello che è il nostro gusto personale), difficilmente torneremmo a vedere un gruppo che si ripropone di fotocopiare un qualcosa di mastodontico compiutosi trent’anni fa, per quanto valido nel suo genere. Ma se siete tra quanti subiscono il fascino dell’old school…che dire, fatevi sotto.

 

SATYRICON

Ammettiamo di non aver perso la testa per “Deep Calleth Upon Deep”, ultima e controversa fatica discografica dei Satyricon. Se da un lato riconosciamo che è l’uscita migliore che la combo norvegese dà alle stampe dai tempi di “The Age Of Nero”, dall’altra non possiamo esimerci dal constatare che i tempi d’oro – anche quelli di “Volcano”, per intenderci – erano un’altra cosa. Comunque sia, l’imprinting diretto e ruvido della release ci incuriosiscono non poco rispetto alla resa live di questo loro nuovo corso. Curiosità presto soddisfatta:  le prime note del set sono infatti quelle di “Midnight Serpent”, brano che apre “Deep Calleth Upon Deep” e che, a nostro parere, è tra i più riusciti dell’intero disco. Il pezzo è obiettivamente interessante, caricato nelle sue reminiscenze quasi settantiane e fedele alla prova in studio finanche nella sporcizia sonora. Sporcizia che in parte verrà corretta cammin facendo, ma che dipende solo in parte dal lavoro di mixer. La voce di Satyr, che inizialmente credevamo un po’ alterata da mere questioni di sound, risulterà infatti piuttosto ‘gracidante’ per tutta la durata dello show: certo, il suo timbro è sempre riconoscibile e ci teniamo a sottolineare che, a dispetto delle condizioni di salute, herre Wongraven è apparso in ottima forma; più che altro, resta l’impressione che sia cambiato qualcosa a livello di approccio tecnico. Idem per Frost, che oltre ad aver dato al suo stile un taglio ancora più minimale, sembra aver parzialmente abbandonato gli assalti forsennati alle pelli in favore di una maggiore compostezza – anche fisica. In linea di massima, possiamo dire che il bilancio sulla riuscita dal vivo di “Deep Calleth Upon Deep” si chiude in leggero rialzo rispetto all’ascolto del disco, con una media favorevole tra l’effetto polpettone di  “To Your Brethren In The Dark” e una “The Ghost Of Rome” davvero eccelsa, che si conferma tra gli episodi memorabili di questa pubblicazione. Promossa anche la titletrack del nuovo album, nonostante avesse fatto alzare più di un sopracciglio (incluso il nostro): grezza, diretta, efficace nella sua essenzialità. Per il resto, i Satyricon non ci dimostrano nulla che già non fosse noto, a cominciare dall’ennesima riprova che “Volcano” e “Now, Diabolical” sono probabilmente i capitoli della loro discografia che meglio rendono dal vivo: “Repined Bastard Nation”, “Now, Diabolical” e soprattutto la tripletta conclusiva costituita da “The Pentagram Burns”, “Fuel For Hatred” e “K.I.N.G.” sono dei piccoli capolavori di malignità catchy. Perfino i nei di questo show rientrano appieno nelle nostre aspettative. Parliamo di “Commando”, dubbia come al primo ascolto, e soprattutto dell’attesissimo momento dedicato alle radici oscure della band, con la spettacolare “Mother North” rovinata come sempre da un irrimediabile casino sonoro. Ma poco importa, perché quando Satyr imbraccia la chitarra e ci riporta tra le foreste innevate della sua giovinezza artistica (ah, quella versione essenziale di “Transcendental Requiem Of Slaves”!), l’emozione è sempre quella di un bambino sotto l’albero del Satanico Natale. Più ancora della musica, però, ciò che rende veramente piacevole questa serata è il clima. Il pubblico è caloroso, l’atmosfera intima, la band a suo agio. Nei pochi momenti che Satyr dedica all’interazione col suo uditorio, non ha l’aria di chi esprime una soddisfazione di pura circostanza. Sarà per quello che gli crediamo, quando afferma di aver imposto al suo manager di fissare questa data a Bologna anziché a Milano per nessun’altra ragione se non il suo affetto verso questa città.

 

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