02/02/2016 - SLIPKNOT @ Gran Teatro Geox - Padova

Pubblicato il 06/02/2016 da

A cura di Chiara Franchi
Fotografie di Enrico Dal Boni

A un anno esatto dalla performance milanese, gli Slipknot tornano in Italia con una sola data al Gran Teatro Geox di Padova. O Padóva, per dirla come Corey Taylor, che delle sette parole di italiano che mastica sa accentare correttamente solo le bestemmie. Orfani di gruppo-spalla (purtroppo per i non pochi convenuti con la felpa dei Suicidal Tendencies) e incorniciati da una scenografia molto più modesta rispetto al Prepare For Hell Tour, i nove signori mascherati hanno comunque fatto la loro porca, seppure a tratti parca, figura. Già, perché se guardiamo il pacchetto nel suo insieme, potremmo dirvi che è stata una figata e chiudere qui il report. Se invece vogliamo andare a cercare il pelo nell’uovo, ci sono stati dei dettagli che ci hanno lasciato un po’ col punto di domanda – per quanto non compromettenti l’esito complessivamente molto positivo dello show. Bando alle ciance, dunque: tuffiamoci tra i quasi cinquemila spettatori e andiamo a vedere com’è andata la serata. “You’re fuckin’ belisssssimi!”…

 

Suicidal Tendencies - Slipknot European Tour - 2016

 

