24/07/2016 - SONISPHERE ITALIA 2016 @ Ippodromo Capannelle - Roma

Pubblicato il 29/07/2016 da

Report a cura di Elio Ferrara
Fotografie di Marta Coratella

Uno dei concerti più attesi dell’anno sul suolo italico non tradisce le aspettative: sì, perchè davvero possiamo dire che il Sonisphere di Roma si è rivelato un vero evento, sia per le band che sono intervenute, sia per la grande risposta e affluenza di pubblico. Parliamo infatti di un numero che si aggira attorno alle ventimila unità o poco giù di lì, accorse per assistere ad un festival che metteva insieme alcune band giovani ad altre che realmente hanno fatto la Storia dell’heavy metal. Non è un caso, dunque, che fosse molto variegato anche lo stesso pubblico, perchè oltre a tanti ragazzi, abbiamo visto anche tantissimi “meno giovani” e persino famiglie al completo. D’altronde, alcuni tra i musicisti partecipanti alla manifestazione hanno cominciato la loro carriera circa quarant’anni fa: una vita spesa per il metal e tanto di quello che c’è stato dopo c’è stato anche proprio grazie ad alcuni di questi signori – questo non va mai dimenticato – che hanno dimostrato, come avremo modo di descrivere in seguito, come siano passati gli anni e i capelli siano diventati bianchi, ma siano rimasti intatti la loro passione e il loro spirito, più forti e vivi che mai. Va poi sottolineato come non abbia stonato la defezione negli ultimi giorni dei Bullet For My Valentine, una band che sarebbe sembrata quasi fuori contesto con un tale bill e che, al di là di quelle che possano essere le sue qualità, paradossalmente non avrebbe a nostro avviso giovato alla buona riuscita del concerto. Tutto sommato, possiamo dire che tutto si è svolto nel migliore dei modi: gli orari sono stati rispettati, le band hanno suonato divinamente ed eccellenti sono stati anche l’aspetto tecnico e la resa sonora. Buona l’idea di due sponsor di fornire cappellini, senz’altro molto utili, rispettivamente di colore giallo/verdino (tipo evidenziatore) e rosso: per contro, tuttavia, tale idea ha portato ad una circostanza francamente un po’ ridicola, perchè tantissima gente sotto il palco portava questi cappellini e sembrava di essere ad un convegno di qualche movimento o associazione giovanile, piuttosto che ad un concerto metal. Diversi musicisti non hanno potuto fare a meno di notarlo e qualcuno come Scott Ian (ma non solo) ci è sembrato quasi contrariato. Ad ogni modo, al di là dell’aspetto puramente coreografico, non ci si può proprio lamentare. La prima band in scaletta erano gli A Perfect Day, gli unici italiani della giornata che, per quanto finora pubblicato e per la line-up che comprende due membri dei Labyrinth (Cantarelli e Bissa), probabilmente erano anche più importanti delle successive due ma, di fatto, non fosse altro per dovere di ospitalità, hanno suonato per primi. Dobbiamo a questo punto precisare come arrivare a Roma dalla Sicilia sia pur sempre un lungo viaggio, per cui purtroppo siamo giunti sul posto quando gli A Perfect Day avevano appena concluso la loro esibizione. Partiamo con il resto…

 

sonisphere italia 2016 - locandina definitiva

 

WILD LIES
Viene issato sul palco un telone con il logo della band che inizia puntualissima alle ore 14,15. Sin da subito ci appare buono l’impatto del gruppo britannico, che propone una sorta di hard rock/alternative, partendo con uno dei suoi cavalli di battaglia, “Asteroid Central”, per poi passare agli altri brani del proprio repertorio. Molto bravo a muoversi sul palco il cantante Matthew Polley, il quale, nonostante un abbigliamento più adatto forse al fresco di latitudini scandinave che non al caldo di un torrido pomeriggio romano (anche se, come vedremo, il meteo riserverà qualche sorpresa nel prosieguo della giornata), con tanto di scialle e giacca nera, va avanti e indietro cercando di coinvolgere il pubblico il più possibile, dando avvio altresì ad incessanti battimani. La band dimostra di possedere molta grinta, che traspare tutta dalla faccia del bassista Dylan Smith che, peraltro, se non andiamo errati, dovrebbe essere figlio di Adrian dei Maiden (ci sorge a questo punto spontanea una curiosità: perchè il figlio di Adrian Smith suona il basso e il figlio di Steve Harris invece la chitarra?). Se la tirava forse un po’ il chitarrista Zak Muller nei suoi assoli, ma tutto sommato va bene così, i Wild Lies chiudono la loro esibizione con il loro nuovo singolo “The Animal”, uscendo tra gli applausi.

