Anche Aprile ha il suo evento deathcore, che si consuma al Legend Club di Milano in un ventoso martedì sera.
Sarà per la chiaccherata ‘Design Week’, fatto sta che troviamo più di un ospite straniero – quasi tutti di accento svizzero/austriaco/tedesco – in mezzo alle facce note della scena metalcore/deathcore che bazzicano il capoluogo meneghino.
Il pacchetto della serata, composto interamente da band americane, è invitante e senza punti deboli: infatti insieme ai rampanti Spite e agli attesi Bodysnatcher ci sono realtà interessanti come Mouth For War e Boundaries.
Per una volta uno di questi tour, quasi sempre destinati all’Europa continentale valica i confini italiani: non potevamo certo mancare!
Ad aprire questa serata all’insegna della violenza ci sono i MOUTH FOR WAR da Colorado Springs, quintetto che ha pubblicato qualche mese fa il secondo disco “Bleed Yourself” confermando le buone premesse del debutto.
Parliamo di un heavy hardcore granitico e bellicoso, tra produzioni moderne e rimandi ai primi 2000, che fa dell’aggressività il motivo primario della propria proposta (come faranno le altre band della serata, ovviamente). Com’è giusto per una band che omaggia i Cowboys From Hell per eccellenza, gli americani vanno dritto al punto, ma con una rifferia gustosa e centrale nel proprio armamentario, così che, pur mantenendo tempistiche abbastanza brevi, nei brani c’è qualcosa di più del semplice breakdown su cui porre attenzione.
Una mezz’ora che scorre veloce, ma che lascia i presenti affamati di approfondire quanto fatto dalla formazione americana, e porta a casa di sicuro qualche nuovo estimatore.
Un cambio palco veloce ed è subito il turno dei BOUNDARIES, anche loro freschissimi della pubblicazione di un nuovo album, quel “Death Is Little More” uscito da solo un paio di settimane e che ci ha convinto pienamente in sede di recensione. Sarà anche per la recente release che vediamo i cinque particolarmente affamati e desiderosi di mangiarsi il palco, tutti di nero vestiti proprio come li vediamo nei video promozionali.
Restando nei ranghi del metalcore più violento, i Boundaries sono in grado di incorporare soluzioni più raffinate e colori differenti rispetto alle altre band della serata, transitando in sezioni più struggenti e sperimentando ritornelli melodici grazie all’ottima prova al microfono del batterista Tim Sullivan.
ll cantante Matthew McDougal fa da contrasto eccellente, facendo coppia col corpulento chitarrista Cody DelVecchio nel creare il caos sulle assi ristrette del Legend. Con le nuove “Easily Erased”, “A Pale Light Lingers” e “Scars on a Soul” che si aggiungono ai punti forti delle loro setlist – come “Get Out” e “My Body Is A Cage” – non ci stupiremmo di vederli crescere dalle nostre parti come stanno facendo nel Nuovo Continente.
C’è appena il tempo per una birra quando, in anticipo sulla scaletta, i BODYSNATCHER salgono sul palco per la loro primissima esperienza in Italia: dall’atmosfera che si respira in sala e dal calore con la quale i presenti partecipano si capisce che l’esperienza per il quartetto dalla Florida è davvero elevatissima, tanto da poter considerare, a posteriori, i co-headliner di questo tour come vero e proprio main event della serata.
Sin dalle prime note è chiaro come la formazione sia in grado di trasmettere un’intensità senza eguali tra le band in cartellone, e in mezzo alla carneficina totale respiriamo finalmente quell’aria che sembra sempre riservata al pubblico tedesco ed inglese, dove realtà più underground (ma che si sono già ritagliate una reputazione) hanno già suonato più volte.
I ruggiti gutturali del frontman Kyle Medina ed il groove letale del chitarrista Kyle Carter incitano esplicitamente alla violenza fisica, e il loro deathcore downtempo fa tremare le pareti del locale, coinvolgendo la sala con vibrazioni primordiali. Medina, col suo sguardo truce, i face tattoo e poche parole tra una canzone e l’altra, sembra quasi il leader tra i primati, tenendo in pugno la sala e connettendosi con essa in maniera innata.
Tra le bordate trova spazio il nuovo singolo “Murder8”, che si allinea perfettamente alla produzione del gruppo, mentre in coda viene eseguita la devastante “King Of The Rats”, che chiude un rituale collettivo dove il pubblico, che partecipa fisicamente demolendo il proprio corpo o vibrando insieme alle basse frequenze animalesche, è tutt’uno con l’artista. Dominanti.
Difficile replicare un concerto del genere, tanto che quando arriva il turno degli SPITE, ultimo gruppo della scaletta, una fetta di pubblico ha già deciso che la serata era terminata, restando in zona merch o fuori dal Legend per il meritato riposo.
Li abbiamo visti di recente aprire per l’ottimo show dei Thy Art Is Murder all’Alcatraz, ma i californiani meritavano sicuramente più attenzione e stasera andranno a confermare l’ottima reputazione che si stanno costruendo in giro per il mondo: il loro deathcore è viscerale e molto animato, e stasera finalmente suoni adeguati e mixing puntuale possono esaltare la potenza di un gruppo davvero divertente.
Appare da subito evidente come il look non sia quello della solita deathcore band: se azzeriamo il volume sembra di assistere ad un improbabile e ridicolo supergruppo formato da Michele Luppi, la sezione ritmica degli Electric Callboy ed il chitarrista di una band nu-metal/post grunge dei primi 2000. Look e movenze a parte, gli Spite sono una band deathcore che non solo sa il fatto suo, ma anzi riesce a tenere il palco in maniera maiuscola mettendo in piedi un set che vale la pena di essere visto, con sporadiche contaminazioni nu-metal e una scrittura ruffiana e diretta, in grado di non sacrificare l’impatto di una scaletta che pesca dal valido repertorio del gruppo.
Tra svariati cambi di tempo e breakdown intensi il pubblico si diverte ampiamente, guidato dalle indicazioni di un impetuoso Darius Tehrani, che nonostante le movenze inusuali emerge come collante e leader del gruppo. Una band che intrattiene e riesce a mantenere la traiettoria positiva senza sbagliare un passo: chi ha assistito ne è testimone. Se qualcuno aveva già dato tutto quarantacinque minuti prima, d’altronde, non è certo colpa loro.