Introduzione a cura di Gennaro ‘DJ Jen’ Dileo
Report a cura di Gennaro ‘DJ Jen’ Dileo e Andrea Raffaldini
A distanza di un anno esatto dalla precedente edizione, ritorna lo Steel Fest, evento ben organizzato dal mai domo staff di Bologna Rock City, che anche quest’anno ha richiamato alcune delle più valide vecchie glorie dell’heavy metal, alle quali spetta di far scapocciare l’attempato pubblico che mastica ancora i vecchi vinili del genere. In questa occasione, la palma di headliner del festival spetta ai raffinati e teatrali Virgin Steele, seguiti sul podio dai ‘melodic hard rockers’ Praying Mantis e dai mefitici Angel Witch capitanati dall’inossidabile leader Kevin Heybourne. Nonostante il bill sia decisamente invitante, reso ancora più appetibile dalla comodità del sabato sera, l’affluenza del pubblico non è stata massiccia come ci aspettavamo, ed è un peccato, anche se i presenti non hanno affatto nascosto il proprio entusiasmo di assistere ad un vero evento, dato che nel club si respirava un’aria di festa sin dall’inizio della giornata…
BATTLE RAM
Sono passate da poco le quindici, quando i Battle Ram fanno il loro ingresso sul palco. La formazione gode di una calda frangia di sostenitori che, piazzati nelle prime file, canteranno dall’inizio alla fine i potenti brani degli epic metaller marchigiani. Il capitano Gianluca Silvi conduce le danze a suon di ritmiche serrate, mntre linee vocali alte e poderose scandiscono le linee vocali dei cavalli di battagli firmati Battle Ram. C’è anche spazio per una grandiosa versione di “Warrior”, classico firmato Riot, che in pochi secondi ha saputo incendiare il pubblico presente. Promossi a pieni voti, i Battle Ram hanno dovuto accontentarsi di un pubblico poco copioso a causa dell’orario di apertura, ma questa sera i marchigiani possono vantare una prestazione al pari dei loro colleghi internazionali.
(Andrea Raffaldini)
CRYSTAL VIPER
I polacchi Crystal Viper si rivelano una delusione. Non che la band abbia mai fatto scintille su disco, ma dal vivo, apparte l’interessante apporto estetico della cantante, sono risultati noiosi. Il loro heavy metal classico, figlio degli anni Ottanta, si basa su brani eccessivamente lunghi, noiosi e carenti di idee. Dal vivo i Crystal Viper appaiono rodati, danno anima e corpo per scaldare la folla su brani come “Legions Of Truth” e “Shadows On The Horizon”, ma i risultati sono poco più che miseri. I minuti dedicati alla formazione polacca paiono non terminare mai: purtroppo Marta Gabriel e compagni non sono riusciti nel loro intento. Speriamo di rivederli con nuove canzoni, più accattivanti e coinvolgenti di quanto abbiamo sentito in questo festival.
(Andrea Raffaldini)
PEGAZUS
Nonostante la band australiana sia in giro da oltre quindici anni, non è mai riuscita ad emergere concretamente dalle viscere dell’underground, rimanendo a tutti gli effetti un fenomeno di culto per tutti gli appassionati del metal classico più verace e intransigente. Francamente, possiamo capire le motivazioni, dato che la proposta dei Nostri è sì immersa nel più puro e incontaminato heavy metal, ma il ‘songbook’ è basato su composizioni sin troppo derivative e dozzinali. Sicuramente, il singer Justin Fleming oltre ai muscoli dimostra di possedere un’ugola d’acciaio ed una buona estensione vocale, virtù ideali per intonare anthem infuocati che invocano alla fede nel metallo più oltranzista, ma non è sufficiente a rendere più brillante la struttura dei brani. Per onore di cronaca, va detto che nei quaranta minuti a disposizione, i Nostri hanno comunque dato il massimo, comunicando molto con il pubblico, che si è dimostrato comunque abbastanza ricettivo nei loro confronti. Per chi si accontenta.