THE RAVEN AGE
Siamo partiti forse prevenuti nei loro confronti, pensando che fossero qui solo perchè suona in questa band il figlio di Steve Harris: in realtà, probabilmente è pure vero, però bisogna ammettere che i The Raven Age non hanno sfigurato. La band ha suonato infatti molto bene, proponendo un metal melodico e carico di groove, con un sound alquanto fresco e moderno e qualche vaga venatura dark/gothic, suggerita peraltro dal loro logo che prevede tanto di corvi su sfondi dai colori malinconici e sfumati. Un paio di pezzi erano nuovi, mentre per il resto il gruppo inglese ha presentato brani tratti dal loro ep d’esordio, tra cui spiccano “The Merciful One” e la conclusiva “Angel In Disguise”. Da evidenziare anche il fatto che la band non si sia fatta distrarre da qualche piccolo inconveniente, dato che la loro scenografia prevedeva dei teloni poggiati a terra, che però a causa del vento (prima sorpresa metereologica) continuavano a cadere, tanto da indurre lo staff a rimuoverli del tutto. Piuttosto ruffiana la mossa del chitarrista Dan Wright di presentarsi ad un certo punto con il completino della Roma, mossa che non avrà però certo fatto piacere ai tifosi laziali e che magari avrà invece lasciato alquanto indifferenti chi tiene ad altre squadre o chi, come il sottoscritto, porta il Catania Calcio nel cuore, auspicando che un giorno possa tornare ai livelli che tali colori meriterebbero. Chiudendo questa piccola digressione calcistica (provocata però dal buon Dan), possiamo dire che la band si è comportata bene (ad onor del vero, il cantante Micheal Burrough non ci è sembrato impeccabile in diversi attacchi, ma in fin dei conti se l’è cavata dignitosamente) e si è meritata gli applausi di tutti.

SABATON
Con i Sabaton cominciano a calcare il palco del Sonisphere i gruppi più blasonati. Certo, la band svedese deve farne ancora di strada per essere accostata a chi suonerà dopo di loro, però bisogna riconoscere che gli scandinavi arrivano qui dopo tanti dischi e una carriera in continuo crescendo. Della loro posizione, tuttavia, i Sabaton sembrano più che consapevoli e, come dichiarerà il cantante Joakim Brodén, prima del concerto erano davvero piuttosto nervosi, perchè non sapevano quale sarebbe stata l’accoglienza dell’audience italiana, nota per essere piuttosto esigente (e a volte anche un po’ intransigente). La band parte però subito forte con due pezzi come “Ghost Division” e “Far From The Fame” e a questo punto si rende ben presto conto, quasi con stupore, che il pubblico è lì per applaudirli e per divertirsi insieme a loro. Proprio così, perchè l’accoglienza di Roma per i Sabaton è andata oltre ogni aspettativa: la gente canta le loro canzoni e quasi tutti conoscono a memoria persino “The Lost Battalion”, brano di cui è stato pubblicato un video, ma che sarà incluso nel nuovo album, ancora neppure uscito! Inutile dire come ottimo sia quindi, a maggior ragione, il riscontro per classici come “Carolus Rex”, “Swedish Pagans” e “Resist And Bite”. La band ha confermato di poter portare sul palco anche una certa perizia tecnica, rivelandosi eccellente nelle armonizzazioni vocali eseguite praticamente con quattro voci, tutte rigorosamente dal vivo; per contro, ha preferito invece avvalersi di parti registrate per le tastiere e per vari intro, cosicchè questo li porta spesso ad uscire tutti dal palco, facendo perdere un po’ di ritmo all’esibizione. Diversi i siparietti messi in atto da Brodén, che finge ad esempio di fare il chitarrista o, viceversa, dal chitarrista Chris Rorland, che comincia a cantare “Winds Of Change” degli Scorpions, prima che il resto della band lo sovrasti con “To Hell And Back”. C’è ancora spazio per qualche altro successo come “The Art Of War” e “Primo Victoria”. Stranamente, la band chiude la propria esibizione con alcuni minuti di anticipo: ci sarebbe stato sicuramente tempo, infatti, per un altro brano, forse anche due. Da segnalare, poi, un’autentica gaffe di Brodén, che ha ricordato come dopo di loro avrebbero suonato “due” grandi band, i Saxon e gli Iron Maiden, dimenticandosi totalmente degli Anthrax. Non abbiamo capito però, sinceramente, se sia stato volutamente polemico per qualche motivo o se, piuttosto, si sia trattata di una semplice dimenticanza.

