STELLA NATURA: THE LIGHT OF ANCESTRAL FIRES II
Report a cura di Mattia Alagna
Fotografie di John Scharpen e Angel Coma
E’ nata una nuova fase nella fruizione di sonorità estreme dal vivo e in ambientazioni ‘en plain air’, per così dire. Il festival Stella Natura ha ufficialmente aperto una nuova era nel mondo dei festival metal open air. Sono infatti talmente tante le cose di questo evento che sono uniche e inimitabili che si può tranquillamente parlare di nuovo “fenomeno”. Non di festival e basta, dunque, ma di esperienza vera e propria. Di un evento immersivo totalmente dominato da una personalità, da un fascino e da un tipicità veramente unici al mondo. Già ribattezzato da molti ‘il Roadburn tra le nuvole’, il festival Stella Natura, che si tiene a fine settembre in occasione dell’equinozio d’autunno per sfruttare pienamente gli aspetti mistici e spirituali dell’ultima luna piena estiva e del particolare allineamento degli astri (e che quest’anno è giunto alla sua seconda edizione), è stato ideato ed è gestito da Adam Collins-Torruella, il proprietario della label neofolk Pesanta Urfolk. Quando Adam l’anno scorso ha dato il via alla prima edizione, molto più ridotta e “casalinga” della seconda, alla quale abbiamo assistito, si era prefissato l’obiettivo di dare vita ad un evento unico al mondo che avrebbe unito la musica, il pubblico, gli astri e la natura in solo magma culturale, in un singolo flusso di emozioni, evocato in maniera estremamente coinvolgente tramite la scelta meticolosa del periodo dell’anno – affatto casuale – del setting e dei musicisti coinvolti. Ne è scaturito un evento dominato da una spiritualità e da una profondità artistica torrenziale, che in tre giorni ha legato indissolubilmente le persone alla natura, tramite i suoni di band e musicisti dai tratti unici che difficilmente avrebbero risonanza altrove o troverebbero spazio nei circuiti estivi tradizionali. Vedere band apocalyptic folk, black metal, noise, funeral doom e industrial suonare nell’incredibile cornice del Tahoe National Forest Park, a due passi dal Lago Tahoe e nel cuore più profondo della Sierra Nevada californiana, in cui le montagne, le foreste di sequoie e il terreno impervio hanno impedito qualunque tipo di stanziamento umano, è un’esperienza francamente unica, incredibile e irripetibile, che per ora solo Adam Collins-Torruella e una piccola cerchia di suoi amici si sono potuti arrogare il lusso di realizzare.
Sotto l’aspetto inerente prettamente alla cronaca, possiamo dirvi che, nonostante la qualità artistica assoluta dell’evento, ci sono stati degli alti e bassi logistici, anche e soprattutto legati alla pura sorte avversa, che hanno mitigato non poco il potenziale dell’evento. Parliamo dello scandaloso lavoro svolto dal Dipartimento dell’Immigrazione americano, che ha negato i visti ai Wardruna di Gaal e ai Of The Wand And The Moon, e soprattutto all’inspiegabile e ininterrotto giorno di pioggia che ha flagellato la seconda giornata del festival e che ha impedito quasi completamente lo svolgimento di qualunque performance, e costretto la maggior parte dei presenti a lasciare il campeggio – trasformato in un gelido pantano di fango – per cercare sistemazioni alternative, presso amici o motel nelle vicine Nevada City, Reno e Auburn. Anche perché, nel tardo pomeriggio di suddetto giorno, il male si è trasformato in peggio ed è cominciata a scendere addirittura una copiosa nevicata, evento per il quale la maggior parte dell’audience, equipaggiata per lo più con vestiario estivo, non era assolutamente preparata. Nell’arco di questa surreale e orribile giornata, gli organizzatori hanno deciso di far suonare dei set acustici ad alcune delle band maggiormente folk-oriented, ovvero Knotwork, Blood Of Kvasir, Noctooa, Aerial Ruin, Will O’ The Whisp, Fire + Ice, Halo Manash, Waldteufel e perfino Jenks Miller degli Horseback, tutte performance che abbiamo purtroppo saltato nel disperato tentativo di rimanere asciutti e di salvare il salvabile tra i nostri averi nel campeggio flagellato dalle intemperie, prima di spostarci poi presso amici ad Auburn per passare la notte con un tetto sopra la testa. Nonostante la vera e propria apocalisse di sabato, gli organizzatori hanno però mostrato una professionalità e una tenacia incredibile e nella giornata di domenica, rinvigoriti da un sole nuovamente splendente, si sono adoperati in maniera incredibile per rimettere in moto l’intero festival sin dalle prime ore del mattino, facendo suonare tutte le band (precedentemente in programma per il sabato e la domenica separatamente) tutte nello stesso giorno, grazie a dei cambi palco fulminei, a dei soundcheck gestiti al millimetro, all’allestimento di un terzo palco per aumentare lo spazio delle performance e a un generale ri-scheduling del festival, avvenuto praticamente in presa diretta ma portato a termine con una professionalità incredibile. Per via di questi eventi e del tentativo degli organizzatori di dare spazio a tutte le band in bill nell’arco di un solo giorno, nella mattinata di domenica la musica è iniziata al mattino presto, proprio quando ci stavamo riprendendo da una notte da incubo, per cui – ahinoi – alle performance dei Changes, degli Amber Asylum, dei The Fools e dei Saturnalia Temples, giusto per citare alcuni degli show mancati, non abbiamo potuto purtroppo presiedere. La giornata di domenica ha comunque rovesciato la sorte e restituito a tutti i presenti gli stessi indimenticabili momenti della giornata di venerdì, nei quali la foresta, il sole prima e un cielo stellato surreale poi, il calore dei falò, il placido abbraccio delle montagne e della foresta e tanta musica indimenticabile, hanno riscaldato il cuore e l’animo di centinaia di metallari giunti da ogni angolo del globo per assistere ad uno spettacolo unico al mondo.
