L’ultima fatica discografica di Steven Wilson, “To The Bone”, ha diviso i pareri del pubblico: da una parte coloro che hanno capito il tentativo dell’artista inglese di avvicinarsi a sonorità più lineari e dall’altra chi ha visto in questa release un parziale passo indietro da parte di un artista che ha sempre amato la sperimentazione e che, innegabilmente, è riuscito a portare alta la bandiera del progressive rock per un trentennio, influenzando centinaia di formazioni. C’è molta curiosità, dunque, nei confronti della serata al Teatro degli Arcimboldi di Milano, per testare con mano la bontà dei nuovi pezzi in sede live. Appare evidente l’affetto che, da sempre, l’audience italiana tributa a Steven: il teatro meneghino è completamente sold out e quando finalmente le luci si abbassano, una fragorosa ovazione accoglie l’ingresso sul palco dei musicisti.
Il concerto si apre con un breve filmato introduttivo, proiettato su un telone semitrasparente posto di fronte alla band che sarà fondamentale per la componente visiva durante l’intera serata. Il video è composto da una serie di immagini commentate di volta in volta da un’unica parola: ‘religione’, ‘famiglia’, ‘morte’, ‘scienza’ e via dicendo. Spesso la stessa immagine si ripropone, ma con una parola diversa a fare da didascalia, sovvertendo significati e messaggi, tra ironia e critica sociale. Finalmente la band fa il suo ingresso sul palco e attacca immediatamente con “Nowhere Now”, primo dei numerosi estratti da “To The Bone”. La nuova composizione funziona bene sul palco e lo stesso si può dire anche per la successiva “Pariah”, che risulta intensa ed emozionante. Assolutamente perfetto l’utilizzo del già citato telo, su cui viene proiettato il volto di Ninet Tayeb per il duetto virtuale previsto dal brano. Steven Wilson, nonostante la sterzata stilistica, non ha però alcuna intenzione di mettere in piedi uno spettacolo pop-rock e la cosa appare evidente con l’accoppiata “Home Invasion” / “Regret #9”, un eccezionale vortice progressive che mette in mostra l’eccellenza di tutti i musicisti coinvolti. Naturalmente non possono mancare episodi dalla luminosa carriera dei Porcupine Tree tra cui “The Creator Has A Mastertape”, che suona ancora potentissima anche senza il contributo degli ex-compagni di Wilson. Il concerto prosegue mantenendosi su ottimi livelli e dando ampio spazio alle canzoni più recenti, dalla sentita “Refuge” fino alla lunga e articolata “Ancestral” (da “Hand. Cannot. Erase.”), passando per “People Who Eat Darkness” che racconta, come spiegato da Steve, della nuova paura dei nostri tempi verso il pericolo invisibile in agguato: persone che vivono in mezzo a noi, che abitano nei nostri quartieri, che magari incontriamo tutti i giorni e che nascondono le peggiori atrocità dietro una maschera di normalità. Dopo una pausa di venti minuti si aprono le danze del secondo set della serata, introdotto da un capolavoro come “Arriving Somewhere But Not Here”, che strappa una meritata ovazione sebbene chi vi scrive abbia sentito la mancanza del tocco di Gavin Harrison alla batteria. Dopo questo pezzo da novanta l’artista inglese si concede un lungo preambolo per spiegare quello che il pubblico milanese andrà ad ascoltare di lì a poco: Wilson racconta come la sua crescita musicale sia stata divisa tra gli ascolti più seriosi di suo padre e la leggerezza pop di sua madre. Sembra quasi che il cantante voglia giustificare questa sua incursione in territori leggeri, specificando come il suo desiderio fosse quello di ispirarsi a grandi nomi di qualità, dagli Abba a Prince, passando per i Tears For Fears e i Beatles. Non certo il pop moderno che, come chiosa tra le risate generali, è oggettivamente e scientificamente ‘merda’. Naturalmente questo discorso non può che precedere l’esecuzione di “Permanating”, lo strano esperimento disco-pop che ha permesso a Wilson di vedere ‘uomini serissimi con la barba e la maglietta degli Opeth mettersi a ballare in teatro’. Noi, lo ammettiamo, non siamo rimasti particolarmente colpiti da questa performance: perdonaci, Steve, ma ti preferiamo quando ci suoni quella che scherzosamente hai definito ‘miserable, sad, depressive, suicidal stuff’. La lunga serata procede tra altri episodi di “To The Bone” (“Song Of I”, “Detonation”, “The Same Asylum As Before”) e qualche altro estratto dalla carriera dei Porcupine Tree (una immensa ed emozionante “Lazarus” e l’interessante ripescaggio di “Heartattack In A Layby”). Abbiamo già sfiorato le due ore di concerto e ancora Wilson e la sua band ci regalano emozioni con una tesissima “Vermillioncore” e una deflagrante versione di “Sleep Together” a chiudere il secondo set. Il pubblico chiama a gran voce Steve per i bis e il cantante sale sul palco da solo, con la sua chitarra, per una versione minimale ma emozionante di “Even Less”, tratta da quel gioiello che risponde al nome di “Stupid Dream”. Wilson approfitta dell’occasione per ringraziare il pubblico italiano, raccontando come agli inizi della sua carriera il nostro Paese sia stato per lui una seconda casa, raccogliendo consensi che ancora non era riuscito a guadagnarsi nemmeno nella sua Inghilterra. È il momento di congedarsi, dunque, ma non prima di aver regalato alla platea “Harmony Korine” e, soprattutto, una splendida “The Raven That Refused To Sing”, che chiude in maniera magistrale un concerto ineccepibile. Forse “To The Bone” non avrà convinto tutti gli estimatori dell’ex-leader dei Porcupine Tree, ma oggi tutti i presenti sono potuti tornare a casa con un sorriso sulle labbra, certi di aver partecipato ad una di quelle serate magiche da ricordare a lungo.
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