Report a cura di Andrea Intacchi
Fotografie di Francesco Castaldo
La calata degli Slayer nel nostro paese è ormai divenuta, soprattutto negli ultimi anni, un appuntamento fisso. Questa volta, in quel dell’Alcatraz, non vi era alcun album da promuovere, non vi erano album da celebrare, non vi erano ricorrenze da festeggiare ma, solo ed esclusivamente, la voglia di ricordare, a chi magari se l’era scordato, chi sono gli Slayer. Invecchiati sì, inutile negarlo: Jeff sta sparando i suoi riff altrove, difficile da digerire ma purtroppo è così; Dave non siede più dietro le pelli, al suo posto c’è Paul; ma vi garantiamo che quello di giovedì 8 giugno è stato un live davvero micidiale: granitici, malvagi, semplicemente Slayer. Accompagnati da volumi altissimi, anche troppo, Tom Araya e compagni hanno dato vita ad un vero e proprio massacro professionale. Un muro sonoro che dal canto suo non ha ricevuto i meritati consensi dato che la location meneghina era tutto fuorchè piena; poco importa, chi c’era ha portato a casa, oltre ad un sibilo ininterotto nei padiglioni auricolari ed un mal di collo d’annata, un live di tutto rispetto. Merito anche dei Sadist che, pur avendo avuto un breve spazio a disposizione, hanno aperto la serata con uno show coinvolgente e lineare. Di seguito quanto è avvenuto nel corso ‘dell’altissima’ e sudatissima serata in località Alcatraz. Buona lettura!
SADIST
In attesa di ascoltarlo dopo l’estate, quando ne sapremo di più sul suo progetto tutto hard-rock, riecco Trevor ed i suoi Sadist per quello che è stato un degno ‘benvenuto’ ai signori del Male. Quaranta minuti di ottimo death progressivo per sottolineare ancora una volta, e lo urlerà alla folla lo stesso singer ligure, che il metal è tutto fuorché morto. Se sullo sfondo campeggia la cover di “Hyaena”, ultima loro fatica targata 2015, sono le note di “Den Siste Kamp” dall’album “Tribe” ad aprire le danze. L’impatto è immediato: da una parte il composto Marchini detta le regole ritmiche insieme al drummer Spallarossa, dall’altra il tuttofare Talamanca sorprende ogni volta per la facilità con cui passa dalla tastiera alla chitarra come fosse un gioco da ragazzini; al centro il possente Trevor, fin troppo statico nel corso dei primi due brani, ma già carico di energia. I suoni, perfetti (e non è un dato scontato quando si parla di una band d’apertura), testimoniano ulteriormente la qualità del gruppo tricolore, che con “Perversion, Lust, Orgasm” pigia il piede sull’acceleratore scaldando un pubblico ormai su di giri. Trevor ringrazia tutti coloro che sono accorsi alla serata e, dopo “Scavenger And Thief”, li richiama all’ordine ricordando cosa sarebbe accaduto di lì a breve; quindi, manda letteralmente a farsi fottere tutti quelli che ‘vogliono male al metal’. Il finale porta con sé due classici della discografia della band ligure: “One Thousand Memories” e la mitica “Sometimes They Come Back”, non prima di aver lanciato tra le mura dell’Alcatraz il monito simbolo dei Sadist ‘Italia, in alto il nostro saluto!!!’. La porta per gli abissi è stata definitivamente aperta; ora, con calma, possiamo scendere.