VENERDI’ 20 SETTEMBRE 2013
AMAROK
Colossale il set dei californiani Amarok, band sludge-doom stanziata nelle verdi foreste di Chico nel nord della California, e prima band che abbiamo potuto avere il piacere di osservare dopo esserci persi per un soffio la performance dei Weightlessness. La band ha suonato sul main stage sotto un sole splendente e ha riempito l’aria e la foresta circostante di watt roventi e giganteschi. Il loro doom metal è assolutamente monumentale e richiama in maniera tremendamente evocativa la forza più annichilente della natura. Onde e montagne di suono in un costante ribollire sono il fulcro centrale del loro suono e le loro canzoni hanno un feel altamente mistico e introspettivo. A tratti ricordano gli Electric Wizard o gli Yob ma la preziosità e sontuosità della loro esecuzione ha anche fatto tornare alla mente band più ricercate e classiche quali My Dying Bride e Candlemass. I Nostri di rado si allontanano dalla loro città natìa e si esibiscono dal vivo poco in generale, per cui vederli all’opera – nella splendida cornice dello Stella Natura oltretutto – dopo aver sentito per mesi tante ottime cose su di loro è stato un piacere immenso.
PALE CHALICE
Con la performance dei Pale Chalice le prime ombre e i primi sentori dell’oscurità hanno cominciato a serpeggiare tra l’ancora soleggiato setting del festival. La band di San Francisco, completa di corpse paint, sangue finto, cinture a cartucciera, spunzoni e abbigliamento fully black sembrava in realtà giunta direttamente dalle gelide foreste della Norvegia di due decenni fa. Il loro black metal è infatti un affare di altri tempi, talmente iconico e riconoscibile da risultare quasi parossistico. Un’ora di bordate tharsh primordiali, di blasfemia incontrollata e maligno musicale a trecentosessanta gradi che ci ha riportato con la mente direttamente nella scandinavia del 1992, dei Mayhem, degli Emperor, dei Darkthrone, eccetera. Performance solidissima e compattissima nonostante il genere proposto davvero stantio e inflazionato e l’immaginario generale che la band impone, che è comunque quanto di più stravisto e strasentito si possa concepire.
ALDEBARAN
Gli Aldebaran li avevamo già visti in azione nella Bay Area in occasione del loro tour insieme ai riuniti Graves At Sea, e anche loro sono reduci dalla pubblicazione di un dignitosissimo debutto su Profound Lore che raccolto i plausi di pubblico e critica in tutto il mondo. I ragazzi di Portland hanno un sound che viaggia su un unico binario, ovvero quello di una sorta di coma musicale totale. Il loro funeral doom è infatti talmente monolitico e immobile da rasentare la sospensione di ogni forma di esistenza o del naturale fluire delle cose. Riff immani e colossali vengono proiettati dagli Aldebaran sul pubblico come monoliti occulti e poi congelati a mezz’aria in una stasi opprimente. Gli Aldebaran non solo suonano la loro musica, ma sembrano somministrarla al pubblico piano piano, come fosse un assurdo e monumentale narcotico progettato per scollegare la mente dal corpo, creando tra i presenti una sorta di ipnosi o di stato di lucido dormiveglia. Tra un riff e l’altro possono passare anche minuti tanto la musica degli Aldebaran è lenta e comatosa e va detto che a latitudini stilistiche così estreme lo spazio per stupire o comunque coinvolgere è ridotto veramente al minimo. La proposta dunque è davvero estrema e richiede senza dubbio la presenza di un orecchio allenato per essere apprezzata e soprattutto di gusti musicali compatibili con un tale immobilismo musicale. Il setting dello Stella Natura è stato comunque più che adatto alla proposta dei Nostri e infatti il pubblico ha più che gradito il loro mortifero set tratto quasi esclusivamente dal loro ultimo album “Embracing the Lightless Depths”.
DISPIRIT
John Gossard e soci hanno avuto il lusso di impadronirsi del crepuscolo della prima giornata del Stella Natura ed è stato affidato a loro il compito di traghettare il pubblico dal giorno alla notte immensa, gelida e infinita delle montagne della Sierra Nevada Californiana. Mai scelta fu più appropriata, visto che i Nostri sono autori del black doom più depresso, disperato, contorto, crepuscolare e malvagio che si possa concepire, ma allo stesso tempo anche caratterizzato da un taglio molto cosmico e tremendamente psichedelico. I Dispirit sono autori di canzoni lunghe in media venti minuti che si arrampicano come serpenti su per i pilastri dell’ignoto e che hanno il sentore di un incubo a occhi aperti, di un sincretismo malvagio in cui gli Skepticism, primi Mayhem, Leviathan, Christan Death e i Beherit strisciano all’unisono nelle tenebre più totali e si tessono e intersecano a vicenda in trame di orrore e disperazione infinite. Questa musica ha il suono della fine dell’umanità, e l’inizio di una sofferenza troppo immane da poter descrivere. Gli assoli di John Gossard sono obliqui e devianti sibili di morte sferzati da un flanger fuori controllo e annegati nel chorus, le sue voci chiamano ogni anima presente alla tomba e le trame compositive tutte della band sono un gigantesco oblio psichedelico in cui antico e deforme progressive rock, e scorie kraut e noise creano una sofferenza uditiva dai tratti quasi labirintici. Dopo oltre dieci anni di attività un album vero e proprio ancora non si vede (ci sono solo due demo in cassetta entrambi fuori stampa!) e probabilmente non lo vedremo mai, ma questa è davvero una band immensa che ha regalato al festival un performance indimenticabile che, quasi quasi, ci ha anche fatto dimenticare per un secondo la grande eredità dei Weakling.
