- STIGE FEST IV @ Campus Industry Music - Parma

Pubblicato il 17/03/2023 da

Report di Roberto Guerra Andrea Intacchi

Un soleggiato pomeriggio in quel di Parma, in prossimità di un luna park, non sembra apparentemente la cornice ideale per un piccolo festival dalle molteplici sfaccettature e rivolto fortemente agli amanti del metal nella sua connotazione più diretta e a tinte oscure. Eppure, possiamo dire che l’evento in programma oggi al Campus Industry Music pare proprio uno di quelli tanto cari ai metallari meno attaccati ai fronzoli contemporanei, e la cosa che più ci esalta è vedere un massiccio schieramento di realtà italiane farla letteralmente da padrone in questa sede, seppur prontamente affiancate sul campo di battaglia da ben due rinforzi provenienti dall’Olanda, nonché da un quartetto assassino proveniente dalla cara vecchia Londra, seppur di fondazione australiana, quei Destroyer 666 cui viene giustamente riservata una posizione di rilievo all’interno del bill.
Immancabile inoltre l’angolo delle distro, dove spendere i propri soldi in dischi e pezzi da collezione, e il cortile esterno dove rifocillarsi tra un’esibizione e l’altra. Anche perché, come dicevamo, siamo in presenza di un piccolo esercito armato fino ai denti, che vedrà nei nostrani Death SS il proprio rappresentante più illustre, anche se nel corso della giornata più di una formazione verrà segnata negli appunti di chi scrive come materiale da approfondire. Del resto, è anche grazie a eventi come questo che è possibile capire in quali acque stia effettivamente navigando il nostro genere musicale preferito sul versante dell’accoglienza, dell’organizzazione e della resa generale, anche tenendo conto che è passato meno di un anno da quando la scena ha ripreso a funzionare a pieno regime dopo lo stop dato dalla pandemia.
Per adesso, le uniche acque in cui vogliamo farci traghettare sono, per l’appunto, quelle dello Stige, e a giudicare dalla notevole affluenza prevista, siamo certi che saremo presto in ottima compagnia. Buona lettura!

Direttamente dalla provincia di Varese, i primi a smerigliare la loro porzione di metallo rovente sono i deathster DEVOID OF THOUGHT, guidati dal frontman Andrea Collaro e ancora forti dell’uscita in pieno periodo di pandemia del loro primo full-length “Outer World Graves”, da cui proviene anche il repertorio che in poco più di mezz’ora la band propone agli ancora non numerosissimi astanti.
La parvenza musicale di quanto espresso da questi giovani si traduce in atmosfere cosmiche, accostamenti musicali tetri e nel contempo violenti, con degli sfoggi di tecnica evidenti, ma mai esagerati, perfettamente in linea con quanto richiesto da un sound abissale di matrice lovecraftiana. Anche l’attitudine on stage rispecchia perfettamente questi tratti, in quanto la band sceglie di non sprecare del tempo prezioso per chiacchierare coi presenti tra un pezzo e l’altro, senza però scadere in una parvenza odiosa o svogliata; anzi, riteniamo che si tratti di una scelta calcolata sulla base dello stile e dell’immagine che si desidera mettere in mostra.
Purtroppo in questi primi minuti di festival i suoni non sono esattamente al top, e questo rappresenta un leggero ostacolo nel momento in cui ci si vuole immergere nelle atmosfere evocate da brani come la iniziale “Perennial Dream”, la lunga “Effigies Of A Distant Planet” o quella “Stargrave” che chiude anche l’attualmente unico disco disponibile. Ciò nonostante, il primo assaggio d’acqua dello Stige ci convince, e siamo più che certi che sentiremo presto parlare ancora di questa band. (Roberto Guerra)
Bene, dopo questa prima parentesi gutturale e da incubo, siamo pronti a fare un balzo indietro nel tempo con la prima sorpresa di oggi: i defender abruzzesi WITCHUNTER, il cui sound heavy/speed metal ci ha messo una notevole acquolina in bocca già dal momento dell’uscita del loro recente lavoro “Metal Dream”, da noi già abbondantemente etichettato come il migliore mai immesso dai ragazzi sul mercato.
