17/06/2010 - SONISPHERE FESTIVAL 2010 – Jonschwil @ Jonschwil Sg - Jonschwil (Svizzera)

Pubblicato il 21/06/2010 da

A cura di Maurizio MorrizZBorghi

 

 

 

 

Accolto come manna dal cielo da una miriade di metalhead nostrani l’edizione Svizzera del Sonisphere Festival, grazie ad una line up da urlo, è stata da subito incensata come uno dei più grandi ed imperdibili eventi dell’estate 2010. Sulla carta, potenzialmente, i numeri c’erano tutti: oltre alla storica esibizione dei Big Four le band che completavano il pacchetto erano da urlo, e anche se compresse in un’unica massacrante giornata la soluzione doppio stage garantiva la totale assenza di accavallamenti. La realtà sotto gli occhi degli accorsi, sfortunatamente, è stata delle peggiori. Il Sonisphere Svizzero è stato, a parere di chi scrive, il peggior disastro organizzativo che la memoria può evocare. Tentiamo di andare con ordine: all’arrivo, in prima mattinata, la segnaletica indica agli accorsi dei parcheggi significativamente lontani dall’area festival, ricavati nei possedimenti terrieri dei contadini del luogo (tramite le fattorie dei quali si aveva l’accesso), e dal costo poco popolare (20 Chf per un automobile). Dopo il parcheggio il viaggio verso l’arena, sotto una fredda e fastidiosa pioggia, è facilmente paragonabile a una gita nella Terra Di Mezzo, con un sentiero di fango che mostra l’unica strada percorribile. Arrivati in zona arena la sorpresa è delle peggiori: dall’alto si può osservare come l’area concerti sia completamente marrone. Solo qualche ciuffo d’erba, alle 10 a.m., è calpestabile senza invischiarsi in svariati centimetri di terra viscosa. Anche la coda per raggiungere la barriera di entrata è fatta di fango, la cui altezza aumenta in maniera preoccupante ogni passo. La speranza è l’ultima a morire, ed è grazie alla speranza che si attraversa il campeggio (o presunto tale, le tende erano piantate senza ragione anche nell’area concerti, in mezzo alla melma) per raggiungere la zona di fronte al palco e fronteggiare l’amara verità: il fango ricopre il 90% della superficie calpestabile dell’area concerti, ed è alto minimo 10 cm, arrivando in alcune zone fin sopra le caviglie dei presenti. Di diversa consistenza e liquidità, il protagonista assoluto del festival ha invaso anche i tendoni dove vengono serviti cibo e birra, tanto che l’unico posto dove sperare di potersi sedere sono la ventina di panche alloggiate davanti ad uno degli stand del cibo, perennemente occupate sin dal mattino. Venendo alla disposizione logistica, la scelta è discutibile anche per disposizione dei palchi, ma soprattutto per la scelta di piazzare tre giganti torri del mixer molto vicine ai palchi stessi, ostacolo visivo che la maggior parte delle persone sarà impossibilitata a superare. Avvicinandoci ci si accorge che la zona dallo stage alle torri del mixer è inaspettatamente recintata (!!!) con reti metalliche e transenne che impediscono l’accesso al pit. Provando ad entrare, essendo la zona quasi del tutto vuota, l’ingresso ci viene inspiegabilmente negato, senza motivazione alcuna. Girando per l’arena inoltre ci si stupisce dei prezzi decisamente impopolari per cibo e bevande, delle code immense per il recupero delle stesse e dell’abitudine di chiedere 2 franchi di supplemento ad ogni consumazione, una cauzione per bicchiere/vaschetta che sarebbe anche accettabile, se la restituzione non implicasse un’ulteriore, snervante coda. Avventurandosi nella tenda del merchandise ufficiale si incorre in un’altra simpatica sorpresa: il tasso di cambio, che negli stand dedicati a cibo e bevande era accettabile, diventa 1Chf per 1€, facendo schizzare il prezzo di una maglietta dei Metallica a 40 euro (lasciamo a voi i commenti). Chi ha avuto la forza di rimanere fino alla fine ha dovuto lottare, come chi scrive, per rimettersi sulla strada del paese: il prato infatti dopo ore di pioggia incessante è diventato in fretta fangoso, e moltissimi sono stati costretti a richiedere l’aiuto di un trattore per liberarsi dalle sabbie mobili, richiesta che andava a costare almeno 10€ (alcune testimonianze parlano di folli richieste di 50€), anche per un trasporto di pochi metri. Un evento imperdibile e spettacolare che avrebbe potuto essere memorabile, rovinato completamente dall’inettitudine di un’organizzazione fallimentare ed approfittatrice ci duole sottolineare. Le condizioni metereologiche hanno fatto la loro parte è innegabile, ma scegliere una location del genere per ospitare l’evento è stata una scelta disgraziata, come per altro il disinteresse totale verso gli utenti del festival e i pochi addetti alla sicurezza a disposizione. La pioggia non si può placare, ma posizionare della paglia o della corteccia d’albero nell’arena era fattibilissimo, così come offrire gratuitamente i trattori per il recupero delle auto… chi è stato ospite dei festival della vicina Germania potrà testimoniare. Non possiamo che scuotere la testa e puntare il dito verso gli organizzatori per questo tremendo fallimento, che ha rovinato la festa quasi a tutti i presenti.