(Gennaro ‘DJ Jen’ Dileo)
TARCHON FIST
Sicuramente, il fattore campo ha giocato a favore della band bolognese, che si è resa protagonista di uno spettacolo divertente, incentrato sulla miscela ad alto voltaggio di heavy rock’n’roll vecchio stampo, ben rappresentato dall’indubbia presenza scenica dei musicisti. Seppur parzialmente penalizzati da un sound non propriamente adamantino, i ragazzi hanno tenuto bene il palco senza scivolare in particolari sbavature. Lo scatenato bass player Marco Pazzini non si è fermato un istante suonando le sue parti con grinta e precisione, mentre l’ugola del cantante Mirco Ramondo non ha mostrato cedimenti sia nelle tonalità alte che in quelle medie. Seppur il songwriting non brilli particolarmente in freschezza, i pezzi risultano comunque accattivanti, raggiungendo lo scopo di scatenare un incessante headbanging nelle prime file. Tanto basta.
(Gennaro ‘DJ Jen’ Dileo)
PICTURE
Gli olandesi Picture, sono semplicemente una delle band più valide, ma sottovalutate della storia dell’heavy metal, in quanto, nonostante abbiano sfornato alcuni gioiellini su vinile, sono sempre rimasti intrappolati nell’onorevole, ma poco appagante status di cult band. Sin dalle prime battute, non possiamo fare a meno di osservare il notevole feeling tra i componenti, che ci hanno regalato uno show di notevole caratura tecnica ed emotiva. Sia chiaro, stiamo sempre e comunque parlando di roboanti sciabolate ‘old school metal’, che non raccontano nulla di particolarmente nuovo, ma l’innegabile qualità del songwriting, baciata da un’esecuzione impeccabile, ha magnetizzato l’attenzione del pubblico dal primo all’ultimo secondo. Pete Lovell, frontman dalla lunga chioma biancocrinita, ha dimostrato una tenuta del palco davvero eccellente, grazie anche alla sulla sua voce potente ed espressiva. “Heavy Metal Ears”, “Diamond Dreamer” e “Eternal Dark” sono tra gli highlight della serata, ma l’inaspettata sorpresa giunge da Lovell, dichiarando che la band è finalmente al lavoro su un nuovo album di inediti. Volete ancora ignorarli?
(Gennaro ‘DJ Jen’ Dileo)
SKANNERS
I nostrani Skanners raggiungono l’ambito traguardo dei trent’anni di carriera, sigillato dalla recente pubblicazione del nuovo full length “Factory Of Steel” che conferma il loro buono stato di salute compositivo. Meritatamente piazzati in una posizione di prestigio nel bill, i ragazzi si sono resi protagonisti di uno show a dir poco elettrizzante, soprattutto per merito del carismatico vocalist Claudio Pisoni, che ha dimostrato ancora una volta di essere un vero e proprio animale da palco. Senza nascondere il proprio entusiasmo, l’inarrestabile e sorridente frontman ha sfoderato una prestazione di eccellente caratura, ben supportata dalle tonitruanti galoppate metalliche come “Skanners” e da rocciosi mid tempo come “Factory Of Steel”. Ma fa ancora più piacere notare dietro le pelli un ragazzo di appena diciotto anni, che pesta i tamburi come se fosse indiavolato, dimostrando al contempo di possedere una buona tecnica esecutiva. Una garanzia.
(Gennaro ‘DJ Jen’ Dileo)
ANGEL WITCH
Diciamocela tutta: gli Angel Witch dopo aver inciso lo strepitoso album di debutto nel lontano 1980, un’indiscutibile pietra miliare della NWOBHM più oscura, negli anni successivi hanno completamente perso il bandolo della matassa, prima sfornando un paio di dischi che strizzano l’occhio all’hard rock melodico senza eccellere, per poi ritornare nel ventunesimo secolo con il disastroso “Resurrection”, maldestro tentativo di aggiornare il sound alle nuove tendenze. Attualmente, nella line up, oltre al mastermind Kevin Heybourne, milita Bill Steer, chitarrista dei Carcass e dei Firebird, al quale spetta il compito di apportare una ventata di freschezza ad un gruppo che ad oggi si accontenta di vivere sugli allori. E’ quasi inutile sottolineare che la scaletta è incentrata sul debutto, ma francamente, è indubbio il fascino che sprigionano brani come “Gorgon”, “White Witch” e “Angel Of Death” dopo oltre trent’anni dalla loro genesi. Sicuramente, le corde vocali di Heybourne mostrano il fianco sulle note più alte, ma poco importa, perché i ragazzi ci danno dentro dall’inizio alla fine, soddisfando le aspettative dei numerosi presenti assiepati sotto il palco. Le movenze lugubri e progressive di “Baphomet” e la cantabile “Angel Witch” sono i brani più apprezzati del gig, regalando copiosi brividi lungo la schiena, anche se ci chiediamo, quando verrà partorito un nuovo album degno di questo nome. La speranza è l’ultima a morire…