HELL
Da non confondere con i thrasher tedeschi omonimi, gli Hell da Salem – Oregon, viaggiano su tutt’altri binari, ovvero quelli della devastazione più cieca e abietta che si possa immaginare nel panorama doom. Il loro sludge-doom è di quelli che non lasciano scampo, che mutilano, sfigurano e devastano ogni cosa che si posi sul loro percorso. Questa band odia tutto ciò che li circonda e questa loro caratteristica nella loro musica si sente in maniera spaventosa. Sembra quasi che i loro riff assomiglino ad enormi artigli che cercano di afferrare il pubblico per la testa per spappolargli il cranio in una morsa crudele. A tratti rimaniamo allibiti dalla pura potenza di questa band capace di veicolare con dei riff tritaossa una rabbia e un odio non quantificabili. Gli Hell sono tra i migliori eredi dei Corrupted e il loro sludge-doom ultra-nichilista, proprio come quello dei leggendari distruttori giapponesi, non ha nulla a che spartire con l’occulto, la morte o la magia di cui tanto doom metal invece è innamorato. Questi quattro ragazzi dell’Oregon sembrano non avere alcun interesse al di fuori di quello di reclamare sangue a damigiane e odiare tutto ciò che li circonda, e rendere questo concetto chiaro e cristallino nella mente di chi ascolta tramite la loro musica bestiale e sanguinaria. Raramente capita di essere odiati così tanto da degli estranei senza motivo apparente, ma la musica degli Hell fa proprio questo: trasmette il sentore raccapricciante di essere odiati. Immondi ed immensi.
WORM OUROBOROS
Gradevole scorcio di melodia e delicatezza quello offertoci dai Worm Ouroboros di Oakland e che ci ha fatto riprendere fiato dalle tre ore di devastazione e morte delle band precedenti. La band di Jessica Way e Lorraine Rath in cui milita dietro le pelli anche Aesop Decker degli Agalloch ci ha offerto uno show struggente ed altamente introspettivo ed onirico in cui post-rock, folk e gothic doom convivono in un una armonia surreale e struggente. Incredibile lo squarcio visuale della band che suonava stagliata contro un backdrop di silhouette di pini attraverso il quale risplendeva una luna piena gigantesca e surreale. La band ha ridotto tutti in un silenzio reverenziale, ipnotizzando e incantando tutti i presenti con line di post-rock minimale incredibilmente sinuose e soavi amplificate nel loro enorme carico emotivo dalle voci fatate e stellari delle due frontwoman. La Way e la Rath ormai sembrano aver creato un legame artistico ed espressivo indissolubile e dalla potenza immaginifica incredibile e capace di evocare in egual misura la grandeur dei Dead Can Dance, il fascino dannato di Diamanda Galas, le oscure trame cerimoniali di Jarboe e dei Current 93 e l’evocatività dei Paradise Lost in maniera originalissima e sorprendente.
LOSS
La performance della band del Tennessee verrà ricordata dai presenti come una delle più commuoventi e sentite dell’intero festival. Il frontman cantante/chitarrista extra-large della band, Mike Meacham, è stato protagonista di una performance da professionista vero e da cerimoniere assoluto di un rituale che non ha eguali. La sua presenza imperiosa e struggente allo stesso tempo ha catalizzato l’attenzione della platea in maniera ipnotica ed ogni sguardo dal pubblico ha seguito ogni sua mossa sul palco come solo quelle dei grandi leader dal carisma infinito vengono seguite. L’intero concept della band – dal nome, alle liriche ai suoni – ruota completamente attorno ai concetti di solitudine e abbandono, e questa loro concettualizzazione di sentori affranti e inconsolabili ha contribuito a rendere la band altamente iconica ed evocativa nello stile e nell’immaginario. Le canzoni dei Loss sono enormi e dirompenti pianti di dolore ed enormi lamenti di solitudine e pentimento. Il grido di tutte le anime abbandonate del mondo che vivono nella solitudine più totale. La loro musica suona come una marcia funebre, come una pioggia incessante di lacrime e disperazione. Il loro funeral death-doom ha la peculiarità di essere “bello” ed aggraziato e dominato da una bellezza compositiva innegabile. Gli assoli di Mike Meacham e di Timothei Lewis provengono direttamente dal post-rock e dal gothic rock e sono estremamente nitidi e cristallini e dominati da una preziosità e da una cura formale incredibile. I breakdown propriamente doom della band sono colossali e struggenti prolassi emotivi dominati da dei riff titanici e squassanti e dalle voci tombali di Meacham, forse le più basse e gutturali che il mondo del metal abbia mai udito. Performance impeccabile e tra le più sentite ed struggenti dell’intero festival. Il pugno alzato al cielo di Meacham durante il drone finale di “Silent and Completely Overcome” è stato senza dubbio tra i momenti più emozionanti dell’intero festival. Concerto davvero da incorniciare.