Setlist:

Ghost Division
Far From The Fame
Carolus Rex
Swedish Pagans
Resist And Bite
The Lost Battalion
To Hell And Back
The Art Of War
Night Witches
Primo Victoria

SAXON
Da questo momento in poi, possiamo dire che cominciano i ripassi di storia, perchè come dicevamo in apertura, vedremo adesso tre band che durante la loro lunghissima carriera hanno realmente fatto la Storia del metal. Partendo dai Saxon, è fantastico vedere come Byford sia ancora lì a cantare, a saltare, a trascinare il pubblico, insieme ai suoi compagni. I Saxon macinano così, in rapida successione, riff dal suono secco e pulito, con un sound che più metallico non potrebbe essere: proprio così, puro heavy metal nudo e crudo, per una band che ci ha regalato nel corso degli anni tantissimi capolavori. Si parte seguendo la scaletta prevista, che alterna pezzi più recenti con qualche classico: apre “Battering Ram”, alla quale seguono la velocissima “Motorcycle Man”, “Sacrifice” e l’acclamatissima “Power And The Glory”. Tra un brano e l’altro, Byford scambia qualche parola con il pubblico e, nonostante non ci sia più tanto caldo (adesso c’è un po’ di vento, si è fatto nuvoloso e cade qualche goccia di pioggia), si rovescia una bottiglia d’acqua in testa. Si prosegue con “20,000 FT”, “Dogs Of War” e con “Heavy Metal Thunder”, che viene espressamente dedicata all’amico Lemmy Kilmister. A questo punto, Byford appare davvero su di giri: d’altro canto, forse i Saxon sono gli unici della serata a non avere release imminenti o uscite da presentare (salvo, tutt’al più, qualche raccolta), per cui ad un certo punto il singer britannico prende il foglio della scaletta, lo strappa e lo mangia letteralmente! Biff adesso invita dunque apertamente il pubblico a chiedere loro quali brani avrebbe voluto ascoltare. Paul Quinn (davvero in grande spolvero) fa partire intanto l’arpeggio di “Crusader”, apprezzatissima dai presenti. Al termine di essa, la band invita ancora l’audience a formulare le sue richieste. Certo, in effetti non sappiamo quanto l’esperimento sia riuscito, perchè tra le tante voci diverse e scoordinate immaginiamo come fosse in realtà quasi impossibile riuscire a decifrare tutto quello che veniva chiesto: ad ogni modo, in base a quello che poteva aver sentito, Byford tira un po’ le conclusioni e decide di ripartire con grandi classici come “Princess Of The Night”, “747 (Strangers In The Night)”, nonchè le leggendarie “Wheels Of Steel” e “Denim And Leather”. Grandissimo concerto per una grandissima band. Da brividi.

Setlist:

Battering Ram
Motorcycle Man
Sacrifice
Power And The Glory
20,000 Ft.
Dogs Of War
Heavy Metal Thunder
Crusader
Princess Of The Night
Wheels Of Steel
747 (Strangers In The Night)
Denim And Leather

