Report a cura di Giovanni Mascherpa
Sono passati poco più di tre anni dalla precedente annunciazione live dei Deafheaven su suolo italiano. Stesso palco, periodo simile – era il 2 giugno del 2014 – attesa magari non così alta come la volta scorsa, quando i californiani arrivavano dal successo di “Sunbather”. In quest’occasione i profeti del blackgaze sono accompagnati da loro brillanti discepoli, i conterranei Ghost Bath, e una portentosa macchina da guerra come i Trap Them, fra i migliori esponenti del d-beat incrociato a death metal, black metal e grindcore. Nella cornice del Solomacello Fest, quest’anno ridotto a una sola giornata a causa di alcune defezioni che hanno tolto qualche freccia all’arco degli organizzatori, va in scena un piccolo festival comprendente anche gli italiani Calvario e La Fin, aggiunti per ultimi in seguito alla cancellazione del tour europeo da parte dei Crippled Black Phoenix. L’affluenza non è esattamente oceanica, davanti allo stage di dimensioni più ridotte del Magnolia non vi sono certo problemi di spazio; l’abbondanza di eventi in questo periodo pesa, oltre a una proposta – quella degli headliner – che, nonostante abbia sfondato anche in contesti non-metal all’estero, nel nostro paese resta pur sempre di nicchia. Non facciamo in tempo a gustarci le mazzate dei Calvario, mentre siamo puntuali per l’avvio dei lavori da parte dei La Fin. Con loro il nostro Solomacello Fest ha inizio.
LA FIN
Non è difficile imbattersi in una realtà come i La Fin di questi tempi. I ragazzi milanesi ne sono i tipici figli, cresciuti a Neurosis, Isis, hardcore evoluto e black metal. Quindi sì, rientriamo pienamente nell’alveo ingrossato a dismisura del post-metal, affrontato con cipiglio maligno e una dose di malanimo di tutto rispetto. Ben tre chitarre erigono un muro di suono asfittico, che intrappola la luce e mescola aggrovigliamenti e distensioni durante cicli piuttosto regolari, in cui non mancano comunque escursioni verso mondi eterei, oppure aperture ferali di tremenda ferocia. Siamo dalle parti dello sludge-black metal di scuola tedesca, ovvero quello di Downfall Of Gaia, Der Weg Einer Freiheit, Cranial e Phantom Winter, con qualche piacevole rimando melodico ai Light Bearer. I suoni un po’ impastati non frenano la carica della band, apparsa ancora molto controllata nello stage-acting e non ancora del tutto libera da imposizioni sul fronte del songwriting: anche l’uso delle voci non denota sempre equilibrio, ve ne sono ben tre a intervallarsi o risuonare assieme, e non è detto che ve ne sia sempre la necessità. Dettagli, se vogliamo, perché l’esibizione in sé funziona, anche se lo slancio e la scioltezza dei gruppi sopra menzionati per ora non si manifestano. Gli estratti del primo ep “Empire Of Nothing”, edito nel 2016, non ci dispiacciono affatto, ci appaiono come una buona base per testare un’evoluzione più personale da qua in avanti.
GHOST BATH
Eccoli finalmente in carne ed ossa, i finti cinesi che un bel giorno si scoprì essere statunitensi del Nord Dakota. La firma per Nuclear Blast ha fatto definitivamente uscire i Ghost Bath dal cono d’ombra, portandoli all’attenzione globale dopo un paio di ottimi colpi assestati con “Funeral” e il destabilizzante “Moonlover”. Il furoreggiare di contrasti stridenti fra arie azzurrine e spigolosità black metal ha già guadagnato alla band strali d’odio da più fronti, pari almeno alle grida di giubilo di chi vede in loro dei prosecutori del discorso intrapreso dai Deafheaven, a cui gli autori dell’ultimo “Starmourner” si riallacciano saldamente. Chiamati a dare sostanza dal vivo alle contrastanti emozioni suscitate su disco, i cinque non ci mettono molto a far valere le proprie credenziali. A parte un trucco attorno agli occhi così approssimativo da farlo sembrare l’ennesima provocazione verso il pubblico metal più oltranzista, nulla mette in discredito l’operato dei musicisti. Incostanti flussi di suoni dolciastri, irregolari e illogici nel cavalcare ora il pop, ora lo shoegaze, ora il black metal, vengono filtrati dal latrato acidissimo del singer, un urlo sgraziato che va in direzione opposta della musica e ne rappresenta la sua immagine speculare e contorta. Il dibattersi aleatorio dei pezzi, tendenti a sfuggire dalle mani dei loro stessi autori per vivere di vita propria in un mondo onirico privo di confini e insensatamente colorato, viene dominato con mano sicura, le tre chitarre si trainano a vicenda nel dipingere idealmente arcobaleni brillanti, cocktail di colori accesi che compaiono e scompaiono nella nostra mente a ritmi frenetici. Le sensazioni di slegamento ed eccessiva diluizione colte nelle versioni in studio di “Ambrosial” e “Seraphic” vanno in soffitta quando ascoltiamo gli stessi componimenti dal vivo; nell’occasione guadagnano in pesantezza e sostanza, mantenendo inalterato lo sfoggio di armonie zuccherine in costante mutamento e sviluppo. La compattezza venuta un po’ meno nell’ultimo full-length è il dato più rilevante dell’intera performance, che tiene assieme stili diversissimi con pugno di ferro rivestito di guanto di velluto (rosa), fino all’attesa apoteosi di “Golden Number”, il pezzo più trascinante partorito dai Ghost Bath nella loro breve storia. Veniamo omaggiati di una sua versione fedele e arrembante, attraversata da un fermento genuino, una vitalità che fa assaporare al meglio il magico sbocciare di melodie, una più candida dell’altra, elargite progressivamente dalla canzone. Un primo esame-live superato a pieni voti.