ATREYU

Metalcore, con una delle formazioni che ha contribuito a fare la fortuna del genere, ma che sembra, vista dal vivo, in preoccupante fase calante. Se i numeri ci sono e i pezzi pure, nella mezz’ora a disposizione gli Atreyu non riescono a convincere, fallendo anche un potente gancio quale la cover della celeberrima “You Give Love A Bad Name” dei Bon Jovi. Il resto è incerto, e nessuno sembra convinto della prova del gruppo, concedendo poca attenzione e tributando a Varkatzas e soci solo un applauso sindacale. I loro giorni su Roadrunner sono contati a nostro parere…

 

 

AS I LAY DYING

I metalcorer cristiani, freschi della pubblicazione del successo commerciale “The Powerless Rise”, si esibiscono sotto una pioggia fitta e con un pubblico quasi del tutto immobile, a causa della viscosa patina di fango che blocca i piedi dei presenti. Seppure la performance del gruppo è sempre agile i suoni, soprattutto da dietro la recinzione delle torri, risultano impastati e confusi, altalenanti e spesso oscurati da bassi esagerati che coprono il resto. La banda di Lambesis si dimostra in ogni caso ben rodata e offre la solita prova molto efficace e priva di sbavature, forte di una scaletta corta imperniata sui pezzi migliori della discografia.

1.    94 Hours
2.    Through Struggle
3.    Beyond Our Suffering
4.    The Sound of Truth
5.    Within Destruction
6.    Vacancy
7.    Confined

 

ANTHRAX

Parecchi hanno storto il naso per questa decisione inaspettata: si credeva che ai Big Four, leggende del thrash americano, spettasse il gradino d’onore in queste storiche date insieme, invece ecco gli Anthrax esibirsi alle 12:55, con 45 minuti a disposizione. La formazione è composta da Caggiano, Ian, Bello e Benante, con al microfono, a spuntarla dopo una telenovela durata mesi, Joey Belladonna. Il gruppo, molto carico a dire il vero, parte in quarta con “Caught In A Mosh”, gli schermi ai lati del palco si accendono per la prima volta e anche i suoni paiono graziare i New Yorchesi. Belladonna è invecchiatissimo, soprattutto rispetto ad una band super energica e pimpante, ma riesce a svolgere il suo compito restando sopra la sufficienza. Si continua a correre ripercorrendo gli anni d’oro del gruppo con la successive “Got The Time”, “Indians”, “Antisocial” e “Madhouse”, con la band sempre su di giri bersagliata da secchiate d’acqua che scendono dalla cima del palco e il pubblico invischiato nel fango. La prima grande sorpresa arriva con “Only”, unico pezzo dell’era Bush in scaletta, riproposta in maniera fedele (senza, ovviamente, nessuna citazione del cantante). C’è poco tempo per i discorsi, quindi c’è solo una “Efilnikufesin (N.F.L.)” prima della conclusione, affidata ad “I Am The Law”. Non c’è nulla da obiettare: gli Anthrax sono sempre divertentissimi!

