A cura di Chiara Franchi
Allora, ricapitoliamo. Max Cavalera ha cinque figli, tra i quali: Richie, adottato, che canta negli Incite; Igor jr. che suona e canta nei Lody Kong; e Zyon, che suona la batteria sia nei Lody Kong (col fratello Igor jr.) che nei Soulfly (col papà). La donna con cui Max Cavalera ha concepito/adottato i suddetti figli si chiama Gloria ed è la manager sia dei Soulfly, che degli Incite, che dei Lody Kong. Quindi, a conti fatti, anche considerando che all’appello del Maximum Cavalera Tour manca Igor sr., possiamo dire che sabato 20 febbraio siamo andati al Deposito di Pordenone a vedere lo show della Famiglia Cavalera, diretta e prodotta dalla Famiglia Cavalera, con la guest appearance degli australiani King Parrot. Una specie di tranquillo sabato sera in metal-famiglia, con tanto di appuntamento per l’ora di cena. Oddio, forse ‘tranquillo’ non è l’aggettivo più appropriato, visto che tra circle pit, gavettoni e chiappe al vento la serata non è stata esattamente un modello di compostezza…e meno male!
LODY KONG
Arriviamo a destinazione poco dopo le 20:00 e i Lody Kong hanno già eseguito un paio di brani. Ci consoliamo, perché il resto della setlist è comunque più che sufficiente a darci un’idea del prodotto offerto dalla band di Igor jr. e Zyon Cavalera: suonato francamente bene, messo in piedi con tanto entusiasmo e contraddistinto da una genuina immaturità. Quando mettiamo piede al Deposito, la prima cosa che sentiamo è un riff di chiara ispirazione paterna che però, tutto sommato, funziona. Non si può negare che Zyon abbia del potenziale, anche se ha ancora qualche margine di crescita. Igor se la cava bene alla chitarra, molto meno alla voce – che sia ereditario? Nel complesso, con l’aiuto di suoni ben calibrati, di un bassista e un chitarrista molto validi e di un pubblico poco numeroso (40-50 persone) ma attento, i Lody Kong chiudono la loro mezz’ora scarsa senza averci cambiato la vita, ma lasciandoci il ricordo di un’esibizione più che dignitosa e di molto superiore alle aspettative che ci eravamo fatti ascoltando il loro EP.
INCITE
Siamo onesti: un padre musicista e una madre manager che si portano in tour le band dei figli sono come minimo un po’ sospetti. Sarà che le consuetudini italiane ci hanno resi diffidenti – per non dire prevenuti, ma qualche sospetto sulla presenza di tutti i rampolli di casa Cavalera nel Maximum Tour lo nutrivamo. Invece, eccoci piacevolmente smentiti da Richie Cavalera e i suoi Incite, che come e più dei Lody Kong superano di gran lunga l’opinione che ci si può fare di loro su Spotify. Prossimi alla release di un nuovo album, gli Incite propongono un death variamente declinato e non esattamente originale, ma ben suonato e ben studiato dal punto di vista compositivo. Quello che manca sul fronte della freschezza è ampiamente compensato dalla presenza scenica e dal livello tecnico della band, a sua volta supportata da dei suoni che ne valorizzano appieno il lavoro. Richie Cavalera non è un cantante memorabile, ma il suo carisma e la sua performance travolgente coinvolgono il pubblico, che finalmente comincia a muovere un po’ la testa e accenna addirittura a un micro-pogo sull’incalzante “WTF”. Positiva anche la resa live di “The Slaughter”, pezzo che a nostro parere si distingueva anche nell’album come uno tra i più interessanti. Quando l’esibizione si chiude, sulle note di “Tyranny’s End”, la platea è calda. Bravo, Richie: ti sei guadagnato la serata.
