In un periodo carico di concerti come quello presente – e spesso sparpagliati per tutta la regione lombarda, almeno nel nostro caso – ci si trova a dover scegliere tra diverse proposte nella stessa serata; eppure, all’annuncio della data degli svizzeri Schammasch, non abbiamo avuto mezzo momento di esitazione nello sceglierli tra tante proposte.
Da sempre autrice di un misto tra black metal, avant-garde e misticismo, la band ha alternato autentiche perle (i cento, mastodontici minuti di “Triangle” su tutti) a buoni album (l’ultimo “Hearts Of No Light”, ormai risalente al 2019); inoltre, ciascuna volta che abbiamo avuto modo di vederla su un palco si è rivelata portatrice di intense esperienze, e l’occasione per vederli da headliner in un locale adeguato (per suoni e dimensioni) è troppo ghiotta per potervi rinunciare.
Ad affiancare gli elvetici, due gruppi che giocano in casa: i Cultus Sanguine, a condensare di nuovo sul palco sinfonie, black metal, afflati gotici e incantesimi di sangue, e gli Swarm Chain in apertura, a raccontare gli aspetti più classicheggianti del doom metal in un’atmosfera in cui pestilenze e rovine si intrecciano. Con questi presupposti in testa ci avviamo, sulle ali di una tempesta dai tratti monsonici che ci accompagna fino a Milano, verso il Legend per un sabato sera all’insegna di suoni plumbei, neri come la pece, orlati lungo i bordi di esoterismo e geometrie auree.
Lasciandoci alle spalle strali di grandine e lampi, facciamo il nostro ingresso nel locale con il set degli SWARM CHAIN in corso, e se il colpo d’occhio del pubblico non è certamente troppo impressionante (specie se comparato con la nostra ultima visita, un paio di settimane prima, per il tour degli Swallow The Sun, che aveva visto invece la venue decisamente più gremita), quello sul palco è decisamente migliore: tra maschere da monatti e toghe da frate nella migliore tradizione messiahmarcoliniana, il quintetto emiliano assembla un doom metal dai toni classicheggianti e ruspanti, con lo sguardo devotamente rivolto ai Candlemass (appunto) e compari di scorribande tra riff rallentati, voci in contrasto dinamico tra tono squillante e cavernoso, assoli intrisi di epicità.
Ovviamente è il primogenito della band, “Looming Darkness”, a traghettare lo show, ed effettivamente gli Swarm Chain dimostrano di avere una buona stoffa sul palco: magari con più rodaggio e più lavoro di cesello qua e là riusciranno a segnare il proprio passo nei sentieri del doom, scostandosi quanto basta da quelli tracciati da chi li ha preceduti.
I CULTUS SANGUINE invece arrivano direttamente dal passato, e si sente: sinfonie decadenti e una commistione tra black metal, attimi rallentati e opulenti, un immaginario tra nichilismo e magia nera sono gli ingredienti che ne hanno fatto sul finire degli anni Novanta (e poi negli anni successivi) una band di culto, tornata dopo la reunion di qualche anno fa a ricoprire di una spessa cappa, tetra e soffocante, la dimensione live.
Anche se l’approccio di Joe Ferghieph e soci sembra più scarno e stradaiolo che in passato, una certo gusto per una teatralità macabra e decadente comunque permane: dal lento, minaccioso pendolo del cappio sventolato dal frontman al lancio di petali, strappati dai mazzi di fiori secchi che punteggiano il fronte palco, certi gesti quasi rituali si incastrano con la polverosa precisione dei meccanismi ben rodati nelle note lamentose della title-track “The Sum Of All Fears”, al drammatico incedere di tastiere, voce e sezione ritmica su “The Calling Illusion”, passando per la ferale “Delusion Grandeur” e arrivando a “Il Sangue”, a proprio modo assurto a inno rappresentativo del gruppo negli anni – parossistico fino al melodramma, miasmatico e angoscioso come un sudario, a rappresentazione di un genere magari rimasto datato, ma (forse proprio per quello) con un proprio fascino, gravoso e imponente, da palcoscenico.