ANTHRAX
Nel frattempo, la piacevole pioggerellina è diventata vera e propria pioggia, cosicchè l’irrefrenabile pogo scatenato da “You Gotta Believe”, pezzo d’apertura dell’esibizione degli Anthrax, provoca un mix di polverone e fango non molto gradevole, ma per fortuna si resta entro limiti accettabili che infastidiscono un po’ ma non rendono impossibile seguire il concerto. La band americana è in tour anche per promuovere il nuovo album “For All Kings”, dal quale vengono eseguiti una manciata di brani (oltre alla già citata “You Gotta Believe”, vengono riproposte “Evil Twin” e “Breathing Lightning”), ma il grosso del loro show si concentra su alcuni dei loro classici dal vivo: brani come “Caught In A Mosh”, “Got The Time”, “Madhouse” e “Antisocial” rimandano direttamente all’epoca d’oro degli Anthrax (ci riferiamo ovviamente alla formazione con Belladonna), quando erano in grado di sfornare album molto amati e di grande successo come “Among The Living” e “Spreading The Disease”, senza trascurare bei dischi quali “State Of Euphoria” e “Persistence Of Time”. C’è comunque spazio anche per qualche altro brano un po’ più recente come “Fight ‘em ‘til You Can’t”, tratto da “Worship Music” del 2011. La band si è dimostrata in ottima forma: Belladonna è ancora un cantante di altissimo livello e gli spazi aperti che solo un concerto open air può offrire hanno consentito di apprezzare quanto mai il muro sonoro creato dai riff e dalla sezione ritmica della band, un autentico concentrato di potenza e velocità. Non a caso, parliamo di uno dei quattro pilastri del thrash americano e ascoltandoli dal vivo è facile comprendere perchè. Anche Scott Ian ci è parso visibilmente soddisfatto per la risposta del pubblico, tanto da sottolineare come abbia certamente suonato diverse volte in Italia (comprese le date nei giorni appena precedenti) ma non era capitato loro mai un evento, qui, di questa portata. In chiusura, una bellissima ed articolata versione di “Indians” conclude un’esibizione di altissimo livello da parte della band, che ha saputo senza dubbio parecchio divertire e trascinare i presenti.

Setlist:

You Gotta Believe
Caught In A Mosh
Got The Time
Madhouse
Fight ‘em ‘til You Can’t
Evil Twin
Antisocial
Breathing Lightning
Indians

 