Anche la scaletta ovviamente fa abbondantemente sfoggio dei nuovi pezzi, tra cui vogliamo menzionare ovviamente la affilata titletrack, la più tetra “Black Horror” e la più manowariana “Hold Back The Flame”, all’interno della quale la band ribadisce il proprio amore per tutto ciò che è l’heavy metal più puro, insieme alla volontà di mantenerne vivi e possenti i fasti. Effettivamente, possiamo dire che il sacro vessillo dell’heavy metal pare essere davvero in ottime mani, e questo perché i Witchunter, molto semplicemente, spaccano! La loro presenza sul palco è perfetta, il loro sound graffia e ferisce come la lama di un coltello seghettato e i pezzi sembrano scritti apposta per rovesciare una colata di metallo rovente su tutti i presenti. Per quanto ci esalti assistere a quanto partorito dall’accoppiata di Gibson Les Paul furenti maneggiate da Silvio Verdecchia e Federico Iustini, è il cantante Steve Di Leo, con tanto di ugola squillante, a incarnare perfettamente l’essenza di un frontman giovane ed energico, rigorosamente ligio alla vecchia maniera di intrattenere un pubblico che non mostra alcun segno di titubanza per tutto l’arco di uno show che finisce francamente troppo presto. Siamo ben lieti di apprendere che i Witchunter si esibiranno all’edizione Rising del mitico festival tedesco Keep It True nel mese di ottobre, e siamo certi che anche in quella sede il metallo italiano non ne avrà per nessuno. (Roberto Guerra)
Dopo la suddetta sferragliata, sul Campus Industry parmense arriva il momento della gelida performance degli HELLERUIN, prima band, insieme a Bodyfarm e Destroyer 666, a comporre il terzetto bombarolo protagonista di un tour ad hoc, inseriti per l’occasione nell’evento Stige Fest. Il quintetto di Groningen, guidato dallo spiritello Carchost (all’anagrafe Niels Kuiper), nei quaranta minuti previsti, riversa sugli astanti la propria dose di glacialità, costruita su un black metal atmosferico e melodico, dove i midtempo vanno a braccetto con lunghe marce borchiate da riff taglienti, su cui si bilancia da una parte la litania in formato scream dello stesso Carchost, dall’altra la trama malinconica ed avvolgente intarsiata dalle due chitarre, perfettamente equilibrate anche da un punto di vista prettamente estetico.
A stabilizzare i ciondolanti movimenti del collega d’ascia, ci pensa infatti lo statuario e immobile Misaer, dipinto in volto come il B.War di mardukiana memoria. L’assalto dell’act olandese è di quelli catartici: Carchost si presenta con tanto di bracciali chiodati, lasciato volutamente in ombra, così che i compagni possano tranquillamente aprire le danze. Si comincia con “Faces Of War”, direttamente dal primissimo demo targato 2016, ed è qui che avvertiamo alcuni problemi di settaggio dei volumi, soprattutto per quanto riguarda la sezione ritmica con la batteria a coprire il resto della strumentazione. Le cose, fortunatamente si aggiustano abbastanza velocemente (ma ritorneranno a peggiorare più avanti nel corso della serata), dando così modo agli Helleruin di portare avanti uno show intimo, capace nel contempo di far presa immediata sul pubblico, grazie alle fulminanti strisce di riff, sapientemente calibrate su più ritmiche (come la trascinante “No Light Shines Through”) con l’aggiunta di azzeccati rimandi alla Mgla a condire il tutto. Set coinvolgente che mette in mostra le capacità compositive e da frontman del mastermind olandese, ricoperto da quell’aurea di misteriosa estraneità che si protrae anche nel corso della serata, mentre si aggira all’interno del locale durante le esibizioni dei gruppi a seguire. Helleruin che, proponendo sei pezzi tra i vari demo, singoli e l’unico full-length finora rilasciato “(“War Upon Man” del 2021), convincono la platea emiliana la quale, al termine dell’ultimo scream, si presenta prontamente in zona merch per gli acquisti del caso. (Andrea Intacchi)
Fieri paladini di un black/thrash rozzo e crudele, propulsori di un’attitudine estremamente underground, i mantovani NECROMUTILATOR si materializzano dal nulla sul palco dello Stige Fest con il solo scopo di far del male ai padiglioni auricolari di coloro che, dopo una sosta rigenerante (magari nel vicino luna park), si sono riposizionati nei pressi delle transenne per trascorrere un piacevole tardo pomeriggio. Pest alla chitarra, pronto a lacerare l’aria con i suoi putridi strali blasfemi, Ends incappuciato al basso e il nuovo A.Z.Mond dietro le pelli, in seno alla band dal mese di gennaio: formula a tre, la classica, la più diretta, senza se e senza ma.
