08/05/2004 - SPRINGTIME FESTIVAL 2004 @ Indian's Saloon - Sesto San Giovanni (MI)

Pubblicato il 20/05/2004 da

A cura di Valentina Spanna e Marco Gallarati

Una settimana, forse due… Milano ha brulicato nel bagnato per giorni interminabili. Eppure, inaspettatamente, domenica è iniziata con i riflessi del sole sulle pozze, tra i miasmi familiari dell’asfalto umido. Un buon auspicio per il primo Springtime Festival, organizzato con passione da Metalitalia.com ed Haternal.com, con l’intento di promuovere una serata all’insegna del più valido metal tricolore. Chiamate ad alternarsi sul palco dell’Indian’s Saloon di Bresso, cinque band di spessore (i Greyswan, purtroppo, hanno dovuto rinunciare per problemi interni al gruppo stesso). In apertura i milanesi Lifend, alfieri di un suono personale che hanno calzantemente battezzato “Inner Death Hybrid” e freschi di contratto con la Cruz Del Sur. A seguire, gli storici techno-deathster Gory Blister, con i brani del recente “Art Bleeds” e le ottime prove del nuovo bassista Fredrick e dell’instancabile singer Adry. Poi Edenshade e Klimt 1918: finalmente a Milano gli artefici dei bellissimi “Ceramic Placebo For A Faint Heart” e “Undressed Momento”, rivelazioni dell’annata musicale 2003. Headliner i lombardi Node, freschi del nuovo, riuscitissimo, “Das Kapital”. I quattro si sono resi protagonisti di uno show che ha dimostrato tutta la loro crescita, il loro entusiasmo e la qualità della loro proposta musicale attuale. La palma di “mostro” del drumming (una mia perversione) spetta senz’altro a Marco Di Salvia, autore di una prova magistrale che gli ha fruttato, molto sportivamente, le lodi di tutti gli altri batteristi. Faccio i miei personali complimenti a tutte le band: per la disponibilità, per la simpatia, per le fantastiche doti umane che ho avuto modo di conoscere nel pomeriggio e dopo lo show, e che mi lasceranno un ricordo bellissimo. Purtroppo due nei hanno reso meno perfetta la serata. In primo luogo i problemi riscontrati nell’adattare i suoni, e anche quelli creati dall’acustica del locale; per alcuni meno, per altri maggiormente, hanno reso problematiche esibizioni che avrebbero potuto essere nettamente migliori, visto il valore delle band partecipanti. Secondariamente (ma nemmeno troppo), la scarsa risposta del pubblico di Milano e dintorni, il quale si affianca tristemente alla tendenza esterofila imperante o preferisce stipare i locali delle cover-band invece di supportare il talento nazionale. Per un gruppo originale, emergere dalla mediocrità della scena non è più difficile se la gente non lo sostiene anche dal vivo? Perché si preferisce consumare la musica nel chiuso della propria camera? Perché non si rischia, perché non si è più curiosi? Perché i Novembre rimangono in una nicchia pur essendo una delle migliori realtà nazionali? Dopo queste considerazioni, addentriamoci più dettagliatamente nel racconto dello Springtime Festival, un’iniziativa che, a dispetto di tutto, verrà replicata con fiducia in futuro. 

LIFEND

Aprono le live performance dello Springtime Festival i milanesi Lifend, band in procinto di realizzare il primo full-length album, il quale dovrebbe vedere la luce a breve, ed autrice di un symphonic black metal con sostanziose incursioni nel death svedese più tirato, il tutto supportato da un impianto vocale a più voci, composto da clean, screaming, growling e female vocals. Il quintetto, orfano del tastierista e membro fondatore Davide, sostituito da campionamenti pre-registrati, ha proposto quattro brani, tutti facenti parte della tracklist del disco a venire: l’esibizione è risultata discretamente apprezzabile, i suoni sono stati ben bilanciati e i pezzi, molto lunghi ed articolati, sembrano di buona fattura e mostrano una pregevole padronanza di songwriting. L’ancora scarsa presenza di pubblico ha fatto sì che i Lifend abbiano ricevuto poco più di qualche timido applauso, ma lo show non è affatto dispiaciuto. L’unica pecca, forse, è riscontrabile in una fredda gestione del rapporto con l’audience, ma, sinceramente, di fronte ad uno sparuto gruppo di persone è davvero difficile scaldarsi, anche per la più navigata delle formazioni. Comunque, un buon inizio di serata.

