Introduzione a cura di Lorenzo Ottolenghi
Report a cura di Lorenzo Ottolenghi e Simone Vavalà
E’ con un certo orgoglio che vi raccontiamo la serata di Milano che ha visto protagonisti Behemoth, Carcass e Slayer, orgoglio dettato dal fatto che l’evento fosse presentato da Metalitalia.com. Il Market Sound si è rivelato essere particolarmente adatto alla serata, con le band chiamate ad esibirsi sul palco più grande dei due presenti nella struttura e varie aree dove potersi ritemprare tra i concerti, oltre ad un ulteriore spazio dove erano presenti vari stand. Tutto questo ha contribuito a creare la giusta atmosfera da open air estivo, grazie anche ad una temperatura non eccessivamente elevata. Anche il prato sintetico si è rivelato una buona soluzione (a differenza della ghiaia utilizzata davanti al palco più piccolo) e l’area piuttosto estesa ha evitato che si formasse calca o che risultasse difficile trovare un posto per assistere agli show. Tutto perfetto? Non esattamente: alcuni aspetti potrebbero essere ulteriormente migliorati. Da un punto di vista strettamente musicale, abbiamo trovato i volumi (specialmente per Behemoth e Carcass) troppo bassi e non sempre pulitissimi, mentre, dal lato organizzativo, possiamo dire che un unico punto dove poter prendere da mangiare è davvero troppo poco: si creano lunghe attese e non c’è grossa logica nelle code, col bancone preso d’assalto da tutti e tre i lati. Anche i prezzi non sono proprio ‘popolari’ (otto euro per un hamburger sono un po’ troppi, anche se non particolarmente distanti dalla media italica, decisamente alta rispetto ad altri paesi). A parte questo, però, restano le sensazioni di una serata di ottima musica metal, con tre grandissime band che ci hanno regalato performance all’altezza del loro nome e della loro fama. Performance di cui ora vi daremo conto, non prima di ringraziare tutte le persone accorse all’evento che hanno contribuito, con la loro presenza, alla riuscita della serata.
BEHEMOTH
Inferno, Orion e Seth prendono posto sul palco mentre la musica introduttiva annuncia l’epifania satanica che sta per scatenarsi. Pochi istanti dopo, ecco Nergal fare il suo ingresso con due fiaccole in mano, rivolgere la schiena al pubblico, posare le due fiamme a terra e dare inizio al rituale blasfemo a cui parteciperemo per poco meno di un’ora. Rispetto alla sfarzosità delle ultime date (il tour di “The Satanist” ed il Blasphemia Tour), il set sul palco è più essenziale, come se i Behemoth avessero voluto togliere una parte della loro teatralità e del loro impatto visivo (che resta, comunque, impressionante) e lasciare più spazio alla musica che riprende, in parte, la setlist del 2015, spaziando quindi tra i loro ultimi dischi. Orion e Seth sono due colonne (sia musicalmente che come presenza) e si alternano ai due lati del palco, mentre Nergal resta sempre al centro, celebrando il suo rito che inizia con “Blow Your Trumpets, Gabriel”, cresce con “Ora Pro Nobis Lucifer” e “Ov Fire And The Void”, esplode con “Slaves Shall Serve” e trova il suo epilogo maestoso con “O Father O Satan O Sun!”. La band polacca ci ha, negli ultimi anni, abituati a performance impeccabili ed anche questa volta non è da meno: Nergal interagisce col pubblico, rivelandosi un frontman eccezionale che arringa ed evoca tra gli astanti spiriti infernali, ma non cede mai troppo al ‘divismo’, restando sempre distaccato, così come Orion e Seth che sembrano – a tratti – statue blasfeme pronte ad animarsi per poi tornare alla loro immobilità gelida e crudele. Il pubblico, inizialmente poco numeroso, riempie l’area concerto in pochi minuti, attirato dall’aura cupa e misteriosa che i Behemoth riescono a ricreare ogni volta che suonano dal vivo, che sia un pomeriggio assolato, una gelida notte, un club o un open-air. Dalle prime file il sound sembra funzionare egregiamente, con forse la batteria di Inferno un po’ troppo alta e la chitarra di Nergal che, a tratti, si ‘impasta’ un po’ con quella di Seth; allontanandosi, invece, la chitarra del frontman tende a sparire e tutti i volumi risultano un po’ troppo bassi, penalizzando la violenza sonora dei Nostri. Quando il concerto sembra concludersi, con un rapido saluto del gruppo, sappiamo tutti che manca ancora l’apoteosi conclusiva, la già citata “O Father, O Satan, O Sun!” che, puntualmente, riparte con i Behemoth che ricompaiono sul palco con le loro maschere nere, munite di corna. Al termine non ci sono saluti, solo l’ormai consueto vuoto che i polacchi creano terminando la loro invocazione a Satana e abbandonando il palco. Intravediamo Inferno che – per ultimo – lascia lo stage e, come se l’incantamento fosse improvvisamente terminato, ci accorgiamo che il concerto è finito. Ancora una volta ci rendiamo conto di come i Behemoth, dal vivo, riescano a creare un’esperienza unica mentre vediamo alcuni, con passo lento, ricongiungersi ad amici e conoscenti, altri andare a cercare una birra ed altri ancora restare attoniti sul posto. La serata è appena iniziata e le premesse sono strepitose.