SLIPKNOT

Al di là della bonaria pacca sulla spalla ai fan dei Suicidal Tendencies, dobbiamo ammettere che si è un po’ sentita la mancanza di un opening act. Non che il concerto degli Slipknot non sia stato appagante, ma prima della serratissima ora e quaranta degli ormai ex ragazzi dell’Iowa un piccolo appetizer ci sarebbe stato bene. Vogliamo dire: per quanto potente, è stata pur sempre un’ora e quaranta. Detto questo, facciamo partire le danze. L’apertura del sipario rivela le rampe e le lucette di ispirazione circense che faranno da sfondo alla performance. Niente fuochi, niente capoccioni diabolici, solo l’ossatura del palco già visto l’anno scorso. Sul grande schermo al led scorre un video che fa vagamente Biennale di Venezia, con dei manichini che bruciano nella neve mentre in sottofondo aleggiano le note dell’intro di “.5: The Grey Chapter”. Tempo un paio di minuti e i manichini sono sostituiti da un inquietante rituale simil-satanico, con tanto di caprone, sangue e ragazza zombie. I nove salgono sul palco e parte subito la prima raffica: “The Negative One”, “Disasterpiece” e “Eyeless”. Così, senza anestesia. Dire che è un’apertura che spacca è poco. Eppure, proprio su questa autentica fucilata introduttiva emerge il grande punto critico della serata. Calibrare i suoni live per una band di nove elementi con una line-up fuori dagli schemi (per non dire assurda) come quella degli Slipknot è cosa da far penare il migliore dei fonici e, purtroppo, si sente. La cassa si mangia qualsiasi cosa, la voce ha volumi bassissimi, chitarre e basso sono un impasto indecifrabile, quanto a #0 e  #5… semplicemente non pervenuti. La situazione troverà un suo equilibrio nel corso della serata, ma in generale non possiamo dire che la qualità sonora sia stata ineccepibile. Chiudiamo un occhio 1) perché comunque le percussioni sparatissime hanno avuto il loro pro e 2) perché la melma di corde ha sicuramente camuffato qualche imprecisione. Per farla breve: non si è sentito benissimo, ma va bene così. Dopo il grandioso benvenuto, gli uomini mascherati ci lasciano un attimo di respiro. Giusto un attimo, perché tra una blasfemia in italiano e un “fuckin’ questo, fuckin’ quello” arrivano “Skeptic” e “I Am Hated”, accompagnate da efficaci scorci su interiora animali. Pur avendone sentiti solo un paio, ci sentiamo già di dire che i pezzi del nuovo – per modo di dire –  album superano a pieni voti la prova della resa live. Impressione subito confermata da ”Killpop”, forse il brano più melodico di  “.5: The Grey Chapter”. La tensione cala tra luci viola e fiori di pesco, che ci accompagnano anche sulla cantabile “Dead Memories”. Questo momento di semi-quiete ci permette di fare alcune riflessioni. Innanzitutto sui nuovi arrivati: se il bassista Alessandro Venturella, pur penalizzato dai suoni, fa il suo con discrezione, Jay Weinberg è il protagonista indiscusso della serata. La sua bravura è tale da non far rimpiangere la ben più esuberante presenza scenica di Joey Jordison e da polverizzare qualsiasi sentenza sia stata sputata dopo l’uscita di scena del batterista conosciuto come #1. Un altro spunto ci viene offerto dalla performance coreografica di Sid “#0” Wilson, ovvero l’uomo dietro i turntables. A costo di fare una clamorosa figuraccia, metteremo nero su bianco quello che avremmo sempre voluto sapere ma non abbiamo mai osato chiedere, ossia: ma i synth e i turntables, negli ultimi Slipknot,  a cosa servono? Si sentono davvero? E quei due sulle pedane quanto suonano in cento minuti di show? Se qualche supermaggot vuole risponderci – o insultarci – accettiamo volentieri. Ma torniamo alle cose serie, ovvero al 15° anniversario di “Iowa”, celebrato in grande stile con la sempre ottima “Everything Ends”. Segue a raffica la trascinante “Psychosocial”, e proprio quando pensi che il delirio al Teatro Geox abbia raggiunto l’apice, ecco che Corey Taylor annuncia “Wait & Bleed” e…tutto si sgasa. Già, perché per motivi inspiegabili la hit forse più hit degli Slipknot è il pezzo più spompo della setlist, complice la scelta infelice di svuotarlo delle percussioni di Shawn “#6” Crahan e Chris “#3” Fehn. Per fortuna i due tornano attivi, con tanto di mazze da baseball, sulla cantatissima “Duality”. Dopo aver sentito dei breakdown francamente impastati, le chitarre tornano limpide in “The Devil In I”, accolta dal pubblico con grande entusiasmo. I nove ci regalano poi una piccola chicca, ovvero “Metabolic”: tratta da “Iowa” e mai suonata prima in Italia, è un pezzo che avrà sicuramente fatto felici i fan di vecchia data. La setlist ufficiale finisce dove gli Slipknot sono iniziati, ovvero con “(sic)”. Un intermezzo in linea con l’atmosfera da circo ci prepara all’encore, che si apre con “Surfacing”. Possiamo asserirlo con certezza: fate un ritornello che dica “Fuck it all/Fuck this world/Fuck everything that you stand for” e i vostri fan lo sbraiteranno felici sventolando il medio da qui all’eternità. A questo punto, una ragazza dai capelli turchini sviene alle nostre spalle. Sentiamo gli Slipknot suonare “Left Behind”, ma siamo più preoccupati di accertarci che la ragazza in questione stia bene. Per fortuna, la svenuta si rialza in tempo per il gran finale, affidato a “Spit It Out”. Scelta che noi non abbiamo del tutto apprezzato ma che senz’altro avrà accontentato più di qualcuno. Tirando le somme: se non siete mai stati ad un concerto degli Slipknot, che vi piacciano o meno, mettete in conto di farlo almeno una volta nella vita. Difficilmente vi annoierete e avrete visto un gruppo che, nel bene o nel male, lascerà un segno nel metal di fine/inizio millennio. Sono diventati una band di plastica? Lo sono sempre stati? Potremmo star qui a discuterne all’infinito. La verità è che dopo un loro show si va a dormire contenti. Ci sono dei “ma”? Certo che ci sono. “Ma”, tutto sommato, chissenefrega.

 

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