ONE-WAY MIRROR
Sono le 20 in punto quando, di fronte ad uno sparuto manipolo di fan infreddoliti, prendono posto sul palco gli One Way Mirror, side-project all’esordio su Metal Blade nelle cui fila militano il cantante dei Mnemic Guillaume Bideau e il batterista dei Soilwork stessi, quel Dirk Verbeuren stasera sottoposto ad un doppio turno di lavoro. E proprio gli ultimi Mnemic, in versione ancor più edulcorata, rappresentano l’ideale termine di paragone per descrivere la proposta dei nostri: spazio dunque ad un nu-metal iper-compresso ed estremamente carico di groove, ideale per saltare e scaldare le membra intirizzite dal gelo del locale. Sembrano pensarla così anche i cinque sul palco, che, per nulla intimoriti dalla scarsa affluenza, danno vita ad uno show improntato alla fisicità (il singer soprattutto si dimena come nemmeno il Fred Durst dei tempi d’oro) ed all’umorismo, alternando bordate del calibro di “Destination Device” e “Danger Calling” a siparietti comici divertenti più che altro per le reazioni dei musicisti sul palco. In questa atmosfera surreale si tira un attimo il fiato con la più emozionale “Empty Species”, prima che la band cali il suo asso nella manica, ovvero la celeberrima cover di “Relax” dei Frankie Goes To Hollywood, già sentita e risentita in tutte le salse (imperdibile la versione dei Power 5000 per la soundtrack dell’altrettanto imprescindibile “Zoolander” di Ben Stiller) ma sempre efficace. Conquistato definitivamente il favore degli astanti, i nostri alzano il tiro con “Deprived Connection” (e qui il fantasma di David Draiman aleggia nell’aria) e con la più aggressiva “21st Century”, degna chiusura di uno show tecnicamente non ineccepibile ma sicuramente divertente. Una band da tenere d’occhio per gli amanti del genere, sperando che i numerosi impegni dei nostri con le band madri consentano loro di dare un seguito all’omonimo debut album.
SOILWORK
Terminata la canonica mezz’ora di cambio palco (eseguita a tempo di record da un solo roadie “tuttofare”: a quanto pare in tempi di crisi si risparmia anche sulla crew) e dato tempo agli ultimi ritardatari di prendere posto in sala, tocca finalmente agli headliner calcare il palco del Rolling Stone. La visione prospettasi ai loro occhi non dev’essere stata delle più idilliache (in totale ci saranno state 5-6 file piene), così come chi invece tra il pubblico ricordava ancora i recenti fasti scenografici offerti dai cugini In Flames e Dark Tranquillity sarà rimasto deluso dall’allestimento di questa sera (un semplice telo e qualche scatola vuota), ma sono sufficienti i primi secondi dell’iniziale “Sworn To A Great Divide” per fugare ogni dubbio sulla tenuta di palco del sestetto svedese e scatenare la bolgia tra le prime (nonchè ultime) file. Forti di un ritrovato Peter Wichers e di un Ola Flink incontenibile nelle sue funamboliche piroette, i nostri hanno sopperito egregiamente alla mancanza di effetti speciali dando vita ad uno show incentrato sulla fisicità e su una scaletta ben bilanciata tra materiale vecchio e nuovo – sette sono state le composizioni tratte dai primi lavori della band, in sostanziale parità rispetto agli estratti degli ultimi tre dischi – segno di come, almeno dal vivo, Speed e soci non abbiano messo da parte l’aggressività e l’ispirazione degli esordi. Spazio dunque ad autentiche mazzate del calibro di “Bastard Chain” e “Needlefast”, mentre dall’insuperabile “Natural Born Chaos” vengono ripescate, oltre alle immancabili “As We Speak” e “Follow The Hollow”, anche le altrettanto ottime “The Bringer” e “Black Star Deceiver”, per poi chiudere in bellezza con la terremotante “Chainheart Machine”, sulle cui note si scatena l’inferno (seppur in miniatura) sotto il palco. Davvero un peccato che simili capolavori siano stati appannaggio di così pochi, ma d’altronde è altresì vero che il resto del materiale non poteva certo dirsi all’altezza di cotanta grazia: tra le composizioni più recenti hanno comunque ben figurato gli estratti dall’ottimo “Stabbing The Drama” (tra cui una sempre sentita “Nerve” posta in chiusura), così come le più ruffiane “Exile” e “20 More Miles” hanno dato modo agli astanti – e ad un sempre più imbolsito Strid – di tirare il fiato tra una mazzata e l’altra. Insomma, se è pur vero che ha le loro ultime uscite discografiche presentano un paio di passi falsi non indifferenti, almeno in sede live i Soilwork dimostrano di aver appreso dai propri errori e hanno dato conferma di aver ancora qualcosa da dire (e da dare) al loro pubblico: un buon concerto dunque, peccato solo per chi non c’era.