KENLT ROTE
Ed è giunto il momento di dirvi chiaro e tondo a chi va lo scettro di dominatori indiscussi del festival, per lo meno secondo la nostra umile opinione. Il premio di campioni assoluti per presenza, intensità, originalità e di pura e semplice qualità va senza ombra di dubbio agli oregoniani Knelt Rote. Il fatto strano è che sono stati sia la band più diretta e facilmente inquadrabile del festival che anche la più ambigua e stramba allo stesso tempo, una conflittualità intrinseca che caratterizza la band e che li rende una realtà ancora più intrigante e affascinante. Partiti come band noise-grind in pieno stile Bastard Noise, Noism eccetera solo qualche anno fa, la band è poi giunta con il passare del tempo a perfezionare una formula più diretta e radicata nel death metal e nel death-grind più moderno e strutturato. La loro musica è dunque dominata da un bagaglio tecnico notevolissimo e da uno stile altamente dinamico ed espressivo che fa trapelare senza fatica la loro natura di virtuosi. Tutto questo in superficie. Ma all’essenza, nell’anima interiore della band, le cose stanno diversamente, poiché lì albergano un orrore e un caos che hanno la gittata e la potenza di un’apocalisse. Cosa vive in profondità nella musica di questa band è una brutalità che non abbiamo mai visto prima e per la quale le capacità tecniche sono solo il più sensato dei mezzi espressivi. Questi quattro ragazzi sono in possesso dell’impianto sonoro più annichilente, rabbioso e bestiale che abbiamo mai visto. La loro musica ha il suono di un olocausto nucleare. Le canzoni hanno l’andazzo di una guerra senza confini. Velocità di esecuzione spaventosa, suoni surreali, spietati e sanguinari, un attacco vocale a quattro che fa sembrare la band un cerbero infernale dalle multiple fauci. Tutto di questa band è dominato da una bestialità sconfinata. I pattern di batteria di Charlie Mumma hanno una qualcosa di geniale, una inventiva e una rabbia in grado di ridicolizzare per intensità ed esecuzione la maggior parte dei drummer death metal mondiali, anche ui più famosi e blasonati. “Trespass”, l’ultimo lavoro della band uscito l’anno scorso si Nuclear War Now aveva fatto trapelare questo genio, grazie al suo incredibile alchimia di death-grind, noise e progressive disumano, ma nulla ci aveva fatto presagire la carneficina immane che è questa band dal vivo. La rabbia non solo cieca ma a sua volta accecante con la quale suonano, il mondo in cui guardano il pubblico negli occhi, prima odiandolo con tutto se stessi e poi distruggendolo con uno sguardo, la padronanza spaventosa che hanno del rumore e dei loro antichi retaggi noise, e in generale la colossale intensità che caratterizza i loro set. Questa band ha dominato su tutto e tutti con una facilità spaventosa, non ci sono altre parole. Siamo nelle loro mani.
STARGAZER
Dalle lontane e desolate lande dell’entroterra australiano arriva una band che ha praticamente vissuto la propria intera esistenza a cavallo tra realtà e fantasia. La loro esistenza defilata e dominata dall’inattività e dall’intermittenza ha fatto anche dubitare della sua reale esistenza e alimentato in eterno le eterne voci dello scioglimento e della non esistenza, soprattuto un virtù del fatto che la maggior parte dei membri sono solitamente impegnati nei Mornful Congregation. Ma gli Stargazer alla fine sono apparsi in carne e ossa dinnanzi a noi dopo aver viaggiato per diecimila chilometri per suonare di fronte ad una congregazione di metallari infreddoliti e stremati riunitisi sui gelidi picchi della Sierra Californiana e strettasi attorno ai falò, uniche luci in una foresta vastissima, gelida e sconfinata. In questo senso gli Stargazer sono band perfetta per uno scenario simile, dominato da sentori di distaccamento, isolamento e totale perdita del contatto con il mondo. Come molti sanno la musica australiana, il metal in particolare, forse per via dell’isolamento geografico, sviluppa spesso tratti tutti suoi, lineamenti ambigui e indecifrabili, a volte incomprensibili per il pubblico abituato al metal europeo o made in USA. Come nel caso dei Disembowelment, dei Portal, e degli Alchemist, tanto per citarne alcuni, anche la musica degli Stargazer risponde a logiche tutte sue, intrinseche e indecifrabili ai più. Il loro death-black metal ha qualcosa di ancestrale e sconosciuto che si lega in maniera stranissima ad un futuro lontanissimo e inconoscibile. La band sembra quasi l’espressione uditiva del libro “Cloud Atlas” come se questo fosse stato trasposto in chiave metal, poichè anche la loro muscia, che è in fin dei conti null’altro che una concatenazione dell’assurdo, spazia da nozioni incredibilmente primitive del metal a tratti stilistici futuristici tipici dell’avantgarde metal, con enorme facilità e fluidità. Le loro dissonanze e il modo in cui sviluppano un discorso sempre e comunque psichedelico seppur calato bella tradizione del primissimo death-black dei Dissection e dei primi Behemoth lascia storditi. Sembrano a tratti una band Kraut che ha perso il senno e subito una orrenda accelerazione, una deformazione della coscienza. Una mutazione immonda in chiave psichedelica. Band difficilissima da descrivere che suona musica osticissima e inclassificabile, e forse proprio per questo perfettamente calata nella surreale cornice del main stage dello Stella Natura, circondato dalle tenebre di una foresta antichissima e illuminato solo dalla luna e dal timido calore dei falò.
ASH BORER
Mentre la prima giornata del festival sprofonda sempre più in profondità nelle tenebre di una notte surreale, arriva il momento degli Ash Borer, bimbi prodigio del cosiddetto “cascasdian black metal” e pupilli assoluti dello stravagante roster della Profound Lore Records. Come nel caso del fenomeno Wolves In The Throne Room, anche questa band vive per scelta al limite dell’umanità e al di fuori di ogni influenza urbana. Nati nelle foreste di Arcata, cittadina rurale inerpicata sulle montagne che separano l’Oregon dalla California, i Nostri sono autori di un black metal furioso, surreale e vastissimo impregnato di spiccati connotati crust punk, doom e post rock. Le canzoni del quintetto durano in media un quarto d’ora e sono vere e proprie odissee di disperazione e distaccamento. Suoni gelidi e inanimi e atmosfere tese e strazianti sono la ricetta principale della band che forse per la prima volta si ritrova a suonare su un palco provvisto di un impianto decente e capace di far germogliare il loro sound, altrimenti sempre schiavo di impianti e location non all’altezza e soggiogato sempre da lacune tecniche di ogni tipo. Ci è infatti capitato di vederli in azione in scantinati, centri sociali fatiscenti, comuni punk ecc con dei suoni improponibili. Stavolta il loro suono lavico e opprimente sgorga sicuro e monolitico dall’impianto audio professionale dello Stella Natura e il risultato è esaltante. Staffilate gelide e mortifere di black metal primitivo si alternano a svettanti cavalcate doom e da marcissime paludi di crust punk caustico e dannatissimo. La presenza di tastiere dona al loro sound un taglio simil-industrial che ricorda gli abissi apocalittici dei Neurosis prestati ad un maligno inspiegabile. Finalmente abbiamo visto una band sempre monca dei mezzi tecnici adeguati esprimersi al pieno delle proprie capacità, ed il risultato è stato eccellente.