1.    Caught in a Mosh
2.    Got the Time (Joe Jackson cover)
3.    Indians
4.    Antisocial (Trust cover)
5.    Madhouse
6.    Only
7.    Efilnikufesin (N.F.L.)
8.    I Am The Law

 

ALICE IN CHAINS

Potremmo iniziare a sbavare e ricoprire di elogi e complimenti la formazione di Seattle, capace di un ritorno discografico maiuscolo e artefice di una delle prove migliori della giornata. Per l’ennesima volta. E, a pensarci bene, perché non dovremmo farlo? Cantrell e soci sono in stato di grazia, e salutano la pioggia che ha da poco smesso di martoriare un pubblico già provato partendo con “Rain When I Die”. La coesione e l’affiatamento è impari nei confronti di qualsiasi altra formazione, e pure i suoni risultano perfetti, glorificando la mostruosa prova dei ragazzi di Seattle. DuVall è sorridente e in perfetta comunione con le vocals di Cantrell, che non può fare a meno di ringraziare un’audience tanto fedele e in una condizione tanto disgraziata. Gli unici due estratti di “Black Gives Way To Blue” sono “Check My Brain” e “Lession Learned”, per il resto è solo “Dirt”, con un paio di estratti da “Facelift”. Semplicemente immensi, gli Alice In Chains riescono ancora a dare i brividi.

1.    Rain When I Die
2.    Them Bones
3.    Dam That River
4.    Check My Brain
5.    Again
6.    Lesson Learned
7.    We Die Young
8.    Man in the Box
9.    Would?
10.    Rooster

 

SLAYER

E’ da poco passato il National Day Of Slayer, e il pubblico si raduna faticosamente, strisciando i piedi nella melma e tendando di non cadere rovinosamente, al cospetto della seconda band in rappresentanza dei Big Four. Sono le 16:30 e gli Slayer calcano le assi del palco, introdotti dalle urla indemoniate dei soliti, invasatissimi fan. L’impatto è, come al solito, devastante: “War Painted Blood” e “Jihad” scaldano il pubblico, che si infiamma definitivamente con “War Ensamble”. Due enormi aquile (così sembrano, ad occhio nudo, viste le dimensioni e l’apertura alare) cominciano a volteggiare sulle corna alzate rendendo ancora più suggestivo il classico “Angel Of Death”. Araya non può più fare headbanging è vero, ma è protagonista di una prova vocale eccellente, e basta il suo ghigno per fomentare i presenti tra una canzone e l’altra. Nessuna sorpresa nel set dei thrashers americani, che non variano la formula classica e chiudono col trittico “Chemical Warfare” – “South Of Heaven” – “Raining Blood”, senza strafare forse, ma senza nemmeno deludere nessuno.

1.    World Painted Blood
2.    Jihad
3.    War Ensemble
4.    Hate Worldwide
5.    Dead Skin Mask
6.    Angel of Death
7.    Beauty Through Order
8.    Disciple
9.    Mandatory Suicide
10.    Chemical Warfare
11.    South of Heaven
12.    Raining Blood

 

MEGADETH

Megadave si presenta sul Saturn Stage (in teoria quello minore, anche se le dimensioni sono quasi identiche) con una camicia bianca, per dar vita, assieme all’ultima incarnazione della sua creatura, ad un set che comprenderà le tappe principali della storia del gruppo. L’inizio, affidato a “Holy Wars” e “Hangar 18”, è folgorante: il gruppo sfoggia tecnica magistrale e grinta da vendere, l’unico neo resta la voce di Mustaine, che viene inficiata anche da problemi al microfono, ma come è risaputo le parti vocali sono ridotte nei vecchi pezzi. C’è un calo fisiologico durante la riproposizione di pezzi meno apprezzati da una certa parte di pubblico (“Trust”, “A Tout Le Monde”), ma su “Sweating Bullets” Mustaine torna a padroneggiare l’audience, per poi eseguire “Symphony Of Destruction” tra i cori del pubblico e chiudere con “Peace Sells”, durante la quale viene raggiunto sul palco da Scott Ian per la prima collaborazione tra i Big Four di queste date storiche. Applausi a non finire da parte di un pubblico galvanizzato ovviamente, con Megadave che dopo l’inchino di gruppo si ferma a ringraziare con affetto i suoi fans provati, regalando i suoi caratteristici polsini alle prime file. Non è frequente assistere a una tale dimostrazione di umanità da parte di un personaggio tanto problematico, lasciamo quindi l’Apollo Stage col sorriso e con un ottimo ricordo.