Anche per loro il running order recita i quaranta minuti previsti, durante i quali possono divagare tra i tre album sinora rilasciati, compreso l’ultimo “Oath Of Abhorrence” dello scorso ottobre.
Tuttavia, le note dolenti alla voce ‘volume’ chiamate in causa con gli Helleruin, sono purtroppo tornate a farsi vive proprio con i Necromutilator andando a penalizzare parte della prestazione dei nostri. E’ soprattutto la sei corde di Pest a non trovare il giusto spazio sonoro, rimanendo nascosta in diversi pezzi proposti, salvo rinascere dalle viscere nella seconda metà della setlist durante la quale, guarda caso, si scatena anche un simpaticissimo pogo a centro pit. Riff polverosi, feroci, barbari, orgogliosamente incazzati e sguinzagliati con crudele minimalismo dallo stesso Pest, schivo dietro gli occhiali neri d’ordinananza, sempre pronto a rilanciare nuovi assalti grevi e tombinali, supportati a dovere dagli stacchi catacombali di A.Z.Mond, a sottolineare l’intento fulmineo e omicida del gruppo mantovano. Come una sferzata d’odio a ciel sereno, nello stesso modo in cui sono apparsi, i Necromutilator ringraziano a modo loro ritornando malignamente nell’oscurità. (Andrea Intacchi)
Sono invece le 19.20 quando sul palco parmense viene installato un ipotetico passaggio a livello rigorosamente incustodito: sul binario morto del Campus Industry è in arrivo, direttamente da Utrecht, il pendolino death metal dei BODYFARM. Una sventola in pieno volto che ci coglie leggermente impreparati in quanto, oltre ad una giustificata curiosità, nello specifico di chi scrive non avevamo avuto sino ad oggi testimonianze live della band olandese, che diviene così un’altra graditissima sorpresa. Beh, cosa dire? Genuina violenza e old-school allo stato puro per una band che non è mai riuscita ad esplodere definitivamente-  anche a causa di alcuni sfortunati eventi che l’hanno colpita nel recente passato, come la scomparsa del leader e co-fondatore Thomas Wouters, avvenuta nel 2019, lasciando a Bram Hilhorst il compito di portare avanti l’intera baracca, ricostituendo in pratica l’assetto globale della formazione, con il bassista Ralph De Boer a ricoprire anche il ruolo di cantante.