MERKSTAVE
I Merkstave hanno suonato ma non esistono più. Si sono riformati dopo lo scioglimento dell’anno scorso unicamente per presenziare il festival e una volta finita la performance, ogni membro della band ha fatto le valigie ancora una volta, staccando la spina alla band e tornando alla propria vita come se nulla fosse. Questo in un certo senso dà l’idea di cosa possa significare per molti un festival come questo e quali bizzarre scelte a volte si fanno per onorare un invito così unico e irripetibile. Nati nel 2011 e scioltisi nel 2013 dopo giusto un paio d’anni di attività la band dell’Oregon ha licenziato due demo e un full length per poi sparire nel nulla, ma innescando una sorta di venerazione postuma che li sta ora facendo diventare una sorta di fenomeno di culto. Due dei loro membri li abbiamo però riconosciuti nei precedenti e validissimi Hell, segno inequivocabile che quest’ultima band sembra essere nata proprio dalle ceneri dei Merkstave, e infatti i punti di contatto stilistici tra le due band sono davvero notevoli. La band ha suonato la propria personalissima forma di extreme doom in maniera impeccabile e non ha affatto trapelare alcuna indicazione sul proprio status di band inattiva. L’affiatamento tra i membri sul palco è stato totale e la band ha vomitato fuori il suo iconico drone-doom con un carattere, una compattezza e una tipicità invidiabili. La formula proposta dalla band è al limite della decenza: un drone-doom tombale e completamente devastato. Onde giganti di feedback mortifero e infetto puntellate da percussioni talmente sparse e sparpagliate da rasentare il battito primitivo di un cuore demoniaco. Moss, Sunn O))), Electric Wizard, Corrupted e primi Earth forzati in un buco nero di oppressione e negatività che non ha lascia scampo. Un supplizio immondo che ha trasformato il pubblico in un cimitero di timpani.
TREPANERINGSRITUALEN / SUTEKH HEXEN
Chiude la prima serata del festival la performance collaborativa tra due pesi massimi del blackened noise mondiale, rappresentanti una l’Europa e l’altra gli USA e le due diverse culture di riferimento nel genere. Lo show in questione per ovvi motivi inerenti alla tipologia di musica viene spostato ad un palco più piccolo circondato da una pineta spettrale e illuminato da candelabri e strobi blu e avvolto da una fittissima coltre di nebbia artificiale. Lo spettacolo è raccappricciante e questo piccolo scorcio di terrore auditivo-visuale rappresenterà uno dei momenti più interessanti e stravaganti dell’intero festival. Apre le danze Trepaneringsritualen, one-man band e progetto del noisemaker svedese Thomas Martin Ekelund. La performance di Ekelund può ricordare da lontano il lavoro di Attila Cshar quando attivo nei Sunn O))) o nel progtto Void of Voices. Parliamo di enormi e contortissime costruzioni di vocals distorte e demoniache stagliate contro un backdrop spaventoso di rumore e scorticamenti industriali i dogni tipo. La musica in questo senso sgorga fuori costruita con una struttura a “maree”. Il rumore pulsa e respira alternando momenti di intensità elevatissima ad altri in cui domina una quiete spettrale e angosciante. Catalizzatore di tutto le vocals surreali e demoniache du Ekelund, distorte e deformate da una marea di pedali ed effetti. Grazie all’abilissima manipolazione di delay e loop Ekelund è infatti riuscito con mezzi limitatissimi a costruire vere e proprie sculture vocali e gigantesche trame corali. Mentre Ekelund è intento a vomitare sulla folla il suo assurdo e demoniaco show, i Sutekh Hexen prendono posizione sul palco alle sue spalle e cominciano a far ribollire i loro ampli in sottofondo facendo presagire che gli show dei due progetti avranno un punto di contatto in cui entrambi di entrambi i progetti suoneranno contemporaneamente per poi separarsi per lasciare strada allo show solitario degli Hexen nel finale. E il risultato è da manicomio. Alle voci infernali di Ekelund cominciano ad alternarsi con insistenza sempre maggiore i gracchi grotteschi e malati di Andy Way e suoi assurdi sibili di rumore industriale. Presto fanno il loro ingresso anche le chitarre iperdistorte e gravide di feedback di Kevin Gan Yuen, accompagnato a sua volta dalla marea di spazzatura fuzz proveniente dal basso di Joshua Churchill. Il rumore immondo e cacofonico generato dai due progetti in simultanea entrambi circondati da una notte spettrale, ha spianato la strada ad una esperienza rasente l’incubo. A questo punto la temperatura nella foresta è prossima agli zero gradi e la nebbia, per quanto artificiale, avvolge tutto e non si vede ad un palmo dal naso. L’unica cosa distinguibile sono le teste incappucciate dei presenti seduti a terra e la luna piena appesa in cielo come un impiccato luminescente. La prima serata dello Stella Natura si chiude così in una spaventosa allucinazione di blackened noise degna veramente del peggiore e più delirante degli incubi
DOMENICA 22 SETTEMBRE 2013
KINIT HER
Con il sole mattutino di nuovo alto nel cielo a scaldare animi e membra ai presenti dopo un sabato da dimenticare, ci rechiamo in una splendida pineta più a valle presso la quale è stato allestito il terzo palco per accomodare il surplus di band provocato dal maltempo del giorno pecedente, per assistere alla prima vera esibizione apocalytpic folk del festival. Protagonisti della performance sono stati i Knit Her, band proveniente dal Wisconsin e simbolo del movimento neofolk moderno di diretta discendenza dai Current 93 e dei Sol Invictus. La performance della band è stata impeccabile seppur calata nella sua intrinseca scarnezza musicale – dominata in tutto e per tutto da strumenti acustici – e caratterizzata dalla storica ambiguità che caratterizza da sempre il genere, ovvero da una solarità e irriverenza ovvia nei suoni ma di una cupezza e di una negatività inconsolabile nelle liriche e nei moods generali della musica. Rigorosamente priva di una sezione ritmica vera e propria – se non per la presenza di tamburelli e tamburi a mano – e assolutamente acustica, la performance della band ha evocato scenari di rassegnazione e redenzione, di spiccatissime inclinazioni occulte e apocalittiche. Inutile dire che di ciccia da sgranocchiare per i metallari nella musica di questa band ve ne sia davvero poca, ma il fascino del festival passa anche da queste divergenze e da questa piacevolissima ambiguità di fondo.