GORY BLISTER

Con i Gory Blister si cambia registro e si punta decisamente verso il death metal tecnico ed abrasivo dei primi anni ’90. La band, rinnovatasi per metà rispetto alla formazione che ha registrato il debutto “Art Bleeds”, ha messo in mostra grandissime doti live, soprattutto grazie al nuovo, scatenatissimo frontman Adry, in grado di aizzare la “folla” tramite un’interpretazione dei brani molto fisica, dinamica e brutale, e vocalmente impeccabile o quasi. I quaranta minuti a disposizione dei deathster lombardi sono stati utilizzati alla perfezione e l’entusiasmo dell’audience presente è andato via via crescendo, direttamente proporzionale alle belluine esibizioni del singer e agli assalti strumentali promulgati dai membri storici Joe (batteria) e Raff (chitarra); molto divertente, almeno per chi scrive, il contrasto creatosi, durante una prolungata sezione strumentale, tra il dimenarsi frenetico di Adry e la flemma quasi impostata del nuovo bassista Fredrick, appoggiato ad un palo di sostegno del locale. Nel finale, molto gradito è giunto l’arrivo del vecchio cantante dei Gory Blister, affiancatosi al frontman attuale per due song che hanno sancito una piccola, ma meritata, consacrazione per la band. Bravissimi e coinvolgenti.

EDENSHADE

Le nove… finalmente arriva il turno dei marchigiani Edenshade. I cinque sono alla seconda data ufficiale davanti al pubblico milanese, dopo quella tenuta di supporto ai Labyrinth l’anno scorso (purtroppo poco pubblicizzata). Personalmente non vedevo l’ora di vedere la band in dimensione live, avendo usurato per mesi l’ottimo debut album “Ceramic Placebo For A Faint Heart”. La scelta della set-list prevede un inizio al fulmicotone con la cover dell’immortale “Blackened”, brano storico dei compianti (almeno per la sottoscritta) Four Horsemen. L’audience, preso in contropiede, sembra gradire molto e si assiepa inneggiante sotto il palco. Ma quando la musica cambia, ovvero quando il quintetto comincia a proporre i brani autografi, si evidenziano impietosamente le citate pecche nei suoni, amplificate dal fatto che la musica degli Edenshade è strutturalmente complessa e dunque richiederebbe parecchie attenzioni nella pianificazione dello show dal vivo. Fortunatamente la seconda parte dell’esibizione si è rivelata incline al miglioramento, in funzione delle correzioni avvenute in corsa ad opera del fonico, ma nel complesso alcune cose sono andate perse. In primis le tastiere, che su disco creano atmosfere uniche; poi i commoventi inserti clean del vocalist Lorenzo; infine certe interessanti soluzioni chitarristiche di Stefano, indispensabili per cogliere l’estro prog che anima anche le composizioni più violente dei nostri. Al di là di questi inconvenienti tecnici, gli Edenshade hanno sfoderato molta energia e una presenza scenica di tutto rispetto, basti pensare all’entusiasmo della prestazione del singer. L’impegno profuso da tutti i membri della band ci ha fatto dimenticare per un attimo le condizioni sfavorevoli dell’esibizione, regalandoci le emozioni caleidoscopiche di brani quali “Stygma.9”, “The Inconstancy Of April” e “The Pathology Of Incest”. Senza ombra di dubbio un gruppo che merita di essere risentito in chiave live con i suoni adatti (mi metto nei panni di chi li ascoltasse per la prima volta senza poterne cogliere tutta la ricchezza), ma soprattutto che merita di essere supportato per la freschezza e la creatività della proposta, per il talento raro che ne sostiene le intuizioni, per tutta la passione che dimostrano i cinque band-mate. Poesia e alterchi sonici. 

KLIMT 1918

Chiederò alla comunità scientifica di certificare l’esistenza di una grave dipendenza psicologica, la dipendenza da Klimt 1918… io ne soffro, felicemente però, sono una malata che ha raggiunto l’autocoscienza. Potete immaginare quanto fossi contenta di vedere la formazione all’opera su palco, dopo aver imperdonabilmente mancato la data nella provincia piacentina. Ho avuto trentacinque minuti per rifarmi (sempre troppo pochi), che almeno sono trascorsi restando estranei ai problemi tecnici che hanno sottratto efficacia alle prestazioni di altre band della serata. Questo ha permesso ai quattro romani di regalarci un’esibizione intensa, non scontentando il gruppo di fan venuti esclusivamente per loro, che hanno cantato in coro quasi tutti i brani della set-list. Immobili sotto le luci, incravattati come gli Ephel Duath, i nostri cominciano con la nostalgia agra di “That Girl”, creando immediatamente il giusto feeling. Appaiono tutti in forma; in particolare Paolo ci colpisce, non solo per le doti nel drumming, ma perché non ha la solita espressione concentratissima o sforzata… mentre suona, lui, sorride! La sorpresa più grande è però la voce di Marco, che dal vivo mantiene intatta la sua profondità emozionale, rendendo autentica e vibrante ogni song. Le note si inseguono, “Pale Song”, “Parade Of Adolescence”, la splendida “We Don’t Need No Music” (dedicata a tutte le altre band esibitesi durante la serata) e “If Only You Could See Me Now”, disperante con le sue parole sospese… “I don’t care if you die, I don’t care if you live”… Come abbiano fatto a scegliere i pezzi da suonare resta per me un mistero, “Undressed Momento” è uno dei pochi album che sento di definire alieno da cali, bellissimo, risplendente nella sua calibrata interezza. Dunque, mi auguro in futuro di poter sentire anche la title-track, “Naif Watercolour” e la sorprendente “Stalingrad Theme”. Poi, inaspettatamente, i Klimt 1918 ci regalano un nuovo brano, “They Were Wed By The Sea”, che apparirà sul nuovo full-length, intitolato “Dopoguerra”. Prime impressioni: nel debut veniva privilegiato un mood di dolce malinconia, di lunaticismi adolescenti, di ricordo e di sogno, di emozioni al limite proprio perché stanno finendo; “They Were Wed By The Sea” sembra mostrarci un universo più disperato e forse più disilluso, come se l’adolescenza fosse irrimediabilmente sepolta. Attendiamo fiduciosi di ascoltare gli sviluppi della nuova opera. Chiude lo show la cover di “By This River”, ben riuscita, klimtizzata a dovere, con Marco perfettamente a proprio agio nel rendere gli spasmi del maledetto Brian Eno. In conclusione, i Klimt 1918 si sono resi protagonisti di un’esibizione sentita, riuscendo a materializzare sul palco tutto il loro mondo meraviglioso. Meritano assolutamente di essere risentiti, con un tempo possibilmente interminabile a disposizione! Ma, soprattutto, meritano di essere scoperti, vissuti, sostenuti, perché possano incantare ancora. Il talento va tutelato.

