A cura di Davide Romagnoli
“One of the wonders of the world is going down / It’s going down I know / It’s one of the blunders of the world that no-one cares / No-one cares enough”. Certo è che nessuno potrà dire che queste parole sono ipocrite da parte di un personaggio come Steven Wilson: album, tour, etichetta, progetti continui accompagnano la sua vita in ogni momento, senza sosta. Il musicista inglese ormai è assurto ad una posizione di rilievo nella scena prog rock mondiale, e questo è anche merito della parte idealistica e stacanovista che accompagna la sua figura e la sua musica. Ancora presente in territorio italiano, dopo il recente show al teatro Dal Verme a Milano, sempre di supporto all’ultima fatica “Hand. Cannot. Erase”, questa volta Steven Wilson approda in uno dei teatri più belli d’Italia (e addirittura in una delle migliori ‘viste’ nella sua carriera, stando alle sue stesse parole), il Ponchielli di Cremona. Teatro gremito, ancora una volta specchio della qualità di una musica che non stanca mai i propri fan.
Dopo la consueta introduzione del tour con “First Regret”/”3 Years Older”/”Hand. Cannot. Erase”, sempre anticipate dalla parte visuale che ci guida nel clima narrativo del concept dell’album e verso la protagonista, Joyce Carol Vincent, nella sua spirale rivolta all’isolamento emotivo e sociale, Steven Wilson tiene però a precisare che lo show sarà diverso da quello visto nelle precedenti sessioni del tour, “per non avere quel sentore di deja-vu che si può avere in casi come questo”. La sera, infatti, presenterà brani che si accordano con il mood tematico del tour ma che conterranno numerosi momenti particolarmente succulenti, per deliziare anche coloro che hanno già avuto modo di assistere ad un concerto precedente della tournée (come nel caso italiano, la data di Milano di qualche mese fa). Piacevolmente presenti, sono infatti alcune vere e proprie chicche del repertorio Porcupine Tree, come “Don’t Hate Me”, nella seconda esecuzione del tour, che brilla con quella sua cadenza intima e nostalgica alternata ad una parte centrale di sperimentazione sonora da brivido, e perfettamente in linea con la narrativa della setlist della serata. Altra chicca insuperabile è “Dark Matter”, mai suonata prima d’ora con la formazione solista, che stende la platea sul finale a colpi di progressive spinto e funambolico, arricchito da prestazioni ineccepibili da parte dei musicanti: oltre al preciso Craig Blundell dietro le pelli e all’altrettanto genio di Nick Beggs al basso, sottolineiamo le prestazioni sempre maiuscole di Adam Holzman e Dave Kilminster, che regalano alcuni momenti di assolo da pelle d’oca durante tutta l’esibizione. Arricchiscono il palato dei vecchi fan dei Porcupine Tree anche “Sleep Together”, “Lazarus”, l’immancabile “Sound Of Muzak” (posta sul finale) e la più spinta “Open Car”, il cui riff portante farebbe la fortuna di qualsiasi band metal di ultima generazione. Wilson scherza infatti sul presentare canzoni come l’ultima citata nella cornice di un teatro secolare come il Ponchielli, ma quando la caratura della performance è a questi livelli – diciamo noi – nessuno può obiettare niente. Lo show scorre in tutte le sue due ore e mezza in maniera pulita e senza sbalzi, pur passando da declinazioni più pop ad altre più elettroniche, ad altre ancora più spinte e veloci, ad altre ancora più dilatate e sperimentali, facendo tenere gli occhi incollati al palco e le orecchie tese come antenne, volte a captare ogni singolo suono nascosto, in un’acustica assolutamente degna della cornice. Il repertorio della carriera solista non è assolutamente da meno e sfodera capolavori di performance come “Index”, ormai immancabile, e la mitica “Secretarian” dal magico “Grace For Drowning”, incredibile pezzo di musica progressiva e di gusto. Interessante è anche la b-side di “Hand. Cannot. Erase”, che probabilmente finirà su un’ep in uscita a gennaio, intitolata “My Book Of Regrets”, imperniata su di un grande viaggio metropolitano sul sedile posteriore di un taxi londinese, perfettamente in linea con il concept, ma più aperta a contaminazioni rock inglese e, forse per questo suo mood differente, incapace di finire nell’album principale. La canzone è comunque assolutamente pregevole e interessante, soprattutto nel suo momento centrale, ritmicamente molto riuscito. Incredibilmente evocativi risultano alcune derive nell’ultimo album, come “Routine” o “Happy Returns”, che presentano Wilson ormai nella sua condizione di portavoce e cantore della malinconia e della sua bellezza nascosta, come se ormai si fosse cucito addosso questo mantello di tristezza e poesia, che rende esibizioni come quella di stasera ancora più significative e sincere. Nulla viene però estratto dal primo “Insurgentes” e dal poetico “The Raven That Refused To Sing”, e anche se non si può muovere nessuna critica a personaggi di questo calibro, ai musicisti e alla loro performance, se non altro si potrebbe sentire qualcosa alla fine del concerto nei discorsi da vero fan su alcune scelte di setlist. Ma è quello che rende interessante ogni sortita di musicisti di questo spessore ineccepibile: il fatto che difficilmente venga presentato un canone trito e ritrito di musica stantia e standardizzata; a testimonianza di quanto scritto, basterebbe sottolinare come negli ultimi giorni siano state annunciate altre due date in territorio italico, a Firenze e Trieste.