IRON MAIDEN
Giunge infine il momento tanto atteso: tocca agli headliner della serata. Non che fin qui ci si sia annoiati, anzi: però la voglia di ascoltare i protagonisti del Sonisphere 2016 comincia a crescere sempre di più. Tra l’altro, le mutevoli situazioni climatiche si sono finalmente assestate e ha smesso di piovere, quindi le condizioni sono ideali per gustarsi l’ultima parte del concerto. Poco dopo le 21,00, partono le prime note e si comincia a sentire la voce di Dickinson: sullo sfondo, una piramide azteca e fuochi pirotecnici introducono la band, che attacca subito con “If Eternity Should Fail”, uno dei brani più belli del nuovo disco, al quale segue immediatamente “Speed Of Light”, durante il quale veniva proiettato il relativo videoclip nei due schermi giganti. Bruce preannuncia come il loro show sarà concentrato proprio su “The Book Of Souls”, ma verrà dato spazio anche a qualche canzone meno recente. A tal proposito, chiede al pubblico quanta gente fosse già nata quando uscì “The Number Of The Beast”, scherzando con una ragazza delle prime file, a suo avviso troppo giovane, dicendo che semmai forse era nato suo padre e che magari aveva ascoltato questo brano insieme a sua madre: insomma, la canzone in questione era “Children Of The Damned”, alla quale fanno seguito altri due brani nuovi, “Tears Of A Clown”, che Dickinson dice di aver dedicato ad un grande uomo (pensiamo si riferisse a Robin Williams) e “The Red And The Black”, introdotta dall’arpeggio/assolo di basso da parte di Steve Harris. Una canzone, quest’ultima, con la quale i tre chitarristi danno ampio sfogo ai loro assoli e alle lunghe divagazioni strumentali che caratterizzano “The Book Of Souls”, accompagnati dai cori del pubblico. La sensazione che proviamo ascoltando questo brano, se ci consentite l’accostamento, è come quella di assistere a quei lunghi pezzi psichedelici tipici di fine anni ’60-inizi anni ’70, in questo caso però chiaramente in una chiave totalmente metal: a ben riflettere, d’altronde, questa è un po’ una caratteristica del nuovo album, dove diverse sono le tracce dal minutaggio assai elevato e con lunghe parti strumentali. Ad ogni modo, Dickinson salta come al suo solito su e giù per tutto il palco, come fosse ancora un ragazzino, mentre Gers si produce in tutte le sue tipiche acrobazie con la chitarra. Nel frattempo, la scenografia cambia praticamente quasi per ogni brano, creando un effetto scenico notevole e ricercato. Anche Bruce non manca di proporre abbigliamenti particolari o altre trovate: per “The Trooper” si presenta con una giubba rossa, mentre per “Powerslave” indossa una particolare maschera. Ancora, in occasione di “Death Or Glory”, porta un copricapo che visto da dietro appare come la maschera di una scimmia, per cui il cantante dà spesso le spalle al pubblico, compiendo dei particolari movimenti con le braccia. A questo punto, il vocalist fa tutto un discorso introduttivo riguardante il fatto che ci troviamo a Roma, ricordando come anticamente questa abbia dato vita al suo grande impero, che però poi è caduto in declino: questo è il destino di tutti gli imperi, quello cioè di sorgere, ma poi inevitabilmente di cadere e lo stesso è successo con l’impero inglese, quello americano, quello sovietico. Dickinson completa il discorso dicendo dunque che più o meno di questo hanno cercato di parlare nel brano “The Book Of Souls”. L’arpeggio e i tipici rintocchi introducono “Hallowed Be Thy Name”, con Bruce che si presenta con tanto di cappio al collo: inutile dire che si tratta di uno dei pezzi più amati ed il pubblico è in autentico delirio, così come per la successiva “Fear Of The Dark”. Un gigantesco Eddie compare sul palco, ingaggiando degli sketch con Gers e una lotta con Dickinson, che alla fine gli strappa il cuore, gettandolo in mezzo al pubblico. Lo show volge al termine con “Iron Maiden”, il brano che porta il nome della band, ma naturalmente non è ancora finita, perchè Harris e compagni avevano già preventivato tre bis. Il primo è “The Number Of The Beast”, durante il quale campeggia un gigantesco busto dalle fattezze caprine. A seguire, ancora l’instancabile Bruce ci fa sapere di essere proprio “cotto” dopo un tour di ben settantadue show, ma di come allo stesso tempo sia contento di essere qui stasera senza che sia morto nessuno, che nessuno sia stato accoltellato (facendo ovviamente riferimento alle tante tragedie di cui abbiamo sentito in questi giorni), potendo stare semplicemente insieme, infischiandosene delle differenze di religione, sesso e razza (rimarcando peraltro come fossero presenti alla serata anche tantissimi stranieri accorsi a Roma per assistere all’evento) perchè in realtà siamo tutti “fratelli”: dopo una tale premessa, il coro parte dunque più spontaneo che mai per “Blood Brothers” e diventa quasi un momento toccante, quando il cantante continua a ripetere semplicemente “What Are We?” e tutti a rispondere cantando “We’re Blood Brothers…”. Il finale è affidato ovviamente a “Wasted Years”: un trionfo, la band ringrazia e si prende i suoi meritati applausi, con il solo Nicko McBrain che si attarda, scatenato a lanciare bacchette e altri oggetti, salutando con un quanto mai calzante ‘arrivederci, Roma!’. Certo, difficile da mandare giù come siano mancate all’appello canzoni quali “Run To The Hills”, “Flight Of Icarus”, “Aces High” o diverse altre, ma è stata chiara la volontà della band di portare dal vivo quanti più brani possibile tratti dal nuovo album e, vista la loro buona resa on stage, non ci sentiamo di deprecare questa scelta. Nonostante le tante ore trascorse, il tempo è letteralmente volato: non ci saranno più bis, è ora di andare. Si torna a casa, più che mai soddisfatti di questa giornata romana, rapiti dalla grande bellezza dell’evento che abbiamo vissuto.

Setlist:

If Eternity Should Fail
Speed Of Light
Children Of The Damned
Tears Of A Clown
The Red And The Black
The Trooper
Powerslave
Death Or Glory
The Book Of Souls
Hallowed Be Thy Name
Fear Of The Dark
Iron Maiden

Encore:
The Number Of The Beast
Blood Brothers
Wasted Years

 

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