1.    Holy Wars… The Punishment Due
2.    Hangar 18
3.    Wake Up Dead
4.    Headcrusher
5.    In My Darkest Hour
6.    Skin O’ My Teeth
7.    A Tout Le Monde
8.    Hook In Mouth
9.    Trust
10.    Sweating Bullets
11.    Symphony Of Destruction
12.    Peace Sells (con “Holy Wars” reprise)

 

MOTORHEAD

“We are Motorhead, and we play rock’n’roll”. Leggenda. Basterebbe questo, “Ace Of Spades” e un close-up della telecamera sul porro di Lemmy per rendere tutti felici. E’ dal 1975 che Mr. Kilmister calca i palchi di tutto il mondo, e solo davanti a lui l’intera line-up del festival, Metallica compresi, si inginocchia senza eccezione alcuna, a celebrare l’inarrestabile cammino di un’icona vivente, che nonostante lo stile di vita estremamente edonistico continua a dare lezioni on the road. Da “Iron Fist” il pubblico è incantato e incredulo davanti all’energia dei veterani, e fino al gran finale composto da “Killed By Death”, “Ace Of Spades” e “Overkill” sono tutti piedi nel fango e naso all’insù, con brevi intermezzi per gli applausi e risposte calorose agli incitamenti di un gasatissimo Mikkey Dee. Inarrestabili.

1.    Iron Fist
2.    Stay Clean
3.    Be My Baby
4.    Rock Out
5.    Metropolis
6.    Over The Top
7.    Cradle to the Grave
8.    In The Name Of Tragedy
9.    Just ‘Cos You Got The Power
10.    Going To Brazil
11.    Killed By Death
12.    Ace Of Spades
13.    Overkill

 

METALLICA

Nessuno ha capito cosa ci facessero i Rise Against tra Motorhead e Metallica, sta di fatto che la grande maggioranza dei presenti si è trascinata, durante la loro esibizione, a rifocillarsi brevemente (dopo una fila estenuante è bene ricordare), mentre il sole graziava i sopravvissuti e solidificava il fango altissimo nelle zone più dense. I Four Horseman attaccano al tramonto sulle note di “Ecstasy Of Gold” e le immagini da “Il Buono, Il Brutto E Il Cattivo”. Lo stage, solo in questo momento, è sfruttato appieno: le rampe che portano al piano rialzato vengono scoperte, e soprattutto viene acceso uno schermo che copre tutto il fondo del palco, sul quale verranno proiettate, da una regia piuttosto abile, le imprese dei quattro. Da “Creeping Death” a “Fade To Black” è un orgasmo continuo, di fatto nessuno dei quattro gruppi protagonisti riesce a tenere il passo dei ‘Tallica, soprattutto con un Hetfield in formissima come questa sera. Un breve filmato in computer grafica introduce l’intermezzo dedicato a “Death Magnetic”, che per esaudire le preghiere di molti è ridotto a soli tre estratti. Si torna in carreggiata col classico “Sad But True”, e il sole se ne va del tutto lasciando i presenti nel freddo più assoluto (tutti coloro che non hanno stivali di gomma hanno le scarpe inondate di un fango gelido). Durante “One” l’Apollo Stage viene bombardato da fiammate e luci accecanti, mentre sulla destra partono anche una decina di fuochi d’artificio. Le critiche sono solo per Ulrich come al solito, che però pare sfoderare una prova sopra la media, mentre il resto della formazione viene annebbiato da una performance maiuscola del frontman, molto comunicativo nei frequenti scambi col pubblico. Giunti a “Enter Sandman” si arriva anche all’uscita, collegata all’obbligatorio encore. La cover scelta per questa serata è Breadfan (dei Budgie), che manco a dirlo riscuote un discreto successo. “Whiplash” e “Seek And Destroy” chiudono la serata, per lasciare spazio a saluti prolungatissimi che sforano nel soundcheck dei Volbeat. I Metallica non hanno deluso le aspettative come al solito, e dopo la loro esibizione lasciano spazio all’esodo di una folla esausta, che sarà faticosissimo. In pochi rimangono ad assistere agli show di Volbeat, Amon Amarth, 3 Inches Of Blood e Dead Superstar, stremati dalle condizioni inumane a cui l’organizzazione ha costretto il pubblico. Line up ed esibizioni eccellenti, ma all’organizzazione… un GRANDE QUATTRO!

1.    Creeping Death
2.    For Whom The Bell Tolls
3.    Ride The Lightning
4.    No Remorse
5.    Fade To Black
6.    That Was Just Your Life
7.    The End Of The Line
8.    Sad But True
9.    Welcome Home (Sanitarium)
10.    Broken, Beat And Scarred
11.    One
12.    Master Of Puppets
13.    Fight Fire With Fire
14.    Nothing Else Matters
15.    Enter Sandman

Encore:
16.    Breadfan (Budgie cover)
17.    Whiplash
18.    Seek & Destroy

 

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