(Lorenzo Ottolenghi)
CARCASS
Se è possibile trovare un difetto nel concerto dei Carcass è solo nei volumi non all’altezza di una performance devastante ed esaltante. Certo, l’effetto novità e adrenalina può essere un po’ scemato a quasi dieci anni dalla reunion; certo, sul palco troviamo solo mezza formazione storica; e, se proprio volete trovare il pelo nell’uovo, la scaletta ha offerto relativamente pochi classici; ma la classe e la capacità di trascinare dell’accoppiata infernale Steer / Walker sono quasi uniche. Scanzonati ma chirurgici – ça va sans dire – sciorinano pezzi come “Buried Dreams” o “Incarnated Solvent Abuse” con maestria e la buona metà di setlist basata sul dignitoso comeback “Surgical Steel” non causa rimpianti, anzi. Steer sembra uscito pari pari pari dagli anni ’70, saltella nei suoi jeans a zampa e non sbaglia una nota, mentre Walker smentisce l’aspetto sempre più grezzo tenendo altissima la qualità della sezione ritmica. Assolutamente all’altezza i due comprimari Ben Ash e Daniel Wilding, che non fanno rimpiangere gli assoli di Amott e il metronomo umano Owen. Finale che regala lacrime e gioia con le ‘scontate’ ma sempre splendide “Corporal Jigsore Quandary” e “Heartwork”, che suggellano alla grande quello che, per chi vi scrive, è stato il miglior concerto del lotto.
(Simone Vavalà)
SLAYER
Le tenebre stanno ancora lentamente calando, ma già i fan scandiscono come da tradizione il mantra ‘SLAYER-SLAYER!’, che fa da vera, imprescindibile intro ai concerti dei Nostri da decenni. Non è sicuramente questa la sede per un (impietoso) paragone tra il glorioso passato di una band che rientra nel podio di qualunque metallaro e l’attuale stato degli Slayer, ed è quindi giusto sottolineare come la resa complessiva di questa sera sia comunque tra le migliori degli ultimi anni. Tom Araya, statico e bonario, non regala sorprese e si limita a introdurre i brani con formule ormai sentite e risentite; Kerry King si presta al solito headbanging furioso e lascia decisamente il grosso delle incombenze chitarristiche a Gary Holt, il cui impegno e capacità sono assolutamente ammirevoli, specie se si pensa di chi ha impietosamente dovuto prendere il posto. Resta sempre un grosso punto di domanda, almeno per chi vi scrive, sull’apporto di Paul Bostaph: batterista di buona tecnica e velocità, sembra sempre soffrire il paragone con Dave ‘sempre-sia-lodato’ Lombardo, ma sentire fill-in di batteria in passaggi ormai iconici (per esempio l’intro di “Raining Blood”) causa sempre il desiderio di gridare allo stupro. Passando alla dimensione musicale, la scaletta è divisa in tre eque parti: la prima concentra l’attenzione sull’ultimo “Repentless”, i cui brani suonano dal vivo piacevoli, sicuramente non epocali, ma paradossalmente più trascinanti di alcuni classici, in cui il rallentamento dei tempi è evidente. Nella parte centrale Araya e soci alternano canonicamente pezzi classici come “War Ensemble” a canzoni più recenti con un piccolo calo di piglio, ma poi riescono a gettare odio ed elettricità senza problemi nella sequenza finale, sicuramente da applausi: da “Seasons In The Abyss” all’attesissimo finale di “Angel Of Death”, pochi resistono a scapocciare e cantare pressoché per intero i brani più famosi della band californiana; e personalmente abbiamo avuto qualche brivido nel risentire “Black Magic”: epica, trascinante, e poco importa se il cuore malvagio e geniale del gruppo, Jeff Hanneman, compare solo sull’enorme banner in memoriam di fondo. Ecco, non sarà più nera, ma una magia gli Slayer la possiedono sempre: quella che permette loro di conquistare in ogni caso il pubblico, magari anche solo perché il senso critico sfuma un po’. Ma la coerenza assoluta e la capacità di convincere sempre e comunque non sono poi così comuni.
(Simone Vavalà)