Reduce dall’ultima release a nome “Ultimate Abomination”, pubblicata lo scorso febbraio, il combo olandese non si perde in chiacchiere andando subito al sodo. Quello che ci cade in testa è una gradevolissima valangata di death metal mescolata a dovere tra le vecchie sonorità ottantiane e qualche tocco di modernità più melodiosa, con sparuti richiami al sound di matrice svedese; il tutto sprigionato in una mole sconsiderata di mid tempo e assalti col doppio pedale. Lo sferragliamento dei Bodyfarm, compatto, tecnico e finalmente senza alcun inghippo fonico, prende avvio con “Dreadlord”, tratta dall’omonimo album, utile a stabilire nell’immediato le coordinate della setlist a venire. E mentre là dietro David Schermann (alla sua seconda apparizione dopo la prestazione con gli Helleruin) si diverte a menare come il più classico dei fabbri, tocca ad “Unbroken” e alla nuova “Blasting Tyranny”, dal fortissimo sapore alla Possessed, alzare il livello passionale del concerto, coinvolgendo di conseguenza anche il pubblico, profondamente connesso con i quattro interpreti. Cingolato che appesantisce i colpi con la poderosa “The Swamp”, confermando la graniticità di Hilorst e compagni e di come, ancora una volta, la formula della spontaneità sia sempre quella più diretta e vincente. Il treno dei Bodyfarm non si concede pause arrivando velocemente al capolinea con la selvaggia e definitiva “Slaves Of War”, per un ultimo e gudurioso scapocciamento generale. (Andrea Intacchi)
Torniamo in territori più vicini al black metal col progetto abruzzese che risponde al nome SELVANS, scritto, interpretato e portato in scena dall’uomo che si cela dietro una realtà tra le più particolari che è possibile trovare in territorio italiano. Parliamo naturalmente di Luca Dal Re, che sceglie ancora una volta di indossare un microfono in volto, di modo da poter tenere libere le mani e rendersi così fautore di una vera e propria rappresentazione teatrale dalle forti connotazioni folk a tema italico, e da un ex membro degli apprezzatissimi Draugr sarebbe difficile aspettarsi diversamente.
Essendo l’unico rimasto in pianta stabile, il visionario frontman si avvale della collaborazione di un combo di musicisti preparati, tra cui i chitarristi Gianluca Silvi (Battle Ram, DoomSword) e Christian D’Onofrio (Insonus, L.A.C.K.), il cui contributo appare fondamentale per una resa ottimale di brani che dal vivo ci coinvolgono ancor più che su disco: in particolare le recenti “Verrà Corvo Morto”, “L’Inferno” (cover medley del progetto Metamorfosi) e “Iò Pan!” rendono alla perfezione la capacità di Luca di intonare delle vere e proprie litanie malefiche in lingua italiana, con una sapiente alternanza tra la classica timbrica black e sfoggi in voce pulita.
Davvero degne di menzione anche la più datata “Lupercalia”, la misteriosa “Il Mio Maleficio V’Incalzerà!” e, soprattutto, l’inaspettata cover di “Come To The Sabbath” di quel mito vivente che sono ancora oggi i Mercyful Fate. Non bisogna infatti dimenticare che Luca è un comprovato appassionato di heavy metal, e pur essendo molto coerente col suo stile dal retrogusto avantgarde si sentono le ispirazioni date dai grandi miti del passato, anche solo semplicemente nella gestione delle parti di chitarra e delle ritmiche ondivaghe, capaci di frantumarci il collo a forza di headbanging, ma anche di farci rallentare in vista di uno o due passaggi più riflessivi. Magari non sarà una proposta per tutti, ma personalmente ci sentiamo di annoverare quella dei Selvans tra le migliori esibizioni della giornata. (Roberto Guerra)
All’arrivo presso il Campus Industry circolavano strane voci sullo stato di forma dei DESTROYER 666: secondo i più informati, infatti, la band di Melbourne avrebbe mostrato segnali di staticità e scarso entusiasmo nel corso dello show di Roma tenuto la sera precedente. Da parte nostra possiamo solamente sentenziare che a Parma i lupi australiani hanno semplicemente messo a tacere qualsiasi dubbio del caso, abbattendo nel vero senso della parola qualsiasi oggetto (animato e non) sito di fronte loro. Borchiati di tutto punto, KK e soci non danno spazio ad alcun ripensamento di sorta, schiacciando il piede sull’acceleratore dal primo all’ultimo riff, anche in quegli episodi più ‘intimi’ (passateci il termine) e meno roboanti.