TRAP THEM
Il quasi dolce sospirare dei Ghost Bath viene polverizzato dai Trap Them. I sogni si accomiatano, gli incubi prendono sopravvento. Quasi un carezzar di seta appare quello che abbiamo appena sentito, al confronto delle sprangate e scudisciate tenuteci in serbo da Ryan McKenney e compagni. La sera pare essere arrivata più in fretta del previsto, apposta per dare una cornice adatta al temibile oltranzismo di una formazione che in concerto, come su disco, si muove come un tornado. “Crown Feral” ha ribadito il prolungato stato di grazia di un gruppo divenuto simbolo di un certo modo d’intendere il metal estremo, tutto cuore, esaltazione, istinto e lucida determinazione. McKenney dà la costante sensazione di poter creare a sé e al prossimo danni irreparabili, si mette spesso il microfono in bocca, rimane immobile, ondeggia, come a riflettere su quale nuova pazzia possa mettere in atto. Si compiace del contatto con le prime file, cui si dona volentieri, aizzando animi già abbondantemente su di giri. Infatti, coi Trap Them è quasi impossibile che non parta un minimo di mosh, anche se gli spostamenti rimangono contenuti si respira un’atmosfera elettrica, di beato caos. Che si concentri su materiale convulso e conciso, oppure opti per ritmiche rallentate e chitarre oleose, la band trasmette una tensione costante, un disagio impellente; nel fare questo, non perde la ragione e non trascende nel bieco rumorismo, alternando con sapienza tempi e mood, non cedendo il passo nemmeno sul fronte della varietà. Così il tempo disponibile se ne va fin troppo velocemente, lasciandoci ancora addosso un’insana voglia di averne ancora, degli sfregi dei Trap Them.
DEAFHEAVEN
Tre anni fa avevano sbalordito proponendo “Sunbather” nella sua interezza. Questa volta siamo alle prese con un concerto ben diverso, che segue dappresso le evoluzioni manifestatesi nell’ultimo full-length “New Bermuda”. Il suono screpolato e sognante di cui sono diventati i principali fautori, dando avvio a una corrente tra le più inflazionate, ha subito un processo di ricombinazione notevole, mentre chi è arrivato più tardi si trova spesso intrappolato in clichè e usi sorpassati da George Clarke e compagni. “Brought To The Water” apre il concerto dando l’impressione di una band inconfondibile nei suo tratti somatici principali, ma che ostenta pure un camaleontismo prima soffuso. Le soluzioni ritmiche e il riffing prendono tuttora grande slancio, però contemplano incisi e deviazioni un tempo marginali, scavando all’interno dei brani nicchie in cui il suono si scompagina e si libera nella pura astrazione. Il ventaglio espressivo si è ampliato, tenendo in molti casi un piede nell’estremismo solo grazie alle consuete vocals al vetriolo del frontman. Le pose in cui si compiace di stare, le mimiche enfatiche che non si capisce a cosa possano riferirsi o evocare, possiedono un fascino ambiguo e agglomerano buona parte delle attenzioni. Del resto, chi ha uno strumento in mano si limita all’essenziale, suona senza esprimere granché sul volto o dimenandosi in accordo alla musica. Emerge la foga del batterista Daniel Tracy, un concentrato di potenza e precisione ora in vista non solo per la velocità d’esecuzione, come poteva accadere ai tempi di “Sunbather”, ma anche per tutta una serie di originali pattern che impreziosiscono le canzoni anche nei momenti più dilatati. L’avvincente dipanarsi di una “Baby Blue” o di una “Come Back” arricchiscono di una dimensione nuova la rappresentazione scenica dei Deafheaven, bravi a non snaturarsi pur rimpinguando il proprio bagaglio espressivo di orpelli e movimenti più strettamente metal. Non hanno comunque perso presa né fascino gli estratti dal disco più importante nella carriera dei californiani, che tengono in serbo proprio per il finale “Dream House” e “Sunbather”, accolte con un rumoreggiare superiore a ciò che le ha precedute. L’esecuzione non mortifica tanto entusiasmo, i Deafheaven sanno ricreare perfettamente su di un palco le atmosfere toccanti dei dischi, suscitando una partecipazione concentrata e inglobando la platea in un senso di irreale incanto. Si può legittimamente discutere, come per chiunque, sulla validità della proposta artistica, molto più difficile mettere in dubbio il valore delle esibizioni dal vivo. Ancora una volta, promossi con lode.