A cura di Marco Scilhanick
Traspare molta curiosità nei presenti intorno all’evento di questa serata. Steve Harris senza la sua storica creatura, gli Iron Maiden, ma con una nuova proposta. Si sono spese ingenti quantità di parole, teorie, ipotesi sulla genesi di questo progetto e di cosa abbia portato uno dei timonieri più inossidabili della storia del metal a dargli forma concreta. Ce ne sarà davvero bisogno di questo Leone Inglese? Nel pubblico latitano i giovanissimi, segno probabilmente che la curiosità e l’interesse per questo progetto siano fortemente legati al carisma che il fondatore e leader ha saputo esercitare negli anni doro della Vergine di Ferro. Ad onor del vero, il numero complessivo dei paganti è decisamente basso. Sì, forse ci si poteva immaginare che il sold out non ci sarebbe stato, però la penuria di teste sotto al palco non pare rendere onore al mostro sacro che sta per calcarlo. Veniamo anche a sapere che nelle date precedenti del tour, le presenze sono state anche decisamente inferiori a quelle di stasera (nemmeno un terzo del Live viene riempito). L’andamento del tour non pare certo dei migliori, ma, d’altra parte, è forse da considerarsi in linea col livello dell’album. Siamo quindi sul punto di verificare la resa di questa nuova avventura musicale del bassista inglese…
ZICO CHAIN
Il leone inglese si fa accompagnare da un trio di compatrioti dediti ad un rock/metal di facile impatto, con uno stile molto moderno, che strizza l’occhio alle generazioni più giovani. Anche nel look, i Nostri, infatti, non più esattamente teenager ad onor del vero, si presentano sfavillanti, biodissimi, con taglio corto, ad eccezione del rastone alle pelli, vestiario un po’ stretch con giubbottini senza maniche. I primi brani funzionano anche bene, con melodie catchy che riempiono bene nei ritornelli più induriti per poi lasciar spazio a ritmiche più pulite e dimesse nelle strofe. Piuttosto banale e scontata come soluzione compositiva, che dopo i primi due o tre brani mostra i suoi seri limiti. Passate le prime hit con ritornello “superboom” non rimane più niente, e, a parte un brano che lascia di stucco, tanto il plagio è palese da “Fear Of The Dark” degli stessi Iron Maiden (forse scontano così, supportandolo per tutto il tour, la minaccia di querela proprio da Harris, mah… ndA), le idee sbiadiscono rapidamente. Anche l’inserimento di un assolo di batteria in posizione piuttosto anticipata nella scaletta, che tra l’altro si rivela più “simpatico” che altro, sembra un po’ forzato. Le espressioni del batterista variano teatralmente dal felice all’assonnato, a seconda della forza con cui ribadisce sempre lo stesso fraseggio. Insomma, trovate un po’ campate per aria, che al più fanno sorridere. Cosa li avrà portati in questo tour, francamente, non riusciamo a capirlo. In fondo sono una sorta di boy band che regge a stento, e sinceramente anche fuoriluogo. Anche dal punto di vista più prettamente musicale ed esecutivo, c’è molta più scena che altro. Ci sono più posture esaltate che assoli. Più atteggiamento che composizione. Forse potrebbero essere scritturati per la colonna sonora del prossimo episodio di “Twilight”. Ma qui, alla corte di Mr Steve Harris, evaporano.
STEVE HARRIS’ BRITISH LION
Eccoci, è giunto il momento di vedere cotanto pezzo di storia da vicino. Sì, perché in effetti non capita tutti i giorni di vederlo così. Generalmente, la portata della sua prima band costringe a palchi e location ben più grandi e quindi ad una maggior distanza dal pubblico e dalla definizione della vista dei fan. E forse, sotto sotto, è proprio questo quello che manca a Mr Harris. Il contatto più caldo e diretto che situazioni più contenute offrono, come questa. E se anche un migliaio di presenze in più avrebbero sicuramente giovato, in fondo questo risultato di dimensione più familiare è abbastanza raggiunto. Diciamo “abbastanza” perché, comunque, nonostante Steve lasci sempre la parola all’amico frontman Richard Taylor e si faccia avanti solo a tratti per “rafficare” il pubblico col suo basso, cercando di non spiccare, ma solo di godere della situazione, il pubblico rimane quasi sempre focalizzato su di lui. Sulla grande rock star. Invocando il suo nome piuttosto che quello della band. Uno dei punti più discussi del primo lavoro della formazione, ed effettivamente uno dei punti deboli, ci sentiamo di aggiungere, è la performance vocale. Quindi, il primo a finire sotto la lente è proprio Taylor. Da promuovere. Dal vivo, in effetti, la sua voce suona molto meglio che su disco; si ascolta più piacevolmente. Quantomeno non appare così povera e fuoriluogo. Intendiamoci, non è una cosiddetta cima: rimane piuttosto anonimo come timbro, ma non commette errori; anzi, mantiene con sicurezza il controllo, replicando al meglio le linee melodiche. Il limite però è che, in realtà, ha un recinto molto stretto all’interno del quale muoversi con cotanta tranquillità e sicurezza. Il range di note è piuttosto limitato, non sale o non scende mai in modo sostanziale. In ogni caso, meglio di quanto ci si aspettasse. Il punto focale della band, ovviamente al basso, è invece ineccepibile: forse gli si possono rimproverare dei suoni meno pieni di quelli a cui ci ha abituato in altre sedi, ma in fondo ha anche bisogno di dare una personalità specifica al suo leone, per cui è plausibile che abbia ricercato dei suoni meno ovvi. Le chitarre e la batteria sono quindi delle macchine. Perfette, senza la benché minima ombra di titubanza, sbavatura… ed emozione. Ecco: proprio quella, manca l’emozione. Questi musicisti sono solo degli esecutori. Assolutamente bravi, ma senza anima. Sono gelidi nel riproporre ogni assolo ed ogni ritmica, come dei sequencer. Difficile dargli un voto, sono davvero professionali, ma siamo sicuri che non serva anche qualcosa di più? Paiono proprio lì per essere spersonalizzati e offrire esclusivamente il necessario supporto sonoro al duo Harris & Taylor. I brani, l’altro vero punto vacillante del disco, rimangono ciò che sono. Già non molto brillanti, non acquistano alcuna verve particolare. Non c’è quella iniezione di groove che si sperava. Li si accetta. Perché sono di Steve Harris. Insomma, speriamo che queste difficoltà e questo arrancare di un progetto che, sulla carta, sembrava avere tutte le porte aperte e le carte buone provochino un’autentica reazione di sfida nel vecchio leone inglese. Perché così non ci sono i presupposti per fare tanta strada. Fosse stato un altro gruppo, senza di lui, stasera a vederli ci sarebbero state forse giusto le rispettive mogli e fidanzate.
Setlist:
This Is My God
Lost Worlds
Karma Killer
Father Lucifer
The Chosen Ones
These Are The Hands
Guineas And Crowns
The Burning
Last Chance
Us Against The World
World Without Heaven
Do You Want It
Judas
Let It Roll
Eyes Of The Young