BELL WITCH
Dei Bell Witch si è parlato tanto in tempi recenti, su queste pagine e non solo. Il loro biglietto da visita d’altronde non lascia spazio a dubbi: ex-membri dei Samothrace, contratto anche loro con la Profound Lore, formazione coraggiosissima ridotta a duo di solo basso e batteria e un album di debutto, l’ottimo “Longing”, che ha appassionato pubblico e critica senza mezze misure. Il duo è stato protagonista a sua volta di un set concretissimo ed estremamente efficiente nonostante la lineup ridotta del duo. A noi personalmente la band ricorda una versione doom e ultra-rallentata dei Lightning Bolt. Il basso a sei corde iper-distorto di Dylan Desmond ricorda nettezza la pesantezza scellerata della cinque corde di Brian Gibson seppur, calato in vesti stilistiche completamente opposte e con intenti sonici del tutto diversi. Il duo è affiatatissimo e approccia volatili e astrattisssimi passaggi post-rock e minimal-acustici con gran disinvoltura contrapponendoli poi a colossali breakdown doom senza mostrare incertezze di sorta e creando transizioni fluidissime e completamente prive di forzature. Il loro doom metal in questo appare ricercatissimo: il duo ha un senso della melodia sviluppatissimo ma è capace anche di manipolare il rumore e il feedback in maniera surreale usandoli poi come armi devastanti per i loro colossali attacchi sludge-doom. E tutto questo cataclismico e ricercatissimo disegno sonico viene assemblato dai due solo tramite un basso e una batteria. Band davvero più unica che rara.
COMMON EIDER, KING EIDER
I Common Eider, King Eider sono una band avantgarde-rock di San Francisco che si autodefinisce però “a music and art collective”. La band è formata da Rob Fisk (Badgerlore, 7 Year Rabbit Cycle, ex-Deerhoof e proprietario della leggendaria Aquarius Records), George Chen (Chen Santa Maria, 7 Year Rabbit Cycle, KIT (2)), Gregory Hagan (Pale Reverse), Vicky Fong (Lake of Blood) e Blaan Tod. Il progetto è maggiormente conosciuto per i suoi suoni astratti e dai forti connotati ambient, che hanno trovato ampio successo nel cinema e nel teatro indipendente, essendo stati ampiamente usati per score e colonne sonore di noir e documentari indie. La band è stata protagonista di un set monolitico ma vaporoso, suonando musica raramente coesa in strutture musicali familiari e riconoscibili ma al contrario astrattissime e inclassficabili. Per semplicità li definiamo una band post-rock in stile Godspeed You! Black Emperor anche se una la terminologia simile sta loro davvero strettissima. Certi momenti più concreti e diretti potevano ricordare Nick Cave, gli Swans di “White Light From The Mouth of Infinity” o i Codeine, ma in generale il set dei nostri è stato ben più cinematografico che musicale è ha necessitato attenzione e concentrazione costanti ad ogni livello per poter essere apprezzata e per non perdere il filo del loro astrattismo discorso sonico. A tratti l’esperienza è stata sfiancante ma il tentativo della band di dire qualcosa di nuovo e diverso dal solito non solo è ammirevole ma è anche stato un successo concretizzatosi con nettezza.
HAIL
Gli Hail sono senza dubbio stati il fenomeno da baraccone del festival, presentandosi sul palco incappucciati come dei monaci dall’inferno (sembianza questa che ha ricordato paurosomente quella dei ben più famosi Ghost) e portandosi dietro altarini, incensi e altre stramberie occulte di ogni tipo. La band è un fenomeno di culto nel midwest e molto conosciuta nei circuiti neofolk e occulti della West Coast grazie al loro stile simil-maligno ma irriverente, ironico e sempre orientato a scandalizzare e attirare l’attenzione più con comportamenti circensi che con la loro musica soltanto. La band è anche nota per essere il nuovo progetto di Isamu Sato (il primo ma ormai ex-bassista degli Yob) e di Travis Foster (anche lui tutt’oggi ben più conosciuto come il batterista degli Yob). La band suona un black metal surreale e circense dominato da fortissime tinte gothic, folk e avantgarde. Possono ricordare i Mercyful Fate e i primi Celtic Frost nei loro momenti più diretti ed heavy ma sono senza dubbio i Death SS e i Mortuary Drape e tutto quel proto-black gotico e cabarettistico d’annata a rappresentare l’essenza del loro sound. La loro performance è stata irriverente ed energica e la band si è certamente distinta dalla oscurità e serietà un po’ pretenziosa e seriosa di tutte le altre band grazie ad un set pimpante e davvero esagerato sotto l’aspetto della presenza scenica, e prevalentemente incentrato sull’imposizione dei tanti cliché e luoghi comuni legati al satanismo, all’occulto e al maligno. Una boccata d’aria fresca.