NODE

Dopo le esibizioni delle formazioni “in trasferta”, tocca di nuovo ad un combo lombardo salire sullo stage del piccolo Indian’s Saloon, per porre fine alle danze: i Node, con l’eccellente “Das Kapital”, pubblicato un paio di mesi fa, hanno compiuto il definitivo salto di qualità, grazie al quale possono essere annoverati fra le band di punta dell’intero movimento metallico italiano. Il loro ferreo death metal, iper-tecnico e mischiante derive provenienti dalle scuole più disparate (Death, Carcass, swedish death primordiale), risulta eccezionale anche dal vivo e non fa altro che confermare quanto di buono si sia già sentito in studio. Le capacità tecniche dei quattro ragazzi sono invidiabili e, aspetto da non sottovalutare, la band sa come intrattenere l’audience, scherzando e divertendosi, senza mai risultare esageratamente esaltata o di cattivo gusto…insomma, attitudine death metal pura. I Node hanno deliziato (anche se sarebbe più corretto dire “sconquassato”) il discreto pubblico presente per poco più di un’ora di concerto, durante la quale sono stati proposti pezzi da tutti e tre gli album della band, “Technical Crime”, “Sweatshops” e, come già detto, l’ultimo “Das Kapital”. Daniel Botti e Gary D’Eramo sono bravissimi ad interscambiarsi il ruolo di frontman: più compassata l’interpretazione del singer, più gigiona e burlesca quella del chitarrista, il quale, spesso e volentieri, si lancia in estemporanee improvvisazioni strumentali fra un brano e l’altro, generando non poca bonaria rassegnazione negli sguardi dei suoi compagni. Klaus Mariani, come al solito, se ne sta in disparte, avvolto dall’ombra e concentrato sul suo strumento, giusto per dare spazio e visibilità alle mirabili evoluzioni del nuovo drummer Marco Di Salvia, il vero punto di svolta nell’economia del sound dei Node. Speriamo davvero che possa essere, finalmente, il batterista stabile di cui la band ha bisogno da parecchio tempo, perché è veramente superlativo. Da “War Goes On” a “History Seeds”, da “Thanathophobia” a “Twenties”, passando per la possente cover di “Territory” dei Sepultura, fino a giungere alle vecchie “Children”, “Ask” e “As God Wills” (che ha chiuso la performance), le canzoni si sono susseguite a rotta di collo, lancinanti e parossistiche, e mettendo a dura prova la resistenza degli astanti. Astanti che potranno tornare a casa più che soddisfatti, comunque, considerata la qualità e la quantità di musica ascoltata durante questo riuscito festival. Ottimi Node, dunque, e ripetendo le parole che Daniel ha detto, congedandosi dal palco, speriamo che l’anno prossimo si riesca a ripetere un evento del genere, magari in un posto più grande e con un po’ più di gente!

0 commenti
I commenti esprimono il punto di vista e le opinioni del proprio autore e non quelle dei membri dello staff di Metalitalia.com e dei moderatori eccetto i commenti inseriti dagli stessi. L'utente concorda di non inviare messaggi abusivi, osceni, diffamatori, di odio, minatori, sessuali o che possano in altro modo violare qualunque legge applicabile. Inserendo messaggi di questo tipo l'utente verrà immediatamente e permanentemente escluso. L'utente concorda che i moderatori di Metalitalia.com hanno il diritto di rimuovere, modificare, o chiudere argomenti qualora si ritenga necessario. La Redazione di Metalitalia.com invita ad un uso costruttivo dei commenti.