Report a cura di Edoardo De Nardi
Fotografie di Michele Aldeghi
Arriva anche per l’Italia il momento di salutare un gruppo leggendario come gli Slayer in questo loro ultimo (?) tour mondiale, partecipando ad un evento che profuma di storico in molte sue parti. La scelta di band di supporto sostanziose e a loro modo iconiche, ognuna per il proprio sottogenere musicale, evidenzia l’intenzione di tirare fuori un concerto dalle grandi aspettative, giustamente ripagate dalle esibizioni di Obituary, Anthrax e Lamb Of God, prima che dagli stessi Slayer. Davanti ad un MediolanumForum pieno in ogni suo settore, si è svolto infatti un concentrato genuino e potente di varie sonorità metal, prima del gran finale affidato al massacro metodico dei californiani headliner. Diamo inizio alle danze!
OBITUARY
Trovarsi a far parte di una compagnia così ingombrante ed altisonante, significa per gli Obituary ricoprire il ruolo di opener dell’evento, situazione delicata affrontata dal canto loro col massimo sgarbo ed ignoranza possibile. Ormai una costante in sede live, i suoni dei floridiani sono uno schianto fin da subito, e non fanno che migliorare nel trascorrere della brevissima esecuzione prevista in scaletta, riversando sui primi presenti un concentrato death metal di pura e semplice violenza, apprezzata persino dai neofiti ed i meno avvezzi a sonorità realmente estreme. Visto la risicata quantità di canzoni in scaletta, si decide di andare sul sicuro, optando per una manciata di classici del passato da ognuno dei primi album ed un solo pezzo dall’ultimo disco in studio, riservando per il finale l’immortale “Slowly We Rot” ed il suo ritmo da headbanging sfrenato. Tutto funziona a dovere per i fratelli Tardy, che dimostrano di saper affermarsi anche in situazioni meno convenzionali per loro, come questa serata.
ANTHRAX
Iniziano a scaldarsi i motori, e niente può funzionare al caso come una bella scarica adrenalinica ad alto tasso di thrash metal americano come quella che si abbatterà sul Forum di lì a poco. Gli Anthrax irrompono sul palco sprigionando “Caught In A Mosh” dagli amplificatori, risvegliando anche nel pubblico meno recente ricordi di un passato anni ’80 in fondo ancora divertente, se portatore di una carica così gioviale ed energica ancora in questi giorni. Belladonna in primis, ma anche il resto della band, sa bene ormai come giostrare a dovere le giuste energie all’interno del suo show, e facilitata forse dalle strette tempistiche della serata, ne approfitta per scuotere il pubblico puntando tutto sul proprio impatto euforico ed anthemico. Per l’occasione, gli Anthrax ripescano alcune celebri cover registrate in passato, come “Got The Time” ed “Antisocial”, brani perfetti, grazie ai loro refrain, per essere cantati da tutti, prima di passare dalla più recente ed ambiziosa “Fight’em Till You Can’t” fino alla chiusura di “Indians”, marchio di fabbrica finale su cui si scatenano gli applausi di una platea particolarmente vicina a Ian e soci, che riserva all’altro membro del Big 4 un’accoglienza calorosa conquistata con il sudore dai newyorchesi.
LAMB OF GOD
Nonostante in diversi abbiano storto il naso davanti alla presenza dei Lamb Of God in veste di co-headliner, va reso merito alla band di aver realizzato un concerto di assoluta professionalità e vigore, incentrato su un mood grave e severo che ha posto i cinque americani in una luce in parte diversa rispetto a quanto ci si poteva aspettare. A ben vedere, molte delle sperimentazioni più catchy e melodiche presenti nei lavori meno datati vengono oggi relegate a meri riempitivi di uno spettacolo incentrato invece sui rimi martellanti e le sonorità granitiche di “Ashes Of The Wake”, l’album più suonato tra le canzoni della serata, ed i brani più oscuri composti in seguito, quale ad esempio “Blacken The Cursed Sun”, su cui hanno modo di stagliarsi con nitidezza la grande creatività solistica della chitarra di Mark Morton e le capacità orchestrali di tutta la band. Precisi ed impeccabili, i Lamb Of God finiscono forse per perdere un po’ di contatto con il pubblico sulla parte finale dello spettacolo, mancando di qualche brano davvero sorprendente che scuota dal freddo torpore thrash-core in cui siamo stati calati fin dalle prime battute, ma a conti fatti non si può che ritenere positivo il giudizio su una band che sta sapendo riattualizzare il suo materiale di un tempo secondo una vena più cruda e diretta per niente disprezzabile.
SLAYER
Gli Slayer non sono mai stati dei signori dell’intrattenimento, interessati a giochini e siparietti per attizzare l’interesse vacuo del pubblico; loro non hanno bisogno di questo perché gli Slayer, da sempre, incentrano le loro performance sulla musica, o come volete chiamare quegli stridenti incroci di assoli e ritmiche che indiavolano le chitarre, i ritmi forsennati e furiosi eseguiti dalla batteria e quella voce così disturbante, elementi tutti che costituiscono da quasi quarant’anni le coordinate inamovibili del loro nome. Escluso banner e lanciafiamme, i quattro musicisti scatenano l’Inferno in terra con la sola forza dei loro strumenti, cantori ormai leggendari degli oscuri desideri e poteri umani e demoniaci, testimoni in prima linea di cosa voglia dire conservare un’attitudine ciecamente becera e bestiale contro il tempo e contro tutti, ricevendo in cambio da essi solamente rispetto e splendore. Nell’ordine generale delle cose, risulta quasi fuori luogo attaccare la fiacchezza di una “Repentless” o di una “Hate Worldwide” qua e là, insistere ancora sulla presunta debolezza di brani in quest’occasione devastanti, quali “Disciple” e “Payback”, cercare di trovare una falla, insomma, nel panzer inossidabile di Tom Araya e Kerry King: una degna celebrazione del passato riguarda tutti i periodi affrontati dalla band, passando dai mefistofelici fasti degli esordi di “Chemical Warfare”, “Black Magic” ed “Hell Awaits”, ai feroci sviluppi di “Postmortem” ed “Angel Of Death”, e poi in ordine sparso citando “South Of Heaven” con “Mandatory Suicide” e con ben quattro estratti da “Seasons In The Abyss”: ogni riff, stacco ed acuto rappresentano un omaggio alla Storia intera del genere che rappresentano e dell’heavy metal tutto, decidendo per l’occasione di sfoderare la prestazione più esuberante e strafottente possibile. Gary Holt fa spettacolo a sé passando da una parte all’altra dello stage, mentre lo stile scultoreo e impassibile di King viene mantenuto fino alla fine, senza nemmeno una parola di saluto per un pubblico che dopo quasi due ore di musica acclama i suoi beniamini come appena arrivati: ci pensa Tom Araya allora, che con dei lunghi, intensi sguardi di gratitudine e commozione, sembra voler ringraziare ogni persona, presente e non, che ha reso immortale il nome degli Slayer in tutti questi anni. Passione e dedizione hanno creato un tassello fondamentale nella storia della musica, e queste stesse caratteristiche hanno reso imperdibile e magico lo spettacolo di Assago, unicum di una serie destinata a scomparire. Forse.