VELNIAS
Anche I Velnias seppur provenienti dal Colorado possono essere considerati esponenti di spicco del cosiddetto Cascadian Black Metal della West Coast, proprio come i loro stretti cugini Ash Borer e i ben più noti Wolves In The Throne Room. E se si parte da queste premesse effettivamente viene molto facile inquadrare il sound della band fatto anch’esso di quel blasonatissimo mix di black metal, hardcore, folk e post-rock che siamo venuti a conoscere così bene negli ultimi anni. I Velnias però hanno una delicatezza di fondo che li separa dall’oscurità abissale degli Ash Borer per esempio, e il loro sound è più solare, colorito ed estroverso e predilige maggiormente strutture compositive ariose ed epiche atte a fare respirare maggiormente i loro retaggi folk e la loro indole post-rock. Il loro tentativo di rimanere però ancorati ad un discorso concettuale “bucolico” e radicato nell’isolamento e nella solitudine che deriva dal tentativo di volersi ricongiungere con la natura rimane però completamente preservato e questo a sua volta ha permesso alle loro inclinazioni più propriamente black metal di respirare sempre con facilità e disinvoltura. I Nostri sono stati autori di un set compattissimo e altamente coinvolgente soprattutto nei suoi momenti più atmosferici e dilatati, ma abbiamo però notato una debolezza di fondo nella loro proposta quando impegnati in passaggi più serrati ed aggressivi, forse il risultato della loro spontanea propensione a voler includere il black metal nel loro sound senza però essere affatto una band black metal. Questa loro incertezza li ha penalizzati non poco sul piano dell’impatto e della presenza scenica, soprattutto se comparati al set abissale e atroce dei loro strettissimi cugini Ash Borer, i quali a conti fatti li hanno battuti ai punti su tutti i fronti.
JARBOE
Prendere o lasciare, non ci sono altre parole per introdurre il set della sacerdotessa. La musica solista di Jarboe o la si ama o la si odia, ma non ci sono vie di mezzo. La strega del post-rock americano anche stavolta ha fatto tutto di testa sua, pregevolmente infischiandosene di ogni regola o trend e proponendo un set dominato da una drammaticità al limite del parossistico e di una pomposità, di un astrattismo e di un egocentrismo al limite del pretenzioso. Bisogna essere fan della musa per apprezzarla in queste sue fasi, poiché non è proprio suo costume proporre musica in grado coinvolgere e di convertire nel momento chi è poco familiare con le sua musica. Le “sceneggiate” vocali, iper-drammatiche e iper-teatrali di Jarboe sono una di quelle cose troppo ermetiche e legate alla sua visione personale del mondo per avere alcun tratto di versatilità o orecchiabilità. La musicista come prevedibile ha dominato la scena con la sua voce da banshee impazzita, presa direttamente dalla lirica ma prestata all’occultismo più totale. Accompagnata soltanto da una chitarra acustica suonata con una foga al limite del maniacale, la vocalist newyorkese si è resa protagonista di un set obliquo, surreale a tratti strampalato e visibilmente improvvisato. Le sue capacità vocali sono spaventose e i suoi sinuosi e ondulati canti di dolore hanno risuonato nella foresta come il canto di un essere mitologico. Ma bisogna ammettere che oltre un’ora di ululati strazianti e tormenti corali tutti uguali e piantati sulle medesime ottave, per quanto tecnicamente ineccepibili, hanno rappresentato uno scoglio immane da superare per l’ascoltatore casuale o per lo meno per i non-fan della cantante. Ma Jarboe non è nuova a questo tipo di “sceneggiate”, chi conosce la sua recente carriera solista e la sua attività live post-Swans, sa benissimo che la cantante è quasi sempre autrice di performance dall’appeal di massa prossimi allo zero proprio perché impone nei suoi show tutta la sua particolarissima personalità e la sua peculiare visione in maniera prepotente e quasi egoistica. Può sembrare una cosa fastidiosa, pretenziosa e infruttuosa ma in realtà non si tratta di altro che di totale libertà creativa e di controllo totale su tutto il suo operato, per cui i discorsi stanno a zero, Jarboe può essere osticissima nella forma, ma rimane una grandissima artista nella sostanza.
HEXVESSEL
La medaglia d’argento e secondo posto sul podio – dopo il primo posto inarrivabile dei Knelt Rote – per la performance più valida del festival spetta senza dubbio ai finlandesi Hexvessel, la band guidata dal tenebroso vocalist inglese black metal noto con il nome di Kvhost. Cosa dire di una band nell’ambientazione live che ad ogni uscita discografica ci ha letteralmente spazzati via con dei lavori sempre ridicoli per qualità compositiva e potenza immaginifica? Semplicemente che dal vivo hanno lo stesso medesimo impatto emotivo che su disco e che la loro performance allo Stella Natura ha rasentato il miracolo e ridotto tutti in lacrime tanto il lor set è magico, estremamente sentito e stra-carico di emozioni. La loro musica è semplicemente dominata dalla grazia e dalla bellezza più primordiale e selvaggia che si possa immaginare. E’ come una droga, un filtro d’amore che ci fa scorrere nelle vene sensazioni incredibili e che è in grado di coinvolgere i nostri sensi e le nostre emozioni in modi impensabili e indescrivibili. Le voci di Kvohst sono disumane e il musicista inglese è stato in grado di catalizzare una ammirazione e una venerazione tra il pubblico incredibile, quasi come se avesse rapito il pubblico con un incantesimo. E’ stato interessantissimo vedere come le canzoni della band dal vivo hanno un carico molto più rock che su supporto audio. Le chitarre dal vivo hanno una presenza più imperiosa e questo ha contributo ad amplificare il taglio doom e occulto della loro musica, accentuando quelle loro influenze sabbathiane che su disco appaiono più velate. Le ritmiche sono apparse più dinamiche ed energiche che su disco a loro volta amplificando il feel progressive e psichedelico della loro musica. La setlist come prevedibile è stata per lo più dominata dalle tante perle che costellano il capolavoro “No Holier Temple”: “His Portal Tomb, “Woods To Conjure”, “Unseen Sun”, “Your Head Is Reeling”, “A Letter in Birch Bark”, “Heaven and Earth Magic”, e la struggente “Sacred Marriage” sono state eseguite tutte alla perfezione e con un pathos disarmante. Ogni canzone, ad ogni suo turno ha ridotto la platea praticamente in lacrime forti delle loro melodie perfette e surreali del loro enorme carico magico-mistico e della loro enorme forza evocativa. Non è possibile spiegare con parole cosa è stato vedere questa band suonare al chiaro di luna sotto un cielo stellato, accanto ad un falò e circondati da una foresta che sembrava stregata. Esperienza della vita che probabilmente non accadrà mai più.