(Gennaro ‘DJ Jen’ Dileo)
PRAYING MANTIS
La mantide religiosa si può considerare come la cosiddetta variante anomala della NWOBHM. Difatti, dopo la pubblicazione del capolavoro “Time Tells No Lies” nel 1981, la stella dei Nostri si è improvvisamente oscurata, rinascendo improvvisamente all’inizio del decennio successivo, grazie ad una serie di dischi che abbracciano il lato più melodico e solare dell’hard rock. Guidata dai fratelli Chris e Tino Troy, la band inglese apre le danze senza troppi convenevoli con la micidiale doppietta “Children Of The Earth” e “Panic In The Streets”, episodi estratti dallo storico debutto, ben adatte ad incendiare gli animi. Inizialmente, i volumi non appaiono ben bilanciati, penalizzando in particolar modo la voce del frontman Mike Freeland, che sulle prime battute appare freddo ed impacciato. Ma come un buon vecchio diesel, il cantante recupera il terreno perso sulla lunga distanza, sfoderando una prestazione davvero convincente soprattutto negli episodi più melodici come nella trascinante “Can’t See The Angels” e nell’emozionante ballata “Dream On”, brani che sembrano scritti da una band di arena rock americano. Dai musicisti trasuda senza ombra di dubbio una forte coesione, sensazione provata soprattutto dagli eccellenti guitar solo e dagli impeccabili incastri vocali. Stando alle parole di Freeland, vengono eseguite per la prima volta in assoluto l’eclettica “Running For Tomorrow” e la grintosa “Don’t Be Afraid Of The Dark” tratta dal full “To The Power Of Ten”. Notiamo con piacere che anche la parte più intransigente del pubblico è stata conquistata dal sound cristallino della band, che ha strappato numerosi applausi dei presenti per tutta l’esibizione. Spetta alla ruvida “Captured City” concludere un concerto decisamente riuscito, di una band che pur essendo da sempre rimasta nelle retrovie ha dimostrato di possedere una classe innata.
(Gennaro ‘DJ Jen’ Dileo)
VIRGIN STEELE
Spesso considerati (a ragione o a torto) come i cugini colti e romantici dei Manowar, i Virgin Steele ritornano in Italia per regalarci quasi due ore di musica colta, intrisa di citazioni storiche e mitologiche. Probabilmente, per cogliere tutte le sfumature delle composizioni più complesse e bizzarre, sarebbe più idoneo il palcoscenico di un maestoso teatro, in quanto, l’acustica non eccellente ha penalizzato i toni alti della chitarra e talvolta ha soffocato anche i fraseggi di tastiere. Poco importa, perché allo scoccare delle prime note di “Dust From The Burning”, rimaniamo letteralmente sbalorditi dallo stato di forma fisica di David DeFeis, ma soprattutto dalla sua ugola che a cinquant’anni suonati appare in splendida forma. Egli spazia con disarmante naturalezza dalle intense tonalità medie, ai suoi atipici acuti, fino a toccare notevoli vette espressive, grazie ai gorgheggi di matrice lirica, che servono a dare ulteriore spessore ed epicità alle canzoni. Da sottolineare il drumming al cardiopalma e puntuale come un orologio svizzero di Frank Gilchriest ed il notevole apporto chitarristico del fido Edward Pursino, impegnato senza sosta a tessere pazientemente ritmiche complesse, cucite da puntuali ed ispirati break, che rendono unici brani come “The Wine Of Violence” e “Dominion Day”. I ‘defenders’ apprezzano con entusiasmo lo show offerto dai Nostri dall’inizio alla fine, cantando a perdifiato inni come “Victory Is Mine”, “A Symphony of Steele” e “The Burning of Rome (Cry for Pompeii)” che rappresentano il lato più ruggente del gruppo americano. L’unico bis della serata è affidato a “Veni, Vidi, Vici”, maestosa mini opera che conclude uno spettacolo affatto impeccabile nell’acustica, ma denso di emozioni che ha chiuso alla grande questa edizione dello Steel Fest. Leggende viventi.
(Gennaro ‘DJ Jen’ Dileo)