Da parte sua il pubblico non aspetta altro e sin dalle prime note di “Never Surrender”, title-track dell’ultimissimo album (rilasciato lo scorso novembre) è letteralmente un fiume in piena, lanciandosi perentoriamente da una parte all’altra del pit, per quelli che saranno sessanta minuti di assoluta violenza sonora e – perchè no? – anche fisica. Stando leggermente nelle retrovie è alquanto singolare vedere la possanza e fierezza dei quattro musicisti contrapporsi al lancinante ammasso di corpi scagliarsi uno contro l’altro con tanto di sorriso stampigliato sui vari volti. Lo show prosegue con la tradizionale “Wildfire” prima che l’inno “I Am The Wargod” prenda possesso dell’intera platea; mentre dall’ultimo album viene proposta “Guillotine”, giusto per aizzare ancor di più l’headbanging sudorifero. Supportati da una resa sonora stavolta con tutti i connotati al posto giusto, i Deströyer 666 continuano la loro mordace marcia black/thrash, giungendo a rapidi passi alla parte conclusiva della propria prestazione, e dopo la nuova “Pitch Black Night” arriva come da copione un trittico finale da leccarsi i baffi, giusto per rimanere in ambito animalesco: prima è la malinconica “Trialed By Fire” a stendere quel velo di misteriosa ferocia, interrotto dal ringhio dello stesso KK a rilanciare la seconda parte del brano su cui si alternano i ruggiti del biondo chitarrista e gli ululati del compagno Felipe Plaza; quindi è il turno della violentissima “Lone Wolf Winter” a destabilizzare ulteriormente l’ambiente, ampliando l’area adibita al mosh pit più becero, ma è con “Satanic Speed Metal” che la band oceaniana (per la verità è una sorta di gruppo internazionale, con il solo KK Warslut a battere la bandiera dell’Australia) lascia il segno definitivo sulla serata, convogliando in ultimo vortice tutta l’energia sprigionata in precedenza. Insomma una gradevole oretta distruttiva, utilissima a sgranchirsi un po’ le ossa. (Andrea Intacchi)
Arriviamo così all’esibizione più attesa della giornata, ovvero quella degli iconici DEATH SS, che stasera portano in scena uno spettacolo completo di tutti i loro elementi caratteristici, incluse le ballerine dai molteplici outfit, lo schermo posteriore, i cannoni coi coriandoli e gli immancabili costumi di scena.
Malgrado la stanchezza data da tutta la giornata in pole position, la nostra voglia di farci un viaggio nell’orrore old-school inscenato da Steve Sylvester e soci è grande e ben salda, e i rintocchi iniziali della recente “The Black Plague” creano una suggestiva atmosfera, su cui poi si scaglieranno i vagiti inarrestabili di “Cursed Mama” e “Horrible Eyes”, per non parlare di “Where Have You Gone?” e “Baphomet”, degna rappresentante della componente più diabolica di questa storica realtà nostrana.
La resa generale appare ottima e i suoni di buona fattura, e malgrado qualche calo di Steve lo show sembra decollare, sostenuto da una band dal tocco professionale e grintoso al punto giusto, in particolare la chitarra mancina di Giulio Borroni e il basso di Dimitri Corradini, pur senza nulla togliere anche a Emanuele Collato alla batteria e al sempre riconoscibile Freddy Delirio alle tastiere.
Purtroppo, verso metà scaletta si percepisce un leggero appiattimento, dato probabilmente dalla scelta di collocare in successione troppi brani più orientati alla valorizzazione dell’atmosfera, anziché sulle sferzate metalliche vere e proprie, scelta che di fatto smorza visibilmente parte dell’entusiasmo negli astanti. Non ci sentiremmo mai di togliere qualcosa a inni come “Terror e “Family Vault”, o anche alla recentissima “Suspiria (Queen Of The Dead)”, ma ciò nonostante riteniamo che la fase centrale dello show avrebbe giovato non poco dell’inserimento di qualche fase concitata in più. I presenti ritrovano tuttavia il pieno coinvolgimento verso la fine, con quella “Vampire” che precede un encore tanto prevedibile quanto inestimabile: “Kings Of Evil”, “Let The Sabbath Begin” e “Heavy Demons” in rapida successione, per una conclusione di giornata coi fiocchi, tutto sommato in linea con altre loro esibizioni recenti. (Roberto Guerra)

Death SS setlist:
The Black Plague
Cursed Mama
Horrible Eyes
Where Have You Gone?
Baphomet
Zora
The Crimson Shrine
Baron Samedi
Terror
Family Vault
Temple Of The Rain
Scarlet Woman
Suspiria (Queen Of The Dead)
Vampire
Kings Of Evil
Let The Sabbath Begin
Heavy Demons

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