LUX INTERNA
I Lux Interna sono una band apocalyptic folk/post-rock che vede seduto dietro le pelli Adam Collins-Torruella, l’organizzatore del festival in persona. La band è autrice di uno space rock cosmico e onirico dagli spiccatissimi connotati folk e acustici. Il mandolino e i violini sono dominatori assoluti del loro suono e il tipo di composizione di cui sono autori è di quelli che prediligono in tutto e per tutto un approccio psichedelico e lisergico ma molto minimalistico e raccolto che ha lo scopo di far viaggiare l’ascoltare in lande sonore delicate ma desolate e dominate da sensazioni di solitudine e redenzione. Non lontano da certi suoni neofolk ma molto roots oriented di scuola Neurot (US Christmas, Amber Asylum, Savage Republic, e i progetti solisti-acustici di Steve Von Till e Scott Kelly), la musica dei Nostri è anche caratterizzata da tratti sciamanici che spesso finiscono per chiudere la performance della band in pattern ipnotici, ripetitivi e circolari dal feel altamente liturgico e cerimoniale. Il mix dei generi proposti tutti in uno dalla band in generale è avvincente e mai del tutto privo di una vera anima rock and roll, ottimamente espressa grazie ad a carichi notevoli di fuzz e rumore statico nel basso e nella chitarre che hanno donato al tutto un taglio quasi stoner rock seppur così pesantemente calato nelle primordiali vesti della musica roots e folk di stampo nordamericano. Uno spettacolo davvero coinvolgente.
ESOTERIC
Il primo show mai tenuto dagli Esoteric sul suolo americano avviene nelle tenebre di una foresta vastissima e illuminata solo dal chiaro di luna. Questo deve darvi l’idea dell’evento incredibile al quale abbiamo assistito. Il setting per la prima performance americana della leggendaria doom metal band inglese è senza dubbio di quelli eccezionali, e la band lo ha capito fin troppo bene e ha dunque deciso di regalare al pubblico dello Stella Natura uno show da non dimenticare mai. Tre chitarre, una marea di tastiere, una sezione ritmica titanica e devastante e le voci grottesche e raccapriccianti di Greg Chandler – filtrate attraverso un marasma assurdo di effetti e distorsioni – sono stati tutti elementi costitutivi e immancabili di un sound immenso e inimitabile che è stato perfezionato dalla band nell’arco di oltre vent’anni, e che li ha resi pionieri assoluti del funeral doom e del death doom. Tanta esperienza, una mare di personalità, una compattezza di esecuzione spaventosa e la voglia di annichilire tutto sono stati gli elementi salienti che hanno materializzato lo show squassante che gli Esoteric hanno tenuto allo Stella Natura. Zero fronzoli, zero giri di parole, zero interazione con il pubblico e zero pause. Per due ore, a testa bassa, senza interruzione alcuna e con le idee chiarissime in testa la band inglese si è fiondata in un set annichilente che ha toccato estremi di pesantezza abissali e picci di astrattismo metallico indicibili. A tratti il peso delle tre chitarre sparate ad un volume disumano e tutte puntate a convergere nel medesimo punto hanno come creato una sorta di cappa di orrore sopra al pubblico. Una cupola di suono immane che con la lentezza simile a quella dello spostamento inesorabile di un ghiacciaio è stata calata sopra le povere teste del pubblico in un oblio sonico annichilente. Momenti surreali di minimalismo deforme e malato provenienti da un estetica post-industriale completamente polverizzata e sbriciolata hanno costellato il set degli Esoteric come se questi si fossero simbolicamente presi una pausa e si fossero chinati a tirare fuori altre munizioni per ricaricare le armi. Passano i minuti in una ripetitività angosciante di arpeggi spastici e sbilenchi e la band lentamente si rialza, ritesse le trame della loro guerra sonora con precisione certosina e con un peso atmosferico immenso dominato da composizioni intricatissime. Eleva l’intensità a livelli insopportabili per poi riprendere la mira e deflagrare gigantesche cannonate di death-doom tombale e soffocante contro la folla che hanno colpito il pubblico come fosse finito in una trincea sotto un bombardamento immondo. La compattezza mostrata dalla band nell’eseguire canzoni lunghe venti minuti, estremamente tortuose e contorte, e dominate da sali-scendi intricatissimi, da atmosfere surreali e da momenti di progressive metal vero e proprio sono un qualcosa che è possibile ammirare davvero in pochissime band e gli Esoteric sono leader assoluti di questa ristrettissima cerchia di band dotate di un talento che va al di là di ciò che si vede comunemente in giro. Show totale, immenso e irripetibile.