KING PARROT
‘Varda in che stati’ [Traduzione: ‘Guarda in che condizioni’]. È con questa osservazione e col sopracciglio alzato che il pubblico friulano saluta l’arrivo sul palco dei King Parrot, quintetto grind/hardcore australiano verosimilmente ignoto ai più. Del resto, tra panze al vento, occhi stralunati e impatto sonoro crudo come pochi, la band di Melbourne è una delle visioni e audizioni più marce – in senso buono – che il Deposito ricordi. Matthew Young investe subito gli astanti con il suo screaming ‘pappagallesco’ e con una gavettonata che arriva fino alle ultime file, mentre Todd Hansen pesta le pelli e sbatacchia i piatti facendo roteare i lunghissimi rasta. Iconico il bassista Matthew Slattery: bierbauch d’ordinanza e sguardo da visione mistica, fa presenza almeno quanto il frontman. I King Parrot infilano undici pezzi in trenta minuti, mescolando aggressività, ironia e una buona dose di sana putrefazione che spazia dal punk al death fino al grind in uno show sinceramente hardcore. Hardcore di quello vero, onesto, maleducato, menefreghista, senza pose e senza autocompiacimenti. E se la platea in un primo momento era rimasta un po’ così, con la birra in mano e l’espressione fra il perplesso e il divertito, da “Sick In The Head” in poi comincia a reagire e a tenere il tempo. Quando arriviamo a “Need No Savior”, Young ha le braghe calate, una bottiglia d’acqua tra le chiappe e quasi si congratula con uno spettatore che risponde ai suoi lanci di bicchieri vuoti. Al momento della chiusura, con “Shit On The Liver” (un titolo, un programma) il pubblico è definitivamente preso. Nessuna particolare nota tecnica, suoni ben fatti, pezzi collocabili tra la carta vetrata e il frullatore Moulinex ma in tutto e per tutto godibili. Non sappiamo cosa ne direbbe il resto della platea, ma da parte nostra ci siamo divertiti un sacco.
SOULFLY
Ore 22:40: in perfetto orario sulla tabella di marcia, i Soulfly fanno la loro apparizione su un palco a dir poco modesto, senza backdrop e con poche luci. L’apertura è affidata a “We Sold Our Soul To Metal”, graziata fin dalle prime note da dei suoni abbastanza azzeccati. Il pubblico reagisce subito con un entusiasmo che non vedevamo dagli anni ruggenti del Deposito, quando la gente saliva sul palco con gli Slowmotion Apocalypse e si sfracellava sul parterre facendo stage diving. Coi Soulfly si è respirata di nuovo un po’ di quell’aria madida di birra e sudore – aria in cui il pubblico annaspa felice, pogando e lanciandosi in circle pit come se non ci fosse un domani. Già dalla prima canzone, quindi, abbiamo chiaro quanto si senta coinvolto l’uditorio. Tuttavia, sono già altrettanto chiari i limiti che segneranno tutta la performance, a cominciare da Max Cavalera himself. Più che cantare boccheggia, è appesantito nei movimenti, sembra far fatica a tenere il ritmo del concerto. A quarantasei anni, ne dimostra dieci di più. Per fortuna, il carisma e la voglia di divertire i suoi fan fanno passare in secondo piano la non sfavillante condizione fisica. Un altro punto a favore del vecchio Max è che con la chitarra ci sa ancora fare, anche se, obiettivamente, la parte del leone è tutta di Mark Rizzo. Ottima anche la performance del bassista Mike Leon, che enfatizza a dovere il ruolo da protagonista delle sei corde. Dopo aver aperto le danze a cento all’ora, la setlist prosegue con “Archangel”, non del tutto convincente nella sua versione live. Ad essere sinceri, né la titletrack del nuovo album, né il singolo “Sodomites” sembrano aver pienamente conquistato il pubblico. L’accoglienza riservata ai successi passati, invece, è travolgente: “Blood, Fire, War, Hate”, “Carved Inside”, “The Prophecy” e “Seek ‘N’ Strike” sono accompagnate da cori e pogo scatenati. Per non parlare della risposta ai classici dei Sepultura, da “Refuse/Resist” a “Roots Bloody Roots”, che proprio stasera compie vent’anni. Più di qualcuno si accorge della mancanza del medley “Arise/Dead Embryonic Cells”, mentre in pochi riconoscono “Tribe” (due tizi accanto a noi smettono di pogare e si chiedono: ‘Ma che canzone è?’). Al grido di ‘give me a *blasfemia*!’, Max Cavalera si fa raggiungere sul palco dai King Parrot, per ricordare Lemmy Kilmister con una riuscitissima cover di “Ace Of Spades”: si tratta senz’altro di una sorpresa gradita a tutti i presenti. Per salutare i fan, i Soulfly scartano agilmente da un accenno di “Jumpdafuckup” ad “Eye For An Eye”. La chiusura è affidata all’intro di “The Four Horsemen” dei Metallica, sulle quali Max Cavalera, letteralmente, si dilegua. È stata un’ora e dieci serrata, stonata e non sempre centrata sul piano tecnico, ma se ciò che conta davvero è la soddisfazione del pubblico…be’, non c’è storia.