Setlist:
Den Siste Kamp
The Reign Of Asmot
Perversion, Lust, Orgasm
Scavenger And Thief
One Thousand Memories
Sometimes They Come Back
SLAYER
Avremmo voluto essere nella testa, o anche solo negli occhi, di quel bambino che si è visto tutto lo show degli Slayer sulle spalle del proprio papone. Là, nelle prime file: se guardava dritto per dritto incrociava il volto di Kerry King, se volgeva lo sguardo alla sua sinistra s’imbatteva nel massacro collettivo. ‘Ah ecco, ora ho inteso perchè si chiamano Slayer…’. Sapere esattamente quali sono stati i suoi pensieri sarà difficile, ma sicuramente quel bambino avrà lasciato l’Alcatraz con la convinzione che quei quattro americani sanno il fatto loro; nonostante l’età, nonostante tutto. Che sarebbe stato un concerto fisicamente impegnativo lo si era già intuito nelle fasi di attesa: mentre le casse sparavano i più grandi successi degli AC/DC, un piccolo focolaio di pogo scoppiava al centro del parterre così, tanto per gradire. Tutto ciò prima che le luci si spegnessero dando il via all’intro ormai collaudata di “Delusions Of Saviour”, apripista di “Repentless”, title track dell’ultimo (definitivo?) album rilasciato dalla band californiana. Quando anche Araya prende posizione al centro del palco, iniziando a sparare sulla folla le maligne note che tutti conoscono, una fionda umana prende subito forma, scatenando un moshpit infernale. Da qualche anno la curiosità sullo stato delle corde vocali del singer di origini cilene è cosa nota, ed allora il primo brano proposto durante i live viene ormai visto come una sorta di esame orale per capire come sta il nostro Tom. Fidatevi: dopo un periodo durante il quale sembrava non ne avesse più, Araya, sempre più addobbato come un cattivissimo ‘uomo delle nevi’, ha mostrato di nuovo quella sua voce terribilmente ‘evil’, sia nelle parti più basse sia, soprattutto, negli scream lancinanti che lo hanno reso famoso. Tornando allo show, la setlist non si è discostata molto da quelle proposte ultimamente, tuttavia c’è da registrare il gradito ritorno in scaletta di alcuni pezzi che mancavano all’appello da parecchio tempo, come nel caso di “Necrophiliac”. E dopo che anche una fulminea “Hallowed Point” viene riversata sulla folla, il singer bassista concede una leggera pausa ai fan ringraziando tutti con il più classico dei ‘ciao’, chiedendo poi al pubblico se è veramente pronto per il prossimo brano. Ed è in quel momento che da qualche fila più dietro una voce si alza dal delirio: ‘Il sangue, vogliamo il sangue’. Bene, ci mancava solo il sangue e allora vai di “War Ensemble”. Si parlava di volumi in sede di presentazione dell’evento: ora, se nel corso della prima parte dello show, l’asticella era alta, in quella centrale il livello è stato superato ampiamente, tanto che in alcuni brani una sorta di ‘impastamento’ generale ha preso il sopravvento sulla sonorità della singola strumentazione presente sul palco; volume che è tornato più accessibile ai timpani già massacrati nelle fasi finali del live. Una stonatura che non ha sminuito un’ottima prestazione generale e ricca di conferme. Gary Holt è ormai parte integrante degli Slayer; “Dead Skin Mask” è a tutti gli effetti un trade-mark della band americana, immancabile; “Seasons In The Abyss” sbaraglia la concorrenza con ben sei pezzi sparati sulla folla, dimostrandosi, forse, il ‘vero’ album a firma Slayer. Nel frattempo la discesa agli inferi continua imperterrita, anche perchè stasera il nostro Araya non è un fiume di parole. E così, dopo una violentissima “Born Of Fire”, arrivano le hit che tutti si attendono o comunque conoscono. Apre il lotto la perfida “South Of Heaven”, a seguire la sanguinolenta “Raining Blood”, quindi la spaccacollo per eccellenza “Chemical Warfare” e infine, a chiudere, dopo un lungo respiro generale, la sola ed unica “Angel Of Death”. Poi è la fine. La fine del nostro udito, sostituito da un fischio incalcolabile; la fine di una serata tosta, energica, ‘violenta’, soprattutto tra le prime file. E quando le porte dell’Alcatraz si riaprono e la fiumana di gente (non moltissima, ripetiamo) inizia a prendere la via di casa per una bella doccia, è curioso notare come tra gli ultimi ad uscire, insieme ai ragazzotti reduci dalla ‘guerra’ in zona transenna, vi sia una coppia di signori non più giovani che, a braccetto, raggiungono in tutta tranquillità l’esterno del locale. Quasi uscissero da un cinema al termine di un film: un bellissimo thriller dalle tinte horror in cui era impossibile stare incollati alla sedia. Ancora una volta Slayer, ancora una volta uno show ‘no mercy’!
Setlist:
Repentless
The Antichrist
Disciple
Postmortem
Hallowed Point
War Ensemble
When The Stillness Comes
You Against You
Mandatory Suicide
Necrophiliac
Dead Skin Mask
Spirit In Black
Captor Of Sin
Seasons In The Abyss
Born Of Fire
South Of Heaven
Raining Blood
Chemical Warfare
Angel Of Death