Quando, dopo una doverosa boccata d’aria, rientriamo nel locale, ci accolgono luci spente e un silenzio davvero quasi ‘religioso’, mantenuto col respiro sospeso degli ora più folti astanti fin quando gli SCHAMMASCH non fanno il proprio ingresso sul palco. Ed è proprio quel silenzio praticamente assoluto a dare la chiave di volta dell’intero concerto: un viaggio, dispiegato attraverso chitarre lancinanti, atmosfere rarefatte, muri del suono monolitici (e di qualità praticamente impeccabile per tutta la serata), canti salmodianti e rasoiate chirurgiche, attraverso un mondo plasmato da giochi di luce nel vuoto.
Fin dall’inziale “Winds That Pierce The Silence” (apertura anche di “Hearts Of No Light”) si nota come la performance degli svizzeri sia curata in ogni dettaglio, tecnico e di scena: che sia la messa a fuoco del palco – in cui alle chiome dinamiche di chitarrista e bassista si contrappone la staticità dei volti dipinti di nero e oro di CSR e JB, in un tripudio di equilibri e arabeschi dorati – o la pulizia estrema della resa live delle canzoni, l’impressione che si ha è quella di una crescita costante in termini qualitativi. Il quintetto sul palco, partito da lidi death-black metal anneriti di vago sentore Behemoth ha sintetizzato, album dopo album, i panorami gelidi, astratti e alieni di Blut Aus Nord e Deathspell Omega con un nucleo simbolista e sacrale proprio, portando – insieme all’operato di Gaerea e Bathuska pre-scissione, giusto per dare due coordinate simili – l’evoluzione del genere verso nuovi lidi, con lo sciabordare dell’ambient più scuro a lambire le coste.
E questo deve affascinare molto, almeno vedendo il calore con cui vengono accolte le affilate “Ego Sum Omega” e “Rays Like Razors”, lancinanti nell’intreccio a tre chitarre e voci, sorrette da un lavoro di batteria così tentacolare da sembrare in alcuni punti quasi raddoppiato.
C’è ovviamente tanto spazio per l’ultimo lavoro, compresa una “Paradigm Of Beauty” leggermente più sofferente che su disco (ma non per questo meno bella, con un ritornello quasi ‘catchy’ che pur non stona affatto nel corpo della canzone), ma è quando gli Schammasch pescano dal mastodontico, meraviglioso “Triangle” che la pelle d’oca diventa generale: che sia la furia salmodiante della doppietta “Consensus”/”Awakening From The Dream Of Life” o l’imperiosa, allucinante “The World Destroyed By Water”, ciascun estratto da quel triplice disco ha una carica evocativa – il cui glifo a sigillo di tutto è l’invocazione al ‘suono della trasformazione’, “Metanoia”, a togliere ogni volta il fiato – che ad oggi rimane ineguagliata nella carriera della band svizzera.
Nascosti da una cortina di fumo, con i due ottaedri stellati a svettare vicino al soffitto, i cinque musicisti regalano al Legend una performance sì algida e distaccata (in termini di interazione col pubblico), ma trasudante energia da ogni poro, che siano le scale di “Qadmon‘s Heir” o la percussività battagliera di “Chimerical Hope”. Quando le ultime note di “Do Not Open Your Eyes” (dal primo – e per ora unico – capitolo di “The Maldoror Chants: Hermaphrodite”) svaniscono, ci sembra di essere tornati da un viaggio onirico nella sconfinatezza dell’universo: essenziale, complesso, mutevole. Proprio come la musica degli Schammasch.
Setlist:
Winds That Pierce the Silence
Ego Sum Omega
Golden Light
Rays Like Razors
Consensus
A Paradigm of Beauty
Qadmon‘s Heir
Metanoia
The World Destroyed by Water
Awakening from the Dream of Life
Chimerical Hope
